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La Caduta. Atto Dodicesimo. Dei dubbi e di un funesto presagio

By 20 Luglio 2021No Comments

-È una vera catastrofe…-, il sibilo di Amsio Calus parve gelare l’intera assemblea. Ufficiali, governatori, presenti fisicamente o tramite comunicatori di vario tipo, ben una quarantina di persone presenziavano a quella riunione. E tutti temevano quelle parole.
-L’Impero è assediato su più fronti. Sta annegando nel sangue. Nimandeo pressa a oriente, Aristarda incalza da occidente…-, Calus passeggiava lungo la sala, il viso teso in un espressione di rabbia e timore. Forse, e solo forse ora si era reso conto di quanto stava realmente accadendo all’Impero che aveva preso per solido e garantito.
-Mio signore, secondo le nostre stime, abbiamo ormai perso quasi un quarto delle nostre forze. E il logoramento su più fronti ci costringerà a cedere terreno, da una parte o dall’altra.-, interloquì un Legato. Amsio lo fissò.
-È dunque questa la fine del mio regno?-, chiese, lo sguardo vacuo e spaventato.
-No.-, rispose il Legato, -Ma dobbiamo cercare alleati. I nostri nemici ci stanno dissanguando. Questa guerra richiede che le cose cambino.-.
-Nimandeo Feral si aprirebbe alla trattiva?-, chiese Calus, -So che Aristarda non lo farebbe.-. Vi fu silenzio. Chi poteva dire cos’avrebbe deciso quell’uomo, imprevedibile e barbarico come i nemici dell’Impero che avrebbe dovuto assoggettare e di cui invece s’infatuò?
-Potremmo tentare di reclutare i barbari delle isole nordiche. I Variaghi!-, saltò su Licinia Premisia, Governatrice della remota regione della Fjordia.
-Quei barbari? Morirò prima di vedere i selvaggi battersi al nostro fianco!-, insorse un milite. Licinia gli rivolse uno sguardo duro. All’alba dei cinquant’anni, la donna pareva ancora in grado di incutere timore e rispetto.
-Preferisci affrontare tu il nemico sapendoti in inferiorità? Quale compromesso è inaccettabile quando è la salvezza dell’Impero che fu dei nostri padri ad essere in pericolo?-, chiese. Un Legato avanzò, mettendosi a fianco di Licinia.
-Io concordo. I barbari nordici potrebbero essere coloro che salveranno l’Impero da sé stesso. Nulla ci vieterebbe poi di assoggettarli pacificamente.-, disse.
-È follia!-, esplose un veterano coperto di cicatrici e cieco da un occhio, -I barbari non si piegano! Io li ho combattuti: non si sottomettono e non ammettono altre leggi che le proprie. Possiamo sicuramente convincerli a combattere per noi pagandoli, ma scordatevi l’idea di poterli conquistare. Moriranno prima di piegarsi!-.
Amsio Calus, seduto sul trono a lui dedicato, rivolse uno sguardo alla figura di un cieco avvolto in vesti bige.
-Ausper?-, chiese, -Che vedi?-.
L’indovino sorrise, e il sorriso fu tutto ciò che si vedeva del viso, coperto dal cappuccio.
-Io vedo un grande cambiamento. La fine del conflitto, l’Aquila posa e poi fiera. La lama del fato che taglia i fili di arazzi ormai futili.-, disse.
Amsio distolse lo sguardo. La profezia non gli diceva molto.
-Ma di me? Che vedi?-, chiese, -Che sarà del mio regno?-.
-Che sarà del regno di ogni uomo se non di tramandarlo a coloro che lo seguiranno?-, chiese Ausper. La voce dell’indovino pareva lontanissima, vaga.
-Mi confondi. Odio essere confuso.-, rispose Amsio.
-Mio signore, fidatevi, i Variaghi saranno eccellenti per riequilibrare il conflitto.-, disse Licinia. Amsio la guardò. Sorrise.
-Li conosci assai bene, governatrice.-, notò. Lei annuì.
-I loro costumi mi sono noti, sì.-, ammise, -E posso garantire per la loro collaborazione.-.
-E sia.-, decise Calus, -Portami i rinforzi e fai sì che possano venire dispiegati sui fronti quanto prima. Antasario ormai dovrebbe avere notizie dello scontro con Serena Prima.-.
Fu proprio in quel momento che un messaggero entrò. La sua corazza era lacera e sporca, ed egli sanguinava come fosse giunto dalla battaglia, ma il viso era di chi aveva invero veduto l’Ade ed era tornato.
-Mio signore! Vittoria! A caro prezzo ma abbiamo fermato Serena Prima!-, esclamò.
Le ovazioni fecero tremare la sala.
-Lunga vita all’Imperatore Calus! Mille anni di fausto regno!-, esclamavano.
Calus sorrise. Al diavolo le fallaci profezie di Ausper: il suo impero avrebbe visto la fine di quella guerra, di questo era sicuro!

Serena Prima gettò la corazza strappandosela di dosso.
La battaglia era stata terribile. I lealisti avevano perso moltissimi uomini ma lei e i suoi erano stati costretti alla ritirata. Pur sapendo che ciò significava sicuramente un altro passo verso la resa di Calus, era ben conscia che le perdite avevano superato i possibili guadagni. Eccetto per la giovane dagli occhi piacevolmente a mandorla, nella sua tenda non c’era nessuno. Afferrò e bevve rapidamente un bicchiere d’acqua che non le diede sollievo.
-Mia signora, desiderate vi prepari il balineum?-, chiese la giovane. Serena pensò che tutto avrebbe dovuto fare meno che rilassarsi, meno che concedersi all’indulgenza di simili piaceri. Ma… Lo voleva. Voleva il bagno, voleva sentire la tensione abbandonare i muscoli, lo spirito risollevarsi. Lo bramava.
-Preparamelo. Ma non subito.-, disse. Si mise una veste. Uscì. Il campo era in fermento. Feriti venivano curati, morti venivano seppelliti. Il solito. I suoi uomini si mischiavano poco con i barbari di Nimandeo, preferendo far da sé, ma non era sempre possibile evitarlo. Serena ascoltò gli ufficiali, interrogò i capi delle truppe alleate.
La disfatta era pesante, e molti degli alleati barbari erano morti. Le sue truppe, i suoi uomini eroici sino all’ultimo, erano ancora in piedi, sebbene non privi di perdite.
Scorse Nimandeo Feral. L’uomo passava tra i feriti, sinceramente addolorato per ognuno di loro. O così pareva… Ancora Serena non capiva se fosse una messinscena o se realmente il condottiero divenuto barbaro si struggesse per le vite perdute.
-Ave Serena, mea comes.-, disse raggiungendola.
-Ave Nimandeo, Imperator.-, rispose lei. Lui si accigliò.
-Credevo di aver reso chiaro di non essere interessato al Trono.-, disse. Serena sorrise.
-Sono certa che cambierai idea. Il Trono ha bisogno di un occupante degno. Tu lo sei più di molti.-, disse. Lui annuì, e parve perso per qualche istante. Lei attese.
-Perché non Aristarda Nera?-, chiese.
“Perché è un’ingrata bastarda, e perirà come tutti gli altri che osano ostacolare la Cerchia!”, pensò Serena. Ricordava bene come fosse finito il colloquio con lei.
-Non é… idonea al governo. È pur sempre sorella di Septimo.-, disse invece.
-Ah. Invero però so che delle province da lei rette, nessuna ha denunciato abusi o ingiustizie.-, ribatté Feral. Serena sorrise, l’uomo era ben preparato. Meglio di quanto avesse pensato. Aveva creduto che il disinteresse di quel condottiero per l’Impero l’avesse spinto ad isolarsene interamente, eppure ora scopriva che così non era.
“C’è speranza. Dice che non gli interessa l’Impero ma si tiene informato.”, pensò.
-Come nelle tue, nobile Nimandeo.-, rispose. Lui parve pensieroso.
-Dopo una sconfitta non sono certo siano argomenti da trattare. Com’è accaduto?-, chiese.
Nessun rimprovero gravava la sua voce, solo la quieta curiosità di chi vuole sapere.
-Ci hanno fiancheggiati. Hanno combattuto tradizionalmente poi il loro centro e l’ala sinistra hanno ceduto, ripiegando verso Alexandra Ultima e credevo avessimo vinto. Invece, quando diedi l’ordine di avanzare, le loro forze corazzate al gran completo colsero il nostro fianco destro con una mossa notevole. Fui costretta a combattere in prima linea per fare sì che lo schieramento non cedesse. Riuscimmo a ripiegare e infliggemmo loro gravi perdite.-, spiegò, -Ma ci hanno fermati.-. “Mi hanno fermata!”, pensò strepitando tra sé.
-Nondimeno hanno perso molti uomini.-, notò Nimandeo.
-Sì. L’Aquila della XVIII legione è stata presa. I tuoi… soldati sono stati valorosi. Devo loro delle scuse. Hanno combattuto con ardore e coraggio.-, rispose Serena Prima.
-Capisco.-, disse Nimandeo, -Riposati. Ne parleremo a cena. Ordina che le truppe ripieghino verso Ulabattar.-. Serena annuì. Ritirarsi in una città, cercare supporto, riorganizzarsi e riprendersi. Tutte cose che poteva fare.
Eppure, quella sconfitta le bruciava. Era stata giocata come una novellina.
E non l’avrebbe permesso. Mai più.

Amsio Calus lasciò che Efia suggesse piano il suo membro. La festa per la vittoria era degenerata prevedibilmente in un’orgia. La nera succhiava magistralmente il frenulo dell’Imperator che ne accompagnava i movimenti del capo con la mano. Incerto se restare a farsi sollazzare o procedere ad un ruolo più attivo, Calus osservò ciò che accadeva intorno a sé, il calice di vino mezzo vuoto in mano.
Oltre la bella nera inginocchiata c’erano altri triclini. Livio Pratillo, governatore di Roma stava possedendo ferocemente una giovane dalla carnagione cerulea. Svetonio Crassio, Legato della XXXII legione sodomizzava di gran lena un’altra giovane, terminando con una copiosa venuta sulla schiena della ragazza che remissivamente non protestò.
Licinia invece pareva godersi la scena in solitudine, toccandosi piano.
Antavio Ribuzio veniva penetrato da un giovane mentre suggeva i seni di una cameriera.
Non sorprendeva che il banchetto luculliano fosse divenuto un’orgia, era consuetudine.
Quel che sorprendeva Amsio era che, fatta eccezione per Efia il resto delle ragazze e dei giovincelli presenti per le gioie dei nobili commensali era personale di servizio di palazzo.
Gente povera, o schiavi. Amsio non capiva: avrebbero potuto portarsi amanti da casa, o chiedergli di aprire loro il suo harem, si sentiva generoso da poterlo fare, ma invece no.
-Mendicanti.-, disse –non sanno godersi la vita.-.
-Mio signore?-, Efia, ancora avvolta nella veste riccamente ornata che l’Imperator le aveva donato il giorno prima, lo fissava con il membro di lui in mano.
-Niente.-, sorrise lui. La nera annuì.
-Volete che continui?-, chiese, servile ma con una luce lasciva negli occhi.
-Voglio che tu ti stenda sul triclino. Permettimi di possederti.-, disse lui.
Efia annuì. Fece per togliersi il vestito. Lui la fermò. –Tienilo.-, disse, -Mi eccita.-.
Si piazzò dietro la nera e, sollevata la veste, entrò nella sua intimità già calda e fremente.
Attorno, la festa continuava. Efia si abbassò sul triclino, inarcando le reni contro Calus.
Attorno il baccanale continuava, Licinia veniva ora leccata piano da un giovane hiberico.
Ursia Attica, una delle poche donne ad essere arrivate al rango di Legata penetrava con un fallo in legno d’ulivo un giovane mentre veniva a sua volta posseduta da Cruzio Severinio, governatore di Sciclia. La festa era divenuta un coacervo di visi, gemiti, corpi frementi e rumori umidi. Niente più musica o cibo. Solo vino, e solo su richiesta. Sesso per tutti e con tutti. Amsio era al centro dell’uragano, le mani strette sui fianchi di Efia le affondava dentro con foga, beandosi di quel momento mentre la nera gemeva, lieta delle attenzioni.
Poi lo vide. Indistinto a priori, poi come un fantasma. Silenzioso e impercettibile.
Ausper. Pareva un’apparizione maligna con la tonaca grigia e il cappuccio calato sul viso.
Passava tra i triclini come se ci vedesse, evitando magistralmente donne e uomini. Nessuno pareva accorgersi che ci fosse. Si avvicinò sino a lui. Amsio non si fermò: che andasse al diavolo. Voleva godere dentro Efia, gli importava solo questo!
Ma l’indovino sollevò una mano. Teneva un calice in pugno. Lo versò.
Il vino pareva sangue. Improvvisamente, Calus rabbrividì.
Amsio fece per parlare, per farsi udire al di sopra di gemiti, urla e imprecazioni di roca lussuria ma non ebbe modo. Ausper sparì, così com’era giunto, in un battito d’occhi.
-Efia?-, chiese lui. Lei si stirò, volontariamente inarcandosi contro di lui.
-Mio signore?-, chiese confusa, -Avete concluso?-.
-No… ma… l’hai visto?-, chiese Calus. Lei voltò il capo.
-Visto chi?-, chiese. Lui scosse il capo. Guardò a terra. Il vino c’era. Versato sul pavimento, pareva davvero sangue. Eppure…
-Nessuno.-, disse. Affondò nuovamente nella nera, imponendo un ritmo velocissimo per soddisfare la sua pulsione e scacciare il pensiero di ciò che Ausper poteva aver voluto dirgli con tale inquietante messaggio. Raggiunse quell’obiettivo pochi minuti dopo, eiaculando prepotentemente dentro Efia.

Serena Prima si abbandonò al bagno. L’acqua calda era un balsamo per le sue pene e la giovane che le massaggiava le spalle pareva più che capace nella sua arte.
Si chiese quanto in là si sarebbe potuta spingere. Si biasimò per lo star cedendo a quei piaceri mondani quando il suo fine era ben più puro e più alto.
Eppure…
Sarebbe stato così semplice smettere di lottare? Quello si chiedeva. Per tutta la vita aveva servito la Cerchia e Nimandeo le pareva l’antitesi di tutto ciò per cui lottava. Un nemico di Roma travestito da agnello, tuttavia era anche un uomo capace e le sue abilità non erano dovute agli insegnamenti del passato ma alla conoscenza di sé. Aveva voluto abbandonare Roma e le sue mire, e l’aveva fatto. C’era del merito in questo e c’era molto per cui biasimarlo. Serena sapeva, con assoluta chiarezza che quell’uomo sarebbe dovuto morire e che lei avrebbe dovuto ucciderlo.
Gemette quando le sapienti mani della massaggiatrice le sbloccarono una tensione nella spalle. Cercò di abbandonarsi a quel meraviglioso piacere ma la sua mente non abbandonava quei pensieri.
-Mia signora. Sei tesa.-, disse la giovane.
-Sì…-, ammise lei. Non sapeva cos’altro dire. Cosa dicevano i barbari in quei casi?
Un romaneo avrebbe asserito che la colpa era tanto propria quanto della massaggiatrice, ma lei sapeva bene che la giovane, pur essendo alle sue dipendenze per ordine di Nimandeo, non era romanea.
-Rilassati, signora.-, disse la serva. Le pizzicò il collo. Serena lasciò un gemito.
Si accorse appena che la giovane si era tolta le vesti. Aprì gli occhi. Vederla nuda fu strano.
Il corpo era minuto, ma ben proporzionato, i capelli lunghi tenuti da una crocchia con uno spillone sormontavano un viso quasi puerile, ma privo di difetti. Un sorriso bianco come la neve e labbra appena cesellate, accennate soltanto. Serena sentì qualcosa, nel suo ventre.
-Devi rilassarti, mia signora. Ed è mio dovere far sì che tu possa farlo.-, disse la giovane.
Oltre alla padronanza dei massaggi e della lingua di Roma, Serena si chiedeva quali arti potesse possedere quella ragazza. Si accorse che i capezzoli le si erano inturgiditi.
Esitava a chiedere ciò che voleva, ed esitava a dirle di fermarsi per paura di perderlo.
-Rilassati, mia signora.-, disse la serva. Si mosse con leggiadria. I seni erano piccoli, ma c’erano, pur sembrano acerbi. Il pube rasato non celava il sesso.
-Quanti…-, Serena forzò la propria voce ad uscire, spezzare l’incantesimo, -Quanti anni?-.
-Signora?-, chiese la serva. Aveva una gamba nella vasca, Serena poteva sentire quel piede accanto alla sua gamba, l’altra invece poggiava ancora sulla terra.
La vulva della giovane era offerta alla sua vista. Serena si trovò bloccata.
Cos’avrebbe fatto? E soprattutto, cosa doveva fare? Ciò che quella giovane stava facendo era come a Roma, dove le donne potevano indugiare in piaceri lesbici o era diverso e tutto ciò che lei sapeva sul compiacere altre donne non valeva?
-Quanti anni hai?-, chiese infine mentre le porgeva una mano per aiutarla a entrare.
La giovane si sedette all’altro estremo della vasca. Era una vasca abbastanza grossa, un lusso portatile, dono di Nimandeo Feral. L’acqua non celava nulla.
-Venti primavere, mia signora.-, disse, -E voi vi preoccupate troppo.-.
-Sono… quello che sono.-, ammise Serena. Ed era vero e falso.
“Un infiltrata, una doppiogiochista, un’assassina. Colei che ucciderà il tuo signore.”, pensò.
-Sì. E siete tesa come la corda di un arco.-, la giovane parve scivolare su di lei. Serena s’irrigidì. Lei sorrise. Piano, accarezzò il viso, scese lungo il collo. Ignorò i tatuaggi.
Serena si sciolse piano, lentamente, conscia che fin lì andasse tutto bene.
-Dovete godervi il momento, mia signora. Sono certa che ora siete preda di dubbi e sconforto.-, disse la giovane. La sua bocca era a pochi centimetri da quella di Serena.
-Permettetemi di sollevarvi da essi-, disse lei. La baciò. Piano. Serena si stupì della delicatezza del bacio, della lentezza. La giovane pareva tutto meno che frettolosa.
Serena sentì le tensioni abbandonarla. La giovane si strinse contro di lei. Scese a baciarle il collo e l’altra tentò di fare lo stesso.
-Presso di noi non è crimine che le donne si amino. La mia gente lo fa da sempre. Lo chiamiamo Lucidare lo Specchio.-, disse.
-Di dove sei? E come ti chiami?-, Serena non riconobbe la sua voce quando lo chiese.
-Di Ching, uno stato dei regni d’Oriente. E mi chiamo Shan, significa splendente.-, rispose l’altra. Serena rifletté. Ching era uno stato molto a Oriente…
-Come sei finita qui?-, chiese.
-Mia madre fuggì da Ching, Io nacqui a bordo di un veliero che portava ad ovest. Fummo attaccati da dei pirati che uccisero mia madre, ma Nimandeo Feral giunse con le sue forze e sbaragliò i predoni. Da allora lo servo.-, raccontò la giovane. Erano ancora avvinte, avvinghiate. Serena sorrise. Le accarezzò il viso.
-Sei bellissima.-, disse. Shan sorrise di rimando. La baciò.
-Permettetemi di bere alla vostra fonte di giada, mia signora.-, disse. Serena capì.
-Accomodati.-, disse, -Affinché io poi possa bere alla tua.-, rispose.
La giovane sorrise. Scese sul seno della milite, leccando e suggendo come mai Serena aveva sentito, facendola godere solo quel trattamento sublime.
-Venite.-, disse Shan. Si era alzata e, uscita dalla vasca, aveva steso un telo per terra. Nel suo tono ora c’era brama, desiderio. Serena sorrise. Si stesero sui teli, un rozzo talamo in terre selvagge. La giovane cercò la vulva di Serena con la bocca con bravura incomparabile, mentre lo stesso faceva lei, cercando di non essere da meno. Il godimento le travolse, come un’onda anomala. Incominciarono a darsi piacere vicendevolmente, in un crescendo di godimento che le vide stremate, almeno un’ora dopo.

Nimandeo Feral la vide entrare. Avvolta nella toga, Serena era stupenda.
-Ti prego, siedi e serviti. Aisha, portaci della Birra.-, disse.
Fu fatto e Serena prese a mangiare. Nimandeo notò che pareva più sciolta, più calma.
-E ora?-, chiese la giovane. Il condottiero annuì, terminando un boccone di pesce.
-Ripieghiamo, ci riorganizziamo e pianifichiamo la controffensiva.-, disse.
-Il generale di Amsio è stato capace. Ma noi lo saremo di più. Ho un piano.-, disse Serena.
-Ti ascolto.-, Nimandeo sorrise pensando che quella giovane fosse stupenda. Un genio, oltre che una bellissima donna. Era un peccato che lo considerasse un barbaro, a dispetto delle belle parole che gli dedicava. Era certo che Serena lo stesse usando per i suoi fini.
“Un dispiacere. Sarebbe potuto andare tutto in modo diverso, tra noi.”, pensò.
Più probabile che, come in troppe volte nella storia di Roma, avrebbe cercato di tradirlo.
Sospirò appena, soffocando i timori in un sorso di birra. Avrebbe mai avuto fine? Avrebbe mai avuto fine quell’idiozia? Com’era possibile che la sete di potere, l’ambizione e i tradimenti facessero parte del volere degli Dei, quali che fossero?
Come poteva tutto il sangue sparso giovare all’Impero di Roma?
E come poteva lui volere un Trono reso ripugnante dalle vite ad esso immolate con tanta scelleratezza?

Aristarda Nera osservava il fronte di battaglia. Sapeva tramite delle spie che Calus aveva chiamato a sé i barbari del nord. La sua smania di potere non conosceva vergogna.
-Signora, le forze di Calus ci superano in numero. Attaccare non è saggio.-, avvisò un Legato, Trovinio Quartio. Aristarda annuì. Suo malgrado aveva un piano.
-Allora non attaccheremo. Preparatevi a ripiegare da queste posizioni.-, disse.
-Signora?-, chiese Trovinio.
-Mi avete sentito. Non possiamo batterli via terra.-, disse lei.
-Quindi lo faremo via mare. La Sesta e la decima flotta sono con noi. Sbaraglieremo le forze di Calus nel Mare Nostrum e approderemo in Italica, come i nostri fondatori fecero prima di noi.-, disse. Il pensiero della rievocazione storica la portò a ripensare a Serena Prima e alla sua proposta. Possibile che fosse tutto vero?
Si scosse. In fin dei conti non era importante. Il passato, Janus e gli Imperatores che furono erano morti. Il presente era ciò che importava.
Si domandò fugacemente se la caccia di Vera per catturare Alexander Varus procedesse bene.

Vera Nemlia imprecò. I suoi uomini avevano riferito che Alexander era stato soccorso da un tizio grosso e nerboruto e li aveva messi fuori gioco.
-Pare sia il capitano di una trireme, mia signora. Possiamo ancora raggiungerlo!-, esclamò uno dei due, quello messo meglio. Vera ponderò la cosa. Significava rischiare di perdere i contatti con Aristarda, ma quelli erano gli ordini.
-Requisiremo una nave. Rapidamente e senza violenza. Li seguiremo.-.

Lo stesso però aveva deciso di fare Eria. La donna velata aveva offerto soldi, molti, a una ciurma di tagliagole e pirati. Avrebbero trovato quella nave e ucciso Alexander.
Riprendendosi la Lama.

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