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La stanza

By 9 Ottobre 2012Dicembre 16th, 2019No Comments

Incontrai Roberta per caso, avevo iniziato a interessarmi al BDSM per pura curiosità e francamente non mi interessava molto, più leggevo e più avevo la sensazione che questo tipo di attività non facesse per me; pur avendomi intrigato gli scritti di De Sade e di Von Masoch il resto, cioè ciò che leggevo su internet, proprio non mi attirava, non ci vedevo poesia in quei racconti, nelle immagini o nei filmati.

Non sono mai stata ne mi sono mai sentita una feticista, certo come ogni donna, ogni persona vorrei aggiungere, mi piacevano le “cose belle” ma non le sentivo importanti al punto da “amarle”, non capivo come l’amore feticista si poteva esplicare anche con parti del proprio o altrui corpo, meno che meno non capivo come si poteva amare la sofferenza.

Quando incontrai Roberta che si era offerta di spiegarmi le origini di tali pratica non ero affatto convinta delle scelte che poi feci.

Avevo conosciuta Roberta in una chat frequentata da persone dedite al BDSM più per curiosità che per una esigenza personale, semplicemente mi sembrava la più affidabile e attenta alle mie domande da neofita, non mi dava risposte seccate alle mie domande novizie, ma si prendeva la briga di rispondermi con dovizia di particolari anche molto colti e devo dire che passare il mio tempo in chat con lei mi intrigava molto e mi accresceva culturalmente; fu così che decisi di incontrarla.

Roberta è di Milano ma doveva passare da Udine per un giro di conferenze, lei è un medico oftalmico, e così prendemmo per così dire un caffè in un bar del centro, tanto per conoscerci, tanto per far capire una all’altra che eravamo persone vere, in carne ed ossa e non solo frutto di fantasie da chat.

Quello che ancora non sapevo però è che quell’incontro mi avrebbe cambiata la vita e che il bar sarebbe divenuto il galeotto della nostra unione.

Roberta mi si presentò in tallieur, molto bella, una massa di capelli ricci e neri che le cadevano morbidi sulle spalle, non alta, non quanto me che sfioro il metro e ottanta, ma ben proporzionata; mi spiegò che era scappata dalla pallosa conferenza a cui non teneva ma a cui partecipava per noblesse oblige io capii in un colpo solo che non ero alla sua altezza con i miei abiti grigi e nonostante il mio fisico se non proprio mozzafiato più che piacente, mi sentivo addirittura sminuita davanti a lei, non so come dire, certe cose si sentono a pelle, è una sensazione, qualcosa che incombe, una persona domina l’altra solo con la sua presenza, anche se non parla, anche se non si sta rivolgendo direttamente a voi, anche se è appena entrata in un locale; ora Roberta era tutto questo e io mi sentivo più che in soggezione, anzi succube e nemmeno la conoscevo.

Iniziammo a parlare del più e del meno, anzi ero io che parlavo e lei ascoltava e più parlavo e più mi rendevo conto che non stavo parlando d’altro che di me e non della mia ricerca, non sapevo ancora chi avevo di fronte ma già ne percepivo l’aurea potente e mi aprivo a lei.

Dopo un’ora e due the lei sapeva praticamente tutto di me, lavoro, famiglia, sesso, amore, e io di lei solo che era una dottoressa oftalmica di uno studio privato milanese, che si era interessata al BDSM da diversi anni, ora ne aveva quaranta cioè dieci più di me, sapevo che aveva avuto delle schiave e degli schiavi anche in contemporanea o divisi con un suo compagno che ora non c’era più e di cui a sua volta era stata allieva e schiava ma da cui si era affrancata.

Man mano che parlavamo mi rendevo conto che iniziavo a comprendere come il rapporto che si instaurava tra schiavo e padrone era un amore sublimato, dove la sottomissione di uno verso l’altro non era altro che la forza generata dall’amore portata alle estreme vette e che il dominante pure dava amore e non mero sadismo senza costrutto.

Presa da queste idee accettai di vederci a cena per approfondire il discorso, io oramai ero persa in quei discorsi e la mia mente stava vagando verso lidi non conosciuti eppure quei lidi non mi mettevano affatto paura ma anzi erano per me più potenti delle sirene di Ulisse, non mi rendevo nemmeno conto che era lei che mi pilotava e come automa accettai per incontrarla nell’albergo in cui era scesa.

Appena fu andata via pagai il conto del bar, uscii e mi avviai verso casa per prepararmi alla serata, ma i miei pensieri erano presi e non facevo altro che fantasticare su questa cena e sull’avventura mentale che ne stava scaturendo.

Devo un attimo parlare di me; non sono sposata, a trent’anni ben portati ho avute tante avventure, per me il sesso non è certo un taboo ma anzi mi ha fatto scoprire tutti i miei lati per così dire perversi della mia personalità, a diciassette anni mi sono scoperta bisessuale e non ho mai fatto mistero di questo con i miei partners e in qualche occasione la cosa è sfociata in appaganti performance con più di un partners. Per questo mi sentivo pronta a superare i miei limiti, anche se ero conscia che la strada che mi ero prefissa di percorrere non era la mia solita strada e che non ne conoscevo affatto la meta.

Di una cosa ero sicura per ora non avevo paura e questo tutto sommato mi spaventava un poco.

 

… continua …

Arrivai a casa presto, quasi correvo perché volevo fare una doccia e cambiarmi gli abiti, trasformarmi per non sminuire troppo la mia figura davanti a Roberta, ma soprattutto volevo riprendere la situazione in mano, non volevo che fosse solo lei a condurre il gioco, volevo dettare anche le mie condizioni.

In realtà non avevamo parlato di nulla e tanto meno di condizioni ero io che mi stavo facendo dei film nella testa, in realtà avevo già presa la mia decisione al riguardo.

Arrivata nel mio appartamento mi denudai e mi infilai sotto la doccia, era la seconda della giornata ma mi sentivo stranamente sporca, mi lavai anche i capelli, misi del balsamo e poi li “fonai” e li pettinai a lungo; li avevo mossi e si ribellavano alla spazola, lavati e asciugati presero volume e la cosa non mi piaceva molto, usai un poco di gel per far perdere loro un po’ di volume, mi passai della crema per il corpo e mi controllai le ascelle e il pube che tenevo rasati, rinnovai lo smalto alle unghie di mani e piedi e insomma mi sentivo già meglio, andai al guardaroba a scegliere un abito che non stonasse troppo con i capi firmati di Roberta.

Avevo solo un abito di Marella ma era troppo formale e non mi andava di esserlo, non volevo essere fuori tono per una serata non formale quindi decisi di non usare tallieur che richiamassero il lavoro, meglio piuttosto dei jeans o comunque dei pantaloni se non avessi trovata una gonna di pari livello.

La lingerie non mi mancava e scelsi un perizoma bianco molto piccolo e un reggiseno a balconcino con dei bei disegni sul pizzo, misi anche delle calze pure bianche, delle autoreggenti velate bianche, mi guardai allo specchio e risi di gusto, sembravo una di quelle infermiere da Play boy, ovvio parlo della rivista, e in più direi che ero indietro sulla moda di venti anni, mi mancavano solo i calzini bianchi di quei paginoni degli anni ’80.

Tolsi le calze, optai per dei pantaloni morbidi e dei gambaletti per le decollete, poi misi una camicetta un po’ frivola e un cardigan rosso leggero da tenere sulle spalle, borsetta coordinata ed ecco non ero più sul paginone centrale di Play boy ma neppure in nessuna altra pagina di nessun’altra rivista. Ero da buttare.

Ero da buttare ma erano anche le diciotto e ora avevo fretta, decisi di rimanere così e di truccarmi leggermente, avevo trent’anni ma il look collegiale me ne dava al massimo diciotto, ovviamente portati male.

A quel punto la folgorazione, tolsi pantloni e gambaletti, misi dei collant velatissimi e una minigonna in stile scozzese ed ecco la vostra collegiale mi mancavano giusto le codine ma no quelle no!

Arrivai al ristorante in orario e andai al tavolo che io avevo prenotato, ero sola, lei si faceva aspettare, mi sedetti ed attesi, speravo solo che non mi avesse tirato il pacco.

Arrivò con dieci minuti di ritardo, bellissima, non me lo sarei mai aspettata, pantaloni da cavellerizza, stivali, camiciola e giubbottino di pelle, ovviamente il tutto molto firmato, pensai che le mancassero giusto il Kep e il frustino. al pensiero del frustino sussultai.

Ci sedemmo e ordinammo del vino rosso in coppa, poi invece di ordinare la cena continuammo a parlare come se dal bar del primo pomeriggio non ci fosse stata nessuna interruzione, capii di essere in completa sintonia con Roberta e la cosa mi era capitata di rado e solo con persone con cui poi avevo avuto delle storie serie.

Parlammo del più e del meno, ora lei si stava aprendo di più, scherzammo sui nostri abbigliamenti, le chiesi dove aveva lasciato il cavallo e lei mi chiese quale scuola frequentassi, insomma ridevamo su queste cose e ci dimenticavamo del tempo e del motivo per cui eravamo lì, ordinammo la cena, bevemmo vino poi verso le undici di sera decidemmo di pagare e andarcene a parlare seriamente in un luogo più tranquillo e appartato.

Prendemmo la sua auto e no, non aveva un cavallo ma una splendida Audi A6 davvero comoda, andammo in periferia ma in realtà vagammo senza meta per un bel po’, ci fermammo vicino allo stadio in una zona dove si dice si faccia scambio di coppia, noi non notammo nulla ma questo bastò per riaccendere il discorso intrapreso al bar.

Roberta mi disse che lei nella sua pratica di Mistress faceva firmare dei contratti alle sue schiave che poi depositava da un notaio suo amico, ovviamente nei contratti non si parlava apertamente di BDSM ma di cultura e si accennnava ad una associazione culturale di studio dove il o la firmataria dava la piena disponibilità alla maestra, così mi disse si faceva chiamare, di poter usufruire della persona per portare a compimento il periodo di studio, insomma una formula per evitare noie legali ma pienamente utilizzabile se la persona in oggetto si fosse ribellata all’altro contratto, quello non scritto e che la poneva succube in modo totale di Roberta e delle altre persone a sua scelta.

Insomma un mondo fatto di notai e contratti in piena regola solo per soddisfare le proprie e altrui voglie.

Io ascoltavo affascinata, le feci delle domande alle quali rispose sempre cogliendo le sfumature più nascoste nel mio io profondo, domande che nemmeno pensavo di fare ma che in realtà uscivano tra le parole che la mia bocca diceva ma che il cervello pensava solamente, non ero ancora pronta ad aprirmi completamente.

Parlammo ancora così per un’ora poi le feci la domanda clou: “ci sono schiave sessuali, voglio dire, schiave per le quali è preponderante il sesso più delle mere pratiche BDSM?”

Era questa la domanda che mi girava in testa da quando avevo intrapreso quella ricerca, da quando ero entrata in quella chat e che ancora non avevo posta in termini così chiari nemmeno a me stessa, Roberta ci pensò bene prima di rispondere e la risposta che mi diede mi spinse a capire come avrei cambiato la mia vita.

Mi disse che ovviamente non c’erano limiti al tipo di rapporto schiava/o padrene/a  ovvero non si poteva certo arrivare a uccidere una persona ma i limiti erano tutti nel tipo di contratto che si stipulava; capii che non era una risposta e così la incalzai con un’altra domanda a tema.

“Si d’accordo ma se poniamo io volessi essere usata come schiava sessuale da te, cosa dovrei o potrei fare o cosa tu potresti farmi fare?”

La sua risposta fu semplice, ovvia e aghhiacciante: “Ovvio che potrei farti fare qualsiasi cosa, saresti la mia schiava quindi deciderei io per te e tu dovresti solo eseguire, mettiamo che ti leghi ad un palo e ti dia a più uomini e donne, tu non potresti rifiutarti e dovresti subire ogni abuso che quelle persone vogliano fare al tuo corpo, ma ricorda il tuo corpo sarebbe abusato solo perché io lo voglio, della tua voglia non me ne importerebbe nulla, li farei continuare o li farei smettere solo a mio piacimento”.

Quella risposta fu come una molla a continuare, le chiesi semplicemente se lei aveva avute schiave di quel genere, mi disse subito che quelle pratiche erano comuni nel BDSM. Ma che si le sarebbe interessata una persona, non usò il termine donna, di cui potesse usare ed abusare anche solo in termini sessuali senza altre costrizioni se non la sua mente.

Le chiesi dove dovevo firmare, non so come e perché lo dissi ma lo feci, era ciò che cercavo, volevo annullarmi ed essere l’oggetto sessuale di un’altra persona, una bambola da usarsi a piacimento.

Lei sorrise e mi rivelò che lo sapeva, lo aveva sempre saputo che era lì che volevo andare a parare ma mi disse anche che doveva ancora conoscermi, doveva capire se ero ciò che dicevo di essere, se fossi davvero pronta ad una vita di privazioni spesso totali, ad essere usata, abusta e violentata per il suo, e non il mio, piacere e che quindi nonostante le mie assicurazioni, dovevo attendere.

Le chiesi quanto dovessi attendere e mi disse che ne avremmo riparlato domani prima che lei partisse, a pranzo, mi disse di chiamarla e ne avremmo riparlato, per ora mi accompagnava a casa che era tardi, io dissi di sì, che andava bene e le indicai la strada di casa mia, non pensai che mi stavo espondendo che ora oltre al mio numero di cellulare le avevo dato anche l’indirizzo di casa, anzi ce l’avevo portata io, forse me ne sarei pentita.

Arrivata a casa mi spogliai e mi misi a letto, l’indomani dovevo recarmi al lavoro e a dire il vero mi rimanevano solo cinque ore di buio, notte in cui non dormii affatto; troppe erano le domande senza risposta che affollavano la mia mente, le ansie e le paure per una scelta, la mia, che ero sicura mi avrebbe cambiata la vita in modo drastico e forse definitivo.

Da impiegata in un piccolo studioo di avvocato di provincia a cosa?

Una schiava a tempo determinato, in ogni caso ero conscia del fatto che non potevo certo fare una vita da schiava per il resto dei miei giorni, eppoi cosa avrei fatto per il resto, sempre che non mi fossi spaventata e fossi scappata il primo giorno.

C’era sempre la questione del contratto, un contratto artefatto poteva essere vincolante di fronte alla legge? Certo che no, lo sapevo, il lavoro allo studio qualche aiuto me l’aveva dato, non ero laureata in giurisprudenza ma sapevo che un atto mal formato era nullo, ma io quest’atto non l’avevo ancora visto e non ne sapevo nulla, la cosa mi spaventava e quando l’alba arrivò con tutti i suoi colori mi trovò a letto ancora sveglia ma con una decisione già presa nella mia testa.

Non ne avrei fatto nulla, non sarei andata avanti con questa follia, avrei detto a Roberta che non l’avrei seguita in questa avventura, lei, ne ero sicura, avrebbe compreso.

Quella mattina sul lavoro, complice anche la notte passata in bianco e i mille pensieri che ancora ronzavano nella mia testa non stavo dando il solito, anzi ero poco più che presente, alle dieci provai a telefonare a Roberta per comunicarle la mia decisione ma il telefono era staccato.

A mezzogiorno riprovai ma nulla, sempre staccato, stavo per tirare un sospiro di sollievo, forse Roberta se n’era andata capendo che da me non sarebbe arrivato nulla di buono e invece poco dopo mi arrivò un sms: “prenditi un’ora di permesso, ci vediamo all’una al bar di ieri” tutto qui, nessuna scusa, nessun saluto, fallo e basta!

Riuscii benissimo a prendermi il permesso, allo studio vedevano che ero svogliata e assente e mi fu facile dire che dovevo andare a casa per risposarmi che avevo due linee di febbre e insomma riuscii anche a mentire bene, per me non era certo la prima volta, all’una ero davanti al bar. Cretina!

Sì cretina, volevo abbandonare la mia idea di essere schiava e invece eccomi qui a scodinzolare dietro ad un sms senza nemmeno un perché.

Roberta mi vide e mi chiamò con un cenno della mano, mi chiese senza preamboli cosa avessi deciso e io un po’ titubante le disse che accettavo, in un attimo mille dubbi si erano dissipati, ore di pensieri sublimati in un sì. Idiota!

Sicura? Allora perché quei tentativi di chiamata? Roberta aveva capito ma voleva sentirlo da me e io le risposi che avevo dei dubbi, penso legittimi per decidere così di punto in bianco di cambiare vita, alché lei mi mise alla prova, mi chiese di accettare e di prendermi un’aspettativa al lavoro di almeno un mese e di farlo entro la settimana prossima se no non se ne faceva nulla.

Io eri titubante perché sapevo e sicuramente lo sapeva anche lei che non mi avrebbero dato mai un’aspettativa e poi con un preavviso così breve, voleva vedere se avessi accettato sapendo che mi sarei dovuta licenziare dallo studio in cui lavoravo da quasi dieci anni, accettai comunque, pensai che queste cose si fanno così senza pensarci su o non si fanno affatto, accettai con un sospiro e un sorriso.

Vedevo anche in Roberta un rilassamento dei muscoli, capivo che anche lei era tesa; accettare una novizia senza conoscerla era pericoloso per lei, inoltre sicuramente l’idea di una schiava sessuale doveva attirarla parecchio, mi disse di andare a casa, mi disse che ci saremmo risentite e che mi avrebbe mandato a breve postagiro il contratto da firmare e che poi mi sarei dovuta presentare all’indirizzo che era riportato nel contratto col contratto firmato in mano, prendere o lasciare ora. Per davvero.

Io mi alzai e le strinsi la mano come un’ebete, cosa credevo di aver firmato un contratto di lavoro? Non so se mi rendevo davvero conto di quello che stavo facendo ero come in trance, andai a casa e senza nemmeno mangiare riempii la vasca di acqua calda e dopo essermi spogliata mi immersi in essa.

Mi rilassai al contatto caldo dell’acqua, mi toccai la pelle, la massaggiai indugiando sui seni, sospirai di piacere e mi abbandonai ad una tenera masturbazione, non arrivai al giusto epilogo, nessun orgasmo perché mi addormentai piacevolmente cullata dal tepore dell’acqua calda, ero sfatta.

Mi svegliai dopo un’ora sentendo freddo, mi alzai dalla vasca e mi asciugai, poi presi la decisione di scrivere all’ufficio per licenziarmi, non volevo parlare con loro ne al telefono e ne in viso, avevo paura di non farcela, dopo dieci anni una lettera era proprio da vigliacca ma non ce la facevo a fare altro ero mortificata per le mie scelte, forse ero davvero una schiava e la nuova vita che avevo deciso di intraprendere forse non era neppure una vita nuova perché dentro di me sapevo, sentivo, di essere schiava e dovevo solo farla uscire.

Quel giorno presi la decisione che dovevo vivere da schiava e come una schiava, mi misi in chat per vedere se c’era Roberta ma vi trovai solo DSD (De Sade) un idiota che non sapeva nulla di BDSM e nemmeno di De Sade ma che credeva di saperla lunga, quel giorno decisi di accondiscendere alle sue pazzie.

Mi chiese di denudarmi, io non dissi che già lo ero ma dopo pochi minuti gli dissi che mi ero spogliata (hai! Una schiava non nasconde nulla al suo padrone, ma lui non era certo il mio padrone) mi chiese quindi di stringermi i capezzoli con le dita e di farmi male, io lo feci perché volevo vedere fino a dove sarei arrivata e mi feci abbastanza male, glielo dissi e lui mi rispose brava cagna ora prendi qualche cosa di grosso perché voglio incularti. Mi ero già stufata di lui lo abbandonai e chiusi la chat, pensasse ciò che voleva.

Andai alla finestra del soggiorno e mi masturbai guardando la gente che passava in strada, io ero al terzo piano e mi sentivo comunque protetta nella mia privacy anche se notai, non me ne fregava davvero nulla.

Avevo lasciato il lavoro con la lettera che avevo recapitato io stessa nella buca delle lettere dello studio di sera, come i ladri, come una demente che ha paura di affrontare la realtà, l’indomani com’è ovvio ricevetti telefonate incredule dall’ufficio che mi chiedevano di tornare anche ridefinendo il mio rapporto con loro, io rispondevo che oramai la decisione era presa, che dovevo andare via dalla città per un po’ di mesi e che quello mi sembrava l’unico modo per farlo; ero proprio un’ipocrita.

Per una settimana attesi trepidante il plico con il contratto e le istruzioni per recarmi alla mia nuova vita da schiava. Il plico arrivò il sabato successivo, lo presi dalla posta appena prima che chiudessero gli uffici e lo aprii con ansia già prima di arrivare a casa, dentro un contrattino di quattro pagine da firmare e un foglio dattiloscritto con le istruzioni per arrivare a destinazione, e anche un biglietto del treno per Milano sola andata.

Arrivata a casa mi fiondai in poltrona a leggere, il contratto era per una banale consulenza di alcuni mesi in una scuola di equitazione, così c’era scritto, seguivano le solite norme di comportamento per l’assunzione e per il licenziamento, firmai tranquillamente anche perché fino a quando non mi sarei presentata a destinazione potevo sempre stracciarlo e amici come prima.

La parte interessante era nel foglio allegato, mi si diceva come vestirmi, come dovevo comportarmi durante il viaggio e ovviamente l’itinerario che avrei dovuto seguire una volta arrivata in Stazione Centrale a Milano, nessuno mi sarebbe venuto a prendere però mi si faceva capire, sarei stata sorvegliata discretamente non appena avrei messo piede sul treno a Udine.

Quest’ultima parte mi inquietò un poco ma poi ripensandoci in fondo io ero loro proprietà e quindi in un certo modo ci tenevano a me, loro; ma chi erano loro, io avevo conosciuta solo Roberta e sapevo del notaio amico suo ma non sapevo davvero altro, con sgomento capii che non avevo fatto le domande giuste, non sapevo davvero nulla di queste persone ed ebbi paura.

Rilessi l’allegato per capire qualche cosa in più ma non vi lessi nulla che mi svelasse chi ci fosse dietro Roberta, c’erano solo le istruzioni per il vestito da indossare e l’itineriario da seguire, mi dava da pensare un po’ l’atteggiamento da tenere durante il viaggio, ma nulla più.

Nel primo pomeriggio mi arrivò un sms da Roberta che mi chiedeva se mi fosse arrivato il plico e se fosse di mio gradimento, risposi di sì e mi arrivò un altro sms: “se sei disponibile ad accettare allora preparati e parti domani mattina così arrivi un giorno prima”. Questa frenesia di avermi mi mise ansia.

Rilessi le istruzioni, in particolare dovevo vestirmi come l’altra sera a cena, da scolaretta, camicetta bianca, gonnellino scozzese, calze bianche e scarpe basse, sull’ultima faccenda ero titubante ma capivo che dovevo obbedire, per la lingerie era preferibile qualche cosa di virginale piuttosto che hard, dovevo sembrare davvero una scolaretta verginella.

Iniziai a guardare nell’armadio, gonna e camicetta ce l’avevo, aggiunsi un cardigan dato che iniziava a fare fresco, le scarpe basse le avevo ma capii subito che le ballerine non andavano bene e non avevo le calze adatte.

Mi vestii con la gonna e la camicetta e il cardigan, ma misi gli stivali, poi presi la borsetta e decisi di andare a fare compere da Bon Prix che avevano sempre cose interessanti e a prezzi abbordabili.

Trovai delle buste con slip da poco prezzo, sia in versione perizoma che mutandina, a disegni e tinta unita, le comprai tutte e due, trovai anche dei calzettoni e poi andai a cercare delle scarpe tipo college.

Le trovai vicino al centro città in un negozio di seconda scelta, per dieci euro presi un bel paio di scarpe tipo mocassino a tacco basso blu petrolio, dovevano andare bene, presi anche una borsettina coordinata, la ragazza alla cassa mi guardava e sorrideva, io non ci feci caso, pensasse di me ciò che voleva, pagai e andai via.

Camminavo leggera per la via la gonnellina svolazzava e io ero felice, sapevo di avere gli occhi dei passanti addosso e la cosa mi eccitava, sotto indossavo il perizoma dell’altra sera e osai qualche cosa, mi fermai ad una panchina per provare le scarpe, tolsi uno stivale e misi una scarpa, poi tolsi l’altro stivale e misi l’altra scarpa, le provai entrambe e le sentii comode, volevo tenerle su ma i gambaletti velati non andavano bene e non mi andava di cambiarmi lì.

Avevo comunque dato spettacolo nel togliermi gli stivali e poi per rimetterli avevo dovuto alzare una gamba alla volta, tirare e nel farlo la corta gonna si era aperta mostrando il ridotto perizoma, sentivo che mi stavo eccitando mi sentivo calda e la cosa mi stava iniziando a piacere anche perché la zona era molto frequentata da persone a piedi che mi guardavano.

Avrei voluto avere dei lacci da allacciare in quel modo mi sarei persino alzata dalla panchina, avrei messo un piede sulla stessa e mi sarei chinata per fare il nodo mostrando così il culo, ma purtroppo i mocassini non hanno lacci, così mi chinai solo per mettere la scatola nella borsa e facendolo indugiai un poco sperando che qualcuno notasse il mio culo praticamente esposto dalla gonnellina.

Una volta a casa il segnale dell’sms mi colse alla sprovvista, al solito era Roberta che si complimentava con me per lo show sulla panchina, rimasi bloccata e allibita, allora davvero ero controllata a vista.

Mi gettai sul divano senza riuscire a pensare, dubitavo che Roberta fosse ancora in città, troppo pericoloso la conoscevo mi sarei potuta accorgere di lei, più probabile che ci fosse qualcun altro, forse il notaio; iniziai a fantasticare su chi potesse essere poi allargai le gambe e iniziai un lento ditalino.

La cosa mi aveva intrigato dopo tutto, l’idea di essere spiata mi eccitava, rilessi la lettera mi si diceva di mantenere un buon contegno in treno ma allo stesso tempo di non stringere troppo le gambe, le mutandine si dovevano poter vedere senza dover essere troppo sconcia.

Smisi di toccarmi per un attimo e andai a prendere lo specchio del bagno che appoggiai ad una poltrona, mi sedetti di nuovo sul divano e feci delle prove, aprivo leggermente le gambe, mi sedevo alzando la gonna dietro come per evitare pieghe così che il mio culo potesse essere accarezzato nudo dalla stoffa dei sedili.

Mi alzai e mi misi le calze e le scarpe, tolsi il perizoma e misi le mutandine appena comprate, mi sedetti di nuovo e rifeci le prove, notai che ora gli slip si notavano di più, sorrisi felice e ripresi a toccarmi.

Mi guardavo allo specchio e cercavo di assumere le pose più sconce e più lo facevo e più mi eccitavo e più mi toccavo, strizzavo con una mano le tette e giocavo con l’altra sul lembo dello slip coprendo e scoprendo il mio sesso.

Allargavo le gambe il più possibile e mi infilavo fino a tre dita nella figa poi tiratele fuori intrise del mio piacere ne infilavo prima uno, poi due nel mio culo, godevo e sbavavo mentre mi passavo la lingua sulle labbra in quelle che definivo pose molto oscene, lo erano per lo meno per me, venni con un orgasmo tremendo che mi fece tremare tutta poi mi accasciai sul divano per riprendermi.

Mentre ero ancora in trance ricevetti l’ennesimo sms da Roberta, diceva “complimenti, davvero brava, da domani ci divertiremo”.

Presi paura, mi aveva vista ma da dove, io non abito al pianoterra, guardai in giro alla ricerca di telecamere nascoste, ero stupida lo so ma avevo bisogno di certezze, mi affacciai allla finestra ma dalla casa di fronte non veniva nessun movimento, ero impaurita e ancora una volta andai a dormire preoccupata.

Mi svegliai presto, non avevo bagaglio perché c’era scritto di portare solo gli abiti che indossavo, un telefono e il contratto, il resto l’avrei trovato al mio arrivo, non serviva altro, alle 8 e mezza partiva il treno per Mestre, coincidenza per il Frecciabianca per Milano Centrale, io arrivai in stazione 10 minuti prima, mi accomodai al mio posto e attesi la partenza del treno.

Il cuore mi palpitava sapevo di essere osservata, oramai mi era chiaro visti gli sms del giorno prima, ero terrorizzata e allo stesso tempo eccitata dalla novità.

Il treno regionale era praticamente vuoto, di domenica alle otto e mezza di mattina non c’è davvero nessuno in giro, mi appisolai un po’ scomposta sul sedile e attesi il controllore mentre il treno viaggiava per le campagne tra Friuli e Veneto, il rumore del treno al solito mi cullava e presto mi addormentai pesantemente.

Mi svegliò come previsto il controllore, Conegliano era appena passato pochi minuti tra poco sarei arrivata alla stazione di Mestre, lì pensai potevo ancora prendere il treno per Udine e tornare indietro, consideravo Mestre una terra di confine tra il mio mondo e un futuro incerto in cui mi stavo tuffando senza neppure pensare a cosa andavo incontro, oramai mi ero tagliata molti ponti alle spalle; il lavoro l’avevo lasciato, avevo detto ai miei che mi prendevo un mese sabbatico in cui dovevo decidere se e come cambiare vita o “mettere la testa a posto”, dopotutto non avevo mentito.

Vidi che davanti a me era seduto un anziano signore che mi sorrideva furbo, lo vidi ma non ci feci caso e tornai ad appisolarmi ma poi la tensione che mi prende sempre quando sono in treno, cioè la paura di saltare la stazione mi rese ben sveglia e attenta.

Il tipo sorrise poi mi disse buongiorno, io risposi di cortesia e mi guardai intorno, nel vagone eravamo soli, sorrisi di nuovo e mi aggiustai sul sedile, la gonna si era alzata e le mie gambe erano ben esposte, decisi di rimanere così, lui sorrise di nuovo.

“Non è un po’ grandina per andare ancora a scuola?”

Una frase davvero centrata, da vero idiota, ma dai che razza di stupidagine, se voleva rimorchiarmi poteva dire altro, una frase da treno, che so, “dove è diretta?” sapevo che la mia mise era da scolaretta e capivo il motivo di quella frase ma era da vero idiota così sorrisi di circostanza e dissi che a me piaceva vestirmi così anche se scuola e università erano passate da un pezzo, anzi, a quei tempi non mi sarei mai sognata di vestirmi da scolaretta. Ma che facevo ci stavo provando?

Comunque decisi di accomodarmi meglio alzando la gonna e aggiustandomela bene in modo da mettere il sedere a nudo sulla poltroncina, guardai il tipo con fare finto sospettoso e attesi da parte sua una parola che non arrivò.

Arrivò di nuovo il capotreno e chiesi quanto mancava a Mestre e se eravamo in tempo con la coincidenza per Milano, non so perché lo feci, avevo guardato l’ora e per una volta almeno Trenitalia era addirittura in anticipo, forse stavo entrando nella parte e implicitamente feci sapere ai due uomini dove ero diretta.

Comunque l’ovvia risposta mi fece sapere che eravamo in perfetto orario e che il Frecciabianca si trovava sulla stessa banchina dove saremmo giunti noi, in pratica mi bastava scendere dal treno e salire sull’altro. Cacchio, efficienza svizzera.

Oramai l’anziano signore sapeva dove ero diretta e mi aspettavo una parola di circostanza infatti mi chiese se andavo a trovare un parente; ma porca paletta ma tutti a me mi devono capitare? No vado per affari, dopotutto non era del tutto falso, mi stavo proponendo come schiava bagascia e quindi ci stava, solo al tipo non gliel’avrei detto in questi termini, gli dissi solo che l’indomani avrei iniziato un nuovo lavoro.

“Quindi questa sera sarà sola in albergo” mi disse, io dissi che mi avrebbero aspetttato in stazione, alché lui replicò con una sola parola: “peccato”.

Volevo continuare perché la discussione stava piano piano andando a parare su temi interessanti ma stavamo anche entrando in stazione così mi alzai per prepararmi a scendere ma visto che non avevo bagaglio indugiai ancora un poco, lui notato che aspettavo ad alzarmi mi disse solo che faceva il viaggio per Milano e che gli avrebbe fatto piacere qualcuno con cui parlare quindi mi disse il suo posto: “carrozza 5 posto 12”, cavoli pensai, e dissi che si trovava seduto di fronte a me quindi avremmo potutto parlare ancora a lungo.

A quel punto col ghiaccio rotto decisi di aiutarlo a prendere il suo bagaglio e scendemmo insieme dal regionale, lui davanti e io dietro in modo da fargli sempre ammirare le mie gambe, poi ci dirigemmo verso l’altro treno, sembravamo il nonno con la sua nipotina e la cosa mi imbarazzava un poco, avevo sperato in qualche cosa di diverso da questo viaggio, una specie di inizziazione alla nuova vita invece si stava prefigurando di una noia a dir poco noiosa.

Ci sedemmo ai nostri posti, uno di fronte all’altra, lui lato finestrino io lato corridoio, capivo che la mia posizione era stata scelta ad arte, non avevo privacy, se mi mettevo come dovevo mettermi dalla fila chiunque poteva vedere le mie mutandine e comunque a quel punto non mi importava inoltre un po’ di sano esibizionismo forse avrebbe tolto un po’ di noia a questo viaggio insulso.

Mi sedetti alzando la gonna, allargai un poco le gambe come avevo imparato a fare davantio allo specchio sicura che chiunque delle persone che stavano entrando in carrozza avrebbero notato il bianco delle mie mutandine.

Sentivo il ruvido della stoffa del sedile sulle chiappe e pensai che dopotutto era un peccato non indossare un perizoma ma pazienza, feci buon viso alla sorte e ripresi a parlare col signore anziano, seppi che tornava a casa dopo essere stato a trovare la sorella che abitava in un paese del circondario di Udine e altre amenità famigliari di cui non mi importava nulla, tutte cose che appresi con fare indifferente mentre il mio atteggiamento diceva il contrario; mi ero appoggiata la mano al mento mentre lo ascoltavo e lo guardavo fisso in volto, lo facevo parlare ma non dicevo nulla di me così mi lasciavo molte vie aperte.

Poi mi alzai un attimo per far accomodare accanto a me un ragazzo infine dopo essermi riseduta come prima vidi che un altro signore ma di età più vicina ai miei trent’anni si stava accomodando di fronte a me, bene pensavo un viaggio interessante, ma dove andava tutta questa gente di domenica, il vagone si stava velocemente riempiendo di gente, donne e uomini e ragazzi si stavano sedendo e io iniziai a controllare le persone sedute nella fila centrale per vedere chi avrebbe potuto notare le mie gambe e decidere con chi giocare.

Intanto non parlavo più con nessuno, mi rilassai un poco e mi stiracchiai persino, fu a quel punto che arrivò l’ennesimo sms: “e brava zoccola, continua pure a divertirti col vecchietto ma non dimenticare il resto, seguiranno istruzioni al riguardo”.

Cazzo! Sussultai e provai a guardarmi intorno ma tre quarti di carrozza stava armeggiando con computer e telefonini, e non vedevo facce conosciute o già viste, sospirai di nuovo e mi misi tranquilla, intanto che rileggevo il messaggio sentii che il treno stava partendo.

Il treno partì in perfetto orario e come sempre mi accadeva iniziai a rilassarmi, l’idea di essermi buttata tutto alle spalle mi rassicurava e mi confortava; sono un’inguaribile ottimista e mi piace guardare avanti, anche se i problemi attuali erano reali io non ci pensavo, per ora erano comunque da rimandare a un qualche futuro quindi mi sistemai meglio sulla poltroncina e mi misi nella condizione mentale della viaggiatrice.

Vidi subito l’anziano signore che mi sorrideva, pensai dentro di me che forse era lui il latore dei messaggi, ma non l’avevo visto armeggiare con nessun telefonino e quindi a meno che non avessero inventato un telefono a comando mentale difficilmente sarebbe stato lui, ma io dovevo sapere. E mi arrivò subito a smentirmi un altro messaggio.

“Riprendi la discussione col vecchio e fagli capire cosa sei, non importa come e cosa farai”.

Rimasi un attimo interdetta, come indagatrice avevo fallito, ma era ovvio, quello che non era ovvio era come approcciarmi e cosa fare; fortunatamente il tipo stava leggendo un giallo tascabile e questo mi diede l’appiglio per intraprendere un discorso.

“Vedo che le piace Mankell è un giallo vero?”

“Sì, si chiama La Piramide è una serie di novelle brevi, una specie di prequel scritto per spiegare l’incipit dei romanzi basati sull’ispettore Wallander”.

“Devess’ere interessante, io preferisco i suoi romanzi più filosofici come Scarpe italiane, ma se lo stile è lo stesso dev’essere piacevole”.

“Vuole iniziare a leggerlo lei?”

“No no, ci mancherebbe la mia era semplice curiosità”. A questo punto chiuse il libro e mi guardò negli occhi con uno sguardo duro e profondo, poi mi disse: “ma lei che cosa cerca?” una voce profonda come non avevo sentito prima.

“Cosa cerco?” iniziai col dire ma non finii la frase, lo guardai dritto nei suoi occhi profondi e gli chiesi di seguirmi lui si alzò e mi seguì verso la zona finale della carrozza, dove sono i bagni e le porte di comunicazione, sapevo che in quel momento tutti nella carrozza ci guardavano ma non mi importava, se dovevo fare una mossa volevo che questa comunque avrebbe portato un vantaggio a me, tutti quelli che avevano sentito quel “ma lei cosa cerca” avrebbero capito, era come se tutti in quella carrozza l’avessero pronunciato, bene ora tutti avrebbero capito, anche la spia.

Lo portai vicino alla zona bagagli, complice un piccolo scossone del treno, che tra l’altro non ne faceva affatto, lo spinsi contro la parete addossandomi un poco a lui poi sempre guardandolo in volto ma con un viso più dolce e meno duro gli dissi: “Sai che lavoro vado a fare a Milano? La zoccola ma non a pagamento, per piacere personale, mio e di altre persone”.

Con quella frase l’avevo spiazzato, non sapeva che dire se avesse pensato che io fossi un’ingenua ecco ora sapeva che non lo ero affatto, quindi visto che non replicava lo incalzai: “ora se ti va di approfittarne per me va bene anche perché a me ora va di farlo e stai attento con me perché io lo farei anche qui, altrimenti ci mettiamo di là nella toilette” lui mi guardò come inebetito poi mi disse che andava bene nella toilette e così lo spinsi dentro.

Il locale era angusto ma riuscii a chiudere la porta, mi accucciai davanti a lui e gli tirai giù la zip, poi lo misi a sedere sul vater e iniziai un pompino su quel cazzo barzotto, volevo proprio vedere se riuscivo a resuscitare l’uccello di un sessant’enne.

Succhiavo la punta tenendo in bocca la cappella mentre con le unghie continuavo a massaggiarne l’asta morbida, ogni tanto giocavo con i coglioni massaggiandoli teneramente o stringendoli piano, in quei momenti lo sentivo ansimare, si vede che gli piaceva; stringevo le labbra o lo prendevo con i denti, sentivo di fare effetto infatti l’asta cominciava a indurirsi e allora iniziai a segarlo.

Mi sputavo sulle mani e segavo quel cazzo che in gioventù doveva essere stato un bell’arnese e ora che si avvicinava al triste cancello in fondo al viale delle vanità aveva ancora qualche cosa da dire.

Succhiavo la punta e poi ingoiavo l’asta che non essendo molto lunga riuscivo a tenerla tutta in bocca, poi riprendevo il mio gioco con le mani e la bocca sulla cappella, tempo cinque minuti e mi inondò la bocca di caldo sperma, era venuto ansimando di piacere, mi teneva la testa teneramente, mai mi aveva spinto con le mani, un signore che sapeva il fatto suo anche in fatto di sesso.

Io inghiottii lo sperma, mi sembrava giusto e doveroso a quel punto, mi rialzai e lo aiutai a rimettere l’arnese nei pantaloni, mi sembrava ovvio che avessimo terminato lì, poi mi sorrise e mi disse che non sarei sfigurata affatto in uno dei casini che frequentava da giovane, non so perché ma non mi offesi anzi la cosa mi inorgoglì.

Uscimmo dall’angusta toilette e ci rimettemmo a sedere ognuno al suo posto come se nulla fosse, lui riprese il suo giallo e io i pensieri miei, immancabile arrivò l’sms: “e brava la mia troiona, proprio brava, mi sa che sarai una bella novità nella scuderia, ma ora andiamo avanti.” poi un secondo sms: “lo vedi il tipo tre file più avanti? quello che fa finta di giocare col tablet ma non ti stacca gli occhi di dosso? si che lo vedi.” un terzo: “guardalo in volto, fatti notare quando lo fai e poi leccati le labbra, fagli capire cosa hai fatto.”.

Io alzai gli occhi, vidi il tipo che non mi toglieva gli occhi di dosso tenendo il tablet in grembo, sembrava che sognasse, decisi di osare di più, mi stavo divertendo, lo guardai e come ebbi la sua attenzione allargai leggermente le gambe e sempre guardandolo mi leccai le labbra. Ero ufficialmente una troia a comando e mi piaceva il gioco.

sms: “brava a presto nuove istruzioni!”

Ora avevo capito due cose, uno che ero osservata da vicino e due che il latore degli sms doveva avere un cellulare datato perché mi mandava sms corti del tipo vecchio con messaggio breve, bene ora ne sapevo di più “ispettore” e sorrisi alla cosa.

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