Skip to main content

LA Benedizione di Pitonio

Come altri miei racconti, anche questo si basa su fantasie mie personali, anche se i personaggi, in questo caso la protagonista femminile, si basa su una persona che conosco. È il primo racconto che scrivo non ambientato i tempi nostri, senza veramente conoscere delle basi storiche e culturali che renderebbero ancor più realistico il racconto. Cercherò di rendere l’ambientazione realistica. Spero vi godiate la lettura, e di non offendere la cultura marsicana….

Tra le alte montagne della bella terra dei Marsi, piccoli villaggi si stagliavano sulle alture. Quasi al centro tra essi, un villaggio più grande, per numero di case, sembrava troneggiare. Era quel villaggio il centro della comunità di quel popolo, antico e raffinato, che occupava la vallata. Erano i tempi in cui Roma era ancora giovane, un mero villaggio tra sette colline. Il nome del villaggio marsicano, ormai, si è perso nei meandri della storia, cancellato dal tempo  e dalle invasioni di popoli vicini, forti di un potere militare soverchiante. Per comodità, lo chiameremo Verdebosco.

 I villaggi limitrofi più piccoli ospitavano famiglie di pastori che portavano le greggi di pecore a pascolare lungo le pendici delle colline verdeggianti. Più vicine al paese, singole case di grandi dimensioni ospitavano gli agricoltori , che lavoravano, con impegno e tanta fatica, ampi spazzi di terreno che, da anni ormai dimenticati, erano strati sottratti ai boschi a questo scopo. Le fertili terre della vallata, bagnate dalle acque di un fiume argentato che serpeggiava lungo la vallata producevano ogni sorta di verdura che al tempo, veniva coltivata, in abbondanza.

Verdebosco, il villaggio principale, presentava una piazza che, periodicamente, veniva occupata da mercanti i quali esponevano le loro mercanzie, offrendole in cambio di monete di bronzo, di rame, solo raramente d’oro. Un mercato forse non grande, ma comunque importante.

Al centro del villaggio si ergeva la Casa Grande, sede della famiglia padrona della vallata, la famiglia Clelia.

Poco distante dalla casa grande sorgeva l’altro edificio più importante del villaggio, un tempio rotondo, chiuso, dentro il quale veniva mantenuto costantemente acceso un fuoco sacro. Era il tempio dedicato a una delle più importati divinità marsicane: Pitonio. Un tempo, era il tempio l’unica costruzione della vallata, meta di pellegrinaggi e sede di un ordine di sacerdoti. Ma tempo addietro, la famiglia Clelia, forte di meriti presso la corporazione dei Marsi, l’alleanza politica e militare che legava i popoli del centro Italia o, come la chiamavano all’epoca, Viteliù, avevano chiesto e ottenuto il controllo della vallata. Tra la famiglia Clelia  i sacerdoti di Pitonio vi fu un conflitto anche armato: Pitonio, dio guerriero, era servito da sacerdoti avvezzi alla lotta, e che spesso istruivano, nei templi, i giovani nobili all’arte della guerra. Proprio un giovane della famiglia Clelia era stato educato presso il tempio di Verdebosco, quando ancora il villaggio non c’era, e aveva intuito che quel ricco territorio sarebbe potuto diventare qualcosa di diverso di un semplice eremo. Scacciati, solo grazie alla superiorità numerica degli uomini armati della famiglia Clelia, vennero però siglati alcuni accordi con i sacerdoti: che il tempio rimanesse inviolato, che il sacro fuoco venisse tenuto sempre acceso e che un sacerdote, periodicamente, potesse venire al villaggio, per celebrare i riti stagionali e insegnare il culto ai giovani. Poi i sacerdoti sparirono nei boschi. Nessuno seppe mai dove, ma periodicamente, puntualmente, uno di loro si presentava al villaggio Verdebosco.

I soldati della famiglia Clelia divennero una milizia permanente, pronta a combattere nemici o bande di razziatori, ma anche a diventare battitori e cacciatori, e fronteggiare nemici, non più umani, ma comunque pericolosi, quali orsi, lupi e cinghiali e a volte contribuendo, con la caccia, i fabbisogni alimentari del villaggio, cacciando cervi e camosci.

Ma tutto questo accadde molto tempo prima dei fatti che voglio narrare…

Quitio Nunzio Clelio, capofamiglia attuale e padrone di Verdebosco, si trovava a fronteggiare il problema più grande dalla fondazione del villaggio. Non la siccità, non scorribande di uomini che tentavano di depredare le fattorie o i greggi. Neanche il branco di lupi che, in un gelido inverno, aveva razziato le pecore e le stalle, uccidendo addirittura un pastore, era stato un problema difficile come quello, la più grave crisi dalla fondazione del villaggio. Una malattia, sottile e misteriosa, dilagava. Mai si era visto qualcosa del genere. In passato, malattie avevano colpito uomini, bestiame, coltivazioni. Ma il morbo che imperversava ora colpiva tutti indistintamente, piante, bestiame e uomini, che presentavano tutti lo steso sintomo: punti neri che sembravano corrodere la materia, vegetale o no, allargandosi dolorosamente. Le bestie e gli uomini colpiti vedevano le nere piaghe allargarsi provocando sanguinamento e forti dolori. Erano stati chiamati speziali da città più grandi, ma questi non trovarono rimedio, uno, anzi, contrasse il morbo. Persino un cugino di Quitio e due famigli, che vivevano alla Casa Grande erano stati colpiti e giacevano or ora a letto.

Quando si ebbe il primo morto, uno dei decani del villaggio, fece la sua comparsa il sacerdote di Pitonio. Nessuno sapeva chi fosse. La maschera di cuoio, simbolo di adesione al culto del dio, nascondeva i lineamenti del viso, impedendo di stabilire se fosse vecchio o giovane. Un’ampia cappa marrone ricopriva interamente il corpo, dotata di un cappuccio che nascondeva ulteriormente la testa, da cui fuoriuscivano lunghi ciuffi di capelli incolti di color grigio scuro. Solo un braccio, muscoloso e forte, usciva abitualmente dalla cappa, per tenere un lungo bastone, leggermente ricurvo, a cui si posava per sostenere il corpo, ingobbito. Tutti pesavano a lui come ad un vecchio, ancor forte e gagliardo: nonostante dovesse appoggiarsi al bastone il suo passo era svelto e deciso, quasi marziale.

Un sacerdote con lo stesso aspetto si era sempre presentato, checché la memoria ricordasse, al villaggio, tanto che girava la voce che si trattasse dello stesso uomo che, per secoli, aveva officiato i suoi doveri sacerdotali. In questa occasione il sacerdote era entrato nelle case degli ammalati, tirando fuori dal mantello sacchetti di semplici ed erbe, con cui prepara medicine che, bevute, placavano le febbri e il dolore, o unguenti che, applicati sulle piaghe, ne rallentavano il dilagarsi e impedivano il sanguinamento. Dal giorno della sua comparsa, aveva girato per le case visitando i malati e curandoli, con risultati che nemmeno li speziali, prima di lui, avevano ottenuto. Costoro avrebbero voluto sapere quali cure ed rimedi egli usasse, ma il sacerdote si era sempre rifiutato: i preparati da lui usati erano un segreto del suo ordine, e solo chi ne faceva parte poteva conoscerli. All’insistenza degli speziali, li invitò ad unirsi all’ordine, ma quelli rifiutarono. E neanche avrebbero potuto rubare le scorte di semplici: la sera, finito il giro delle case, il sacerdote entrava nel tempio, si toglieva da sotto il mantello il robusto cinturone con cui portava i sacchetti di semplici, sempre vuoti, e si coricava vicino all’altare, vicino al fuoco sacro, dove dormiva recitando a bassa voce preghiere al dio. E alla mattina, ancor prima dello spuntare del sole, si alzava, usciva dal tempio e scompariva nei boschi circostanti, per poi riapparire nelle case, rifornito delle sostanze da cui traeva le misteriose medicine.

Erano ormai passate alcune settimana. Rappresentanti dei soldati, dei pastori, dei contadini di Verdebosco, un mercante che si era trovato al villaggio allo scoppio dell’epidemia, ed era stato obliato a rimanervi, gli speziali venuti dalla città e infine, in disparte, il sacerdote, erano riuniti nell’ampio cortile quadrato della Casa Grande. Due grandi bracieri di bronzo, ai lati del cortile, offrivano calore e luce in quell’ora serale, dopo che il sole era già calato. Su una tavola, imbandita dai liberti, varie pietanze furono prese d’assalto dagli ospiti. Solo il sacerdote non rimase al tavolo, tra la calca delle persone che si ingozzavano di ogni portata, offerte più per mostrare opulenza e ricchezza che generosità, dopo aver preso una pagnotta di pane nero, un pezzo di formaggio e uno di carne di pecora, che consumò i silenzio.

Quitio Nunzio Clelio uscì dal porticato che circondava il cortile, chiuso da spesse tende che celavano la presenza di altre persone. Era questi un uomo intelligente, abile e scaltro, dotato per l’economia e la politica. Aveva capito che, per meglio governare sulla vallata, doveva richiedere tributi giusti, di bestiame e di messi, in modo che il popolo non si rivoltasse contro di lui, ma riservandosi di espropriare i capi migliori di bestiame per il gregge privato della sua famiglia. Ai mercanti che sostavano richiedeva una tassa per mercanteggiare, e una decima sul guadagno, pagamenti non onerosi per i commerciati, ma che contribuivano a riempire le casse della famiglia di denaro sonante. Gli occhi neri, scintillanti e intelligenti erano sovrastati da una fronte stempiata, sulla quale stava una chioma di capelli ben rasati, un tempo neri come l’ala del corvo, ora ingrigiti. Il viso, affilato, mostrava un corto naso aquilino, zigomi leggermente sporgenti, la bocca chiusa in una espressione austera, severa. Anni prima, in gioventù, aveva servito con i suoi soldati presso il signore della grande città vicina, tornado, dopo la vittoria, sposato con una delle figlie minori del signore stesso, la bellissima Ninfea Terenzia.. Quel matrimonio aveva dato il diritto a Quitio di portare sul suo capo un cerchio d’argento simbolo dell’appartenenza alla nobiltà minore del popolo marsicano. Nessuno sa se quello fu un matrimonio felice. Nunzia Terenzia diede a Quitio una figlia, ma morì anni dopo per complicazioni durante un altro parto, insieme al bambino che portava in grembo. Quella sera indossava un lungo abito di lana bianca, con un peplo che, dalla spalla destra, scendeva verso il fianco sinistro. In mano portava un gladio infoderato che posò al lato dello scranno dove si sedette. Un liberto, che lo serviva sin dalla gioventù, Pazio, richiamò i convenuti al silenzio.

“Signori-esordì Quintio-siamo qui per discutere circa questo male che affligge i nostri territori… Speziali, avete qualche novità?”

Uno degli speziali, il più anziano, si alzò.

“Mio signore, purtroppo la nostra scienza non riesce a capire come questo morbo si diffonda, e come, caso unico ed eccezionale, colpisca indistintamente piante, animali e uomini. Solo le cure del reverendo sacerdote hanno un qualche effetto, ma questi rifiuta di condividere con noi speziali le formule dei suoi rimedi…”

“Questo perché ,come ho già spiegato a lor signori- replicò una voce secca, senza tempo e senza età-perché tali formule sono segreti esclusivi del mio ordine. Chi ne entrasse a conoscenza indebitamente, verrà perseguitato e ucciso dal mio ordine. Credete sia un caso, se le scorte che uso finiscono ogni giorno? Ve ne sarete accorti, da quella notte che vi siete introdotti nel tempio per guardare nelle mie sacche….” -gli speziali si ritrassero, colpevoli, mentre il sacerdote esplose in una secca risata. -“Stolti! E comunque, ancora non lo avete capito che non è una semplice malattia?”

“Cosa intende, reverendo sacerdote?” chiese il mercante, incuriosito.

“Una malattia è causata da un elemento naturale che si trova ad aggredire un corpo, vivo o vegetale. Ma segue le leggi della natura, un equilibrio. Quello che abbiamo qui non è una malattia! È la Collera di Pitonio!”

I presenti ammutolirono.

“Pitonio!-proseguì il sacerdote-Il dio della guerra, a cui è sacro l’orso, per la sua forza, e la vipera, per la sua mortifera capacità. Ma anche il dio della Fertilità, a cui è sacro il fiume che bagna la terra dei Marsi!”- continuò indicando la vallata- “Ogni eone, egli chiede un sacrificio, affinché vi sia equilibrio tra il suo potere benevolo e quello mortifero che altrimenti dilaga, se ciò non viene adempiuto!”

“E che genere di sacrificio richiede, sacerdote?”- intervenne Quitio.

“Egli richiede- il sacerdote si fermò, dando una pausa drammatica alla sua affermazione- una sposa!”

I presenti ammutolirono. Quitio scoppiò a ridere, seguito in questo anche da tutti gli altri.

“Quindi il dio vorrebbe una donna per fornicare? Benissimo! Domani, due miei liberti andranno alla grande città e porteranno qui la più bella meretrice, così daremo soddisfazione al grande dio e porremo fine a questa piaga, sempre che il reverendo sacerdote abbia ragione….” scoppiò nuovamente a ridere.

“Sì-mormorò il sacerdote-potrebbe pure risolversi così….”

Il giorno dopo, i servi di Quitio partirono per la città. Rientrarono la sera accompagnati da un uomo enorme, barbuto e arcigno, che portava le briglie di un cavallo cavalcato da una donna velata. Entrati nel giardino della Grande Casa, ella, scesa da cavallo, alzò il velo rivelando  viso delicato, la pelle ambrata, le labbra sottili, atteggiate in un sorriso malizioso, occhi scuri con ciglia di seta, i lineamenti delicati, bellissimi, il corpo fasciato da un vistoso vestito rosa, molto aderente, perfetto, i seni pieni, la vita sottile, i fianchi e e natiche tondi e sodi. Gli uomini riuniti la guardarono con ammirazione, con sorrisi lascivi che le mogli di alcuni di loro non avrebbero approvato.

“Mio signore, io sono Belladonna, meretrice presso la grande città.” si inchinò, mostrando chiaramente, dalla scollatura, l’ampio seno, generosamente esposto.

“Avevo dato ordine che venisse portata la meretrice più bella-esclamò Quitio-e sono compiaciuto nel vedermi obbedito così bene. Belladonna, le hanno spiegato il motivo della sua venuta in questo villaggio?”

“Certamente e trovo eccitante, l’idea di essere posseduta da un dio. Spero che accetterà l’offerta e di meritare, ovviamente, il giusto compenso per le mie…prestazioni…”- disse lei accarezzandosi il petto e il seno con la punta delle dita.

“Non dubito che il dio apprezzi tanta bellezza-affermò Quitio avvicinandosi- E poi,- continuò con voce più bassa, per non farsi sentire- se il dio non dovesse farsi vivo, o anche per festeggiare le avvenute… nozze, potrei invitarla nei miei alloggi…”

Belladona rise con finta innocenza. “Certo, mio signore, sarà un piacere…” rispose.

“Bene!-riprese il padrone di Verdebosco a voce alta- Come è tradizione, la sposa deve essere portata presso lo sposo per consumare le nozze. Che Belladonna sia scortata al tempio!”

“Bene! E per essere sicura che lo sposo consumi le nozze, lo aspetterò così!”

Belladona si tolse l’abito facendolo cadere ai suoi piedi. Il corpo si rivelò in tutta la sua bellezza, il seno florido, sodo, per nulla cadente, il ventre piatto, i fianchi rotondi, le cosce affusolate, il pube accuratamente depilato. Una vista da mozzare il fiato ai presenti. Quitio si sentì avvampare. Avrebbe volto prendere la donna, portarla nelle proprie stanze e possederla brutalmente, ma dopo i proclami che aveva fatto, non poteva agire diversamente da quanto detto. “Scortatela” disse ai soldati.

“Se permette, mio signore, vorrei che il mio servo, Rufus, passi la notte di sentinella all’entrata del tempio-chiese Belladonna- Non vorrei che qualcuno vi si introduca e approfitti indebitamente di me… Rufus è stato un grande soldato, prima di inguaiarsi cercando di entrare nelle stanze delle donne di un signore della Corporazione dei Marsi: anche se si addormenta, si sveglierà al primo rumore…”

“E sia! Andate!”

I soldati scortarono Belladona fin dentro il tempio. La mondana si guardò intorno, posando un fagotto di pelli che Rufus le aveva portato, e che  sarebbe servito da giaciglio, vicino all’altare con la fiamma sacra accesa. Improvvisamente, i soldati si ritrassero facendo passare una sagoma. Era il sacerdote. In silenzio, questi si avvicinò all’altare, allungò una mano gettando qualcosa nelle fiamme. Incenso sacro! I soldati riconobbero la sostanza che veniva bruciata durante le grandi celebrazioni, dagli effluvi violetti e dal profumo dolce e paradisiaco.

“Che buon profumo! Grazie, vecchio. Posso fare qualcosa per ringraziarti..?” disse Belladonna, muovendo i seni in maniera eloquente. L’uomo, in silenzio si girò e uscì.

“Bene uscite anche voi!-disse la donna ai soldati. E poi-Rufus, alla porta!”

Rufus uscì al chiarore della luna, vide i soldati rientrare nelle loro case e la sagoma curva del sacerdote, che camminava, scendendo dalla collina su cui il villaggio sorgeva, accucciarsi contro un masso e quindi rimanere immobile, probabilmente dormendo. Sentì Belladonna battere le mai da dentro il tempio dicendo “I soldi più facili mai guadagnati!” e il tonfo che indicava che la donna si era stesa, di getto, nel giaciglio. Si posò su uno stipite della porta del tempio. E chiuse gli occhi.

Un rumore. Rufus riaprì gli occhi. Un rumore lo aveva svegliato, ma quale? Si guardò intorno; il chiarore della luna illuminava a giorno tutto il villaggio e la vallata. Ogni casa era chiusa, ogni fuoco spento. Lontano, vedeva la sagome del sacerdote, avvolto nel suo mantello, che dormiva placido contro la roccia. Non un animale, non un gatto. Nemmeno gufi o pipistrelli in cielo.

Eppure… Era sicuro, un rumore lo aveva svegliato!

“Mmmm…. Ahaaa!”

Rufus si voltò. Il gemito di piacere che aveva appena udito veniva dal tempio. Riconobbe la voce. Belladonna. Probabilmente, pensò, quella strana situazione, per la quale era stata portata in questo villaggio l’ha eccitata e, svegliatasi, aveva preso a toccarsi e masturbarsi come spesso faceva, quando l’eccitazione si impadroniva del suo corpo. Rufus aveva sentito gemere più volte la sua padrona, sia quando intratteneva i clienti, che sapeva essere finti gemiti per dare l’impressione di godere di rapporti, spesso con uomini incapaci di dare piacere, o quando, desiderosa di piacere, si masturbava, o, all’estremo, cercava uno o più maschi che la soddisfacessero. I gemiti che lo avevano svegliato erano sinceri, Belladonna non stava recitando.

“Siiììì….tutto dentro, ora..”

Rufus sentì una famigliare stretta allo stomaco, ma nient’altro. Pensò con rimpianto ad anni prima, quando era un ufficiale dell’esercito della Confederazione dei Marsi, formata dai popoli che vivevano i quella zona di Viteliu, formati da Umbri, Marsi, Sanniti e altri piccoli popoli, unitisi nella Confederazione, spinti dalla necessità di opporsi all’invasione dei Greci, ma anche dall’impulso del commercio e della cultura. Come soldato si era fatto valere, Finché perse la testa e il cuore per quella nobile fanciulla, nipote di un nobile Umbro. Saputo che la giovane era stata promessa in sposa ad un  altro nobile, molto più vecchio, aveva deciso di rapirla, conquistarla e poi, valendosi di antiche leggi d’onore, sposarla… Ma era stato frettoloso, incauto. Catturato dopo che si era infiltrato nel gineceo della residenza del nobile tutore della ragazza era stato catturato e accusato. La condanna non era tardata. Espulso dall’esercito, venne privato dei suoi titoli militari e non solo. Venne evirato, ma tenuto in vita proprio i riguardo al suo valore militare. Quindi, caduto in disgrazia, era stato catturato da alcuni briganti mentre, stordito e dolorante, camminava per la campagna, come un esule, senza meta. Ricordò le percosse, le ingiurie e gli abusi che aveva subito dal gruppo di bruti, prima che questi lo vedessero come eunuco ad un mercante di schiavi. Venne acquistato dal padrone di  bordello, dove venne impiegato come ruffiano, ruolo che stranamente gli si confaceva: il suo compito era intervenire, anche con la violenza, se un cliente sgarrava, non pagando le prestazioni, o usando violenza eccessiva sulle ragazze, magari i preda ai fumi del vino.

“Mmmm…Sì, così..di più..”

Rufus si appoggiò al muro del tempio, sperando che la donna finisse di darsi piacere e tornasse a dormire. Continuò, per distrarsi, a scrutare i dintorni, appoggiandosi alla pareti di freddo travertino.

“Dai, adesso mettilo tutto dentro.. dai!”

Rufus scattò. Finora credeva che Belladonna si stesse dando all’auto erotismo, ma l’ultima frase… Possibile che ci fosse qualcuno, nel tempio. Sbirciò.

La fiamma sacra, bruciando l’incenso profumato, aveva assunto una colorazione viola, che dava al tempio una ambientazione surreale. Belladona era distesa sul suo giaciglio, il corpo nudo fremente. Con lei, una figura umana, indistinta, fatta come di ombra, ma chiaramente maschile, le teneva le gambe aperte e sollevate. Rufus vide che il pube dell’uomo non era a contatto con quello della sua padrona, ma che una forma affusolata, lunga, sembrava unirli, la figura di un pene. Ma non un pene qualsiasi. Era lungo, forse anche esagerato, e molto spesso. Rufus vide l’essere compiere un unico, fluido movimento delle natiche, a spingere il pene enorme, con decisione, tra le carni del sesso della sua padrona. Belladonna ora urlava il suo piacere. Mai l’aveva sentita gemere con voce così alta, e dire frasi sconnesse con toni di piacere. Rufus si voltò, appoggiandosi al muro esterno del tempio. Si portò le mani, tremati, al viso, asciugandosi la fronte dal sudore freddo. Cosa aveva visto? Un dio, una vera divinità, che possedeva quella bellissima donna che era la sua padrona. Sapeva di storie di umani che avendo visto un dio, venivano puniti, spesso uccisi… Sarebbe morto per lo sguardo fugace che aveva dato al tempio? E intanto sentiva Belladonna gemere e urlare, urlare e gemere. La sentì avere un orgasmo, poi un altro, e un altro ancora in una sequenza interminabile. Poteva solo immaginare i due corpi allacciati nell’amplesso, Belladonna presa i diverse posizioni. Capì persino, da ciò che Belladonna, diceva che l’essere le stava praticando persino la sodomia, pratica che Belladonna aveva sempre rifiutato, ma che adesso sembrava subire con estasi ed entusiasmo. Rufus si prese la testa tra le mani. Ormai aveva perso la nozione del tempo, l’unico segno che il tempo passava erano i gemiti che venivano da dentro il tempio, la voce della donna che incitava l’amante. Poi, il silenzio. La luna nel cielo finiva il suo viaggio notturno prossima a sparire dietro le montagne. Rufus si calmò. Poi improvvisamente, un nuovo urlo. Non più di piacere. Alto e agghiacciante. Simili urla Rufus le aveva sentite sul campo di battaglia, ma mai così forti, intense. Entrò nel tempio, di corsa. Vide Belladonna sul suo giaciglio, sola, contorcersi e urlare per il dolore. Fece per avvicinarsi quando un’ombra immensa gli fu sopra. Sentì il colpo alla testa. Poi, il buio e il silenzio

Freddo. Umido. Soffocamento.

Rufus si svegliò, sentendosi il viso bagnato. Recuperò la vista, vedendo davanti e sé due soldati con in mano dei secchi.

“Cosa diavolo è successo, qui?” gli urlò in faccia Quitio.

Erano dentro il tempio. Rufus si girò verso l’interno. Rabbrividì. Il corpo di Belladonna giaceva, privo di vita, la pelle invasa da punti neri sanguinolenti, il ventre, sede della femminilità, orrendamente squarciato, il viso, ancora bellissimo, era contratto dal dolore. Rufus raccontò quanto aveva sentito e visto durate la notte, senza tralasciare i dettagli, sentiva il proprio volto sporco di sangue ormai rappreso. Quando ebbe finito di parlare, un soldato gli offrì un panno per pulirsi.

“Quindi la sposa è morta?” si sentì udire.

Il sacerdote era alla porta.

“Dannato vecchio, è questo quello che intendevi?” Quitio afferrò il davanti del mantello del sacerdote, spingendolo sul muro. Il braccio sinistro del sacerdote spuntò dal mantello, afferrando il braccio del nobile, torcendo il polso per fargli perdere la presa e spingendolo via.

“Povero pazzo,- replicò il sacerdote- credevi di imbrogliare un dio?”

“Come, imbrogliato? Non gli ho offerto una donna bellissima e sensuale? Stando al suo schiavo, è stata posseduta per diverse volte, come puoi dire che il tuo dio non sia soddisfatto?”

“Pensi di placare la Collera di Pitonio con una sgualdrina, sia pur bellissima? Ti ho detto che bisogna offrirgli una SPOSA! Voi- disse rivolgendosi ai soldati- portate il corpo alla Casa Grande per ricomporlo!”

“Come, in casa mia?”

“Questo tempio è già stato profanato da voi, col vostro patetico tentativo di placare il dio. Ora dovrò bruciare delle erbe purificatrici, quindi il cadavere va spostato! Tu hai fatto venire quella giovane meretrice, tu ti occuperai delle esequie! E ora, fuori! Subito!”

I soldati e Rufus obbedirono all’istante. Usando il giaciglio di pelli per avvolgere il corpo, lo sollevarono e lo portarono via. Il sacerdote si avvicinò all’altare calpestando il pavimento sporco di sangue. Quitio era ancora sulla soglia, fermo.

“Vai a casa tua e aspettami, Quitio- disse il sacerdote, beffardo- e ti dirò perché il tuo espediente non ha avuto successo e come placare il dio.” Prese dei sacchi di erbe e incenso sacro e li buttò nel fuoco; appena bruciati, con un coltello, che evidentemente aveva sotto il mantello, raccolse le ceneri e le buttò dentro un secchio, ancora pieno d’acqua, lasciato lì dai soldati. Buttò l’acqua sul sangue che subito sembrò sciogliersi e diluirsi. Presa una pezza, sempre lasciata lì dai soldati, la buttò per terra e muovendola con il bastone, ripulì il sangue.

Minuti dopo, il sacerdote entrò nel cortile quadrato della Casa Grande. Quitio, Rufus e i soldati erano attorno al cadavere di Belladonna, ma non avevano toccato il corpo, che stava iniziando ad emettere un odore acro e pungente. Il sacerdote si avvicinò, tenendo in mano un secchio pieno d’acqua. Versò l’acqua sul corpo. Il puzzo che aveva tenuto lontani gli uomini si attenuò fino a sparire.

“Cenere di incenso sacro sciolto nell’acqua.” spiegò sbrigativamente. Si fece dare un panno, e con quello ripulì il corpo della giovane meretrice dal sangue. Poi premendo sul volto, fece rilassare i muscoli contratti dando al viso splendido della giovane donna un’espressione composta, serena.

“Avvolgete il corpo con dei mantelli e legateli bene. Poi, portatela lungo il fiume, trovate una radura e scavate a buca profonda abbastanza da essere alta quanto un uomo e seppellitela.”

“Perché non bruciarla?” chiese un soldato.

“Perché costei a ricevuto nel suo ventre il seme divino del dio Pitonio, ma essendone indegna, il seme divino le ha sventrato il corpo, portandole la Collera di Pitonio e la morte. Solo vicino al fiume, sacro al dio, si placherà la maledizione che ha colpito questa … innocente. Andate e fate come vi ho detto!”

I soldati guardarono il signore del villaggio.

“Vecchio- disse Quitio- come possiamo essere sicuri che non sia stato tu, e non il dio a introdurti nel tempio, approfittare della donna e poi ucciderla, per qualche recondito motivo della tua setta?”

“Impossibile, mio signore-rispose Rufus- nel tempio non ci sono altre entrate e io mi sarei svegliato, se qualcuno mi fosse passato accanto. Inoltre avevo visto il reverendo sacerdote andare a dormire appoggiato a quel masso, a valle- continuò indicando- e quando mi svegliai per via dei gemiti di Belladonna durante l’amplesso con… il dio, ho visto chiaramente la sagoma del sacerdote giacere presso quel masso. La luna illuminava la notte come fa ora il sole.”

Quitio scosse la testa. “Ti chiedo scusa…reverendo sacerdote… Non volevo credere che il villaggio fosse davvero vittima di una maledizione sovrannaturale. Ti prego…reverendo sacerdote- il titolo che veniva attribuito al mistico usciva con difficoltà dalla bocca del nobile- dimmi come placare il dio, e io riparerò al mio errore, facendo ciò che mi dirai!” chinò il capo, contrito.

“Anticamente, veniva scelta in sposa la fanciulla più bella tra le comunità di pastori che abitavano nei dintorni, o la figlia della persona più importante. E non veniva portata al tempio, come in offerta, ma in luogo sacro, noto solo ai sacerdoti, da noi chiamato l’Alcova di Pitonio. Lì venivano consumate le nozze sacre del dio che rinnovavano la sua benedizione, portando salute e abbondanza lungo la vallata.”

“Allora perché il dio si sarebbe giaciuto con Belladona, se non era degna, come dici tu?”

Il sacerdote si avvicinò al nobile. “Il dio ha voluto prendersi gioco di te, stolto, che avevi cercato di fregarlo. Pensavi davvero di poter dare in sposa al dio una donna che non fosse pura? Una che aveva venduto il suo corpo, la sua femminilità ad altri? Quando voi nobili fate sposare i vostri figli, pretendete che le giovani spose siano illibate, e la loro stessa verginità è parte della dote che viene portata, o sbaglio?” disse a denti stretti.

Quitio si voltò, non avendo il coraggio di guardarlo in faccia. “È vero!” ammise con malavoglia.

“Credi forse che un dio non se ne sarebbe accorto? Di ingannare facilmente un essere superiore, immortale, onnipotente, quando non puoi ingannare un tuo simile? Se il dio Pitonio ha giaciuto con Belladonna, lo ha fatto per spregio nei tuoi confronti, pensi che non ci siamo accorti, ieri sera, che avresti voluto possederla?”

Quitio abbassò lo sguardo, contrito. “Va bene, faremo come dici tu. Cercheremo una giovane vergine da offrire in sposa al dio….”

“Pensi di potertela cavare semplicemente così’”- riprese il sacerdote, beffardo. E poi, indicando Quitio- “La sposa per il dio la dovrai scegliere, certo, bella e pura. Ma dovrà essere un membro della tua famiglia, la fanciulla più bella della tua casa!”

“Cosa?” Quitio strabuzzò gli occhi, quasi soffocando, il viso paonazzo. “Tu vorresti che…”

“Padre!”

Una fanciulla entrò nel giardino da dietro i pesanti tendaggi che coprivano il porticato, come sere prima. Era la figlia di Quitio e Ninfea Terenzia. “Cinlia Ariana Clelia!” -annunciò Pazio.

 Il nome della fanciulla era nota anche oltre la vallata. Se la madre era considerata una donna di grande bellezza, Cinlia veniva decantata come esempio di sublime bellezza dai bardi, nelle occasioni in cui erano stati in città, a visitare i nonni materni. Aveva quasi 16 primavere, ma sin da bambina aveva una naturale bellezza che catturava gli sguardi, innocenti o meno. Eppure, visto il rango del nonno materno e la reputazione del padre, che nel suo piccolo era comunque temuto, era sempre stata protetta. Crescendo la sua bellezza era sbocciata, e la bella bambina che rideva, correndo, aveva lasciato il posto a una giovane che camminava con grazia innata. Il corpo aveva abbandonato le forme dell’infanzia, ma ancora non maturo, adulto, era snello e flessuoso come lo stelo di un fiore. La vita sottile, circondata da una cintura di borchie dorate, l’abito bianco leggero che portava le fasciava il corpo, lasciava vedere le forme, un seno sodo e alto che riempiva il vestito sul petto, che si era sviluppato quasi troppo e sembrava premere sul tessuto, come per uscirne fuori. I fianchi larghi e tondi, facevano sorridere le serve della Casa Grande, che asserivano che, un giorno, le avrebbero garantito figli forti, sani e belli. La lunga gonna del vestito coprivano le gambe un tempo nodose, ma quando camminava, le gambe increspavano leggermente il tessuto, mostrando di essere diventate affusolate e lunghe. Il viso era dai lineamenti fini, delicati, la pelle candida come il petalo di una margherita, le labbra, piene e rosse, atteggiate in un broncio adorabile, sensuale, si scioglieva in un sorriso luminoso, che costringeva chi le stava attorno a sorridere a sua volta. I capelli scuri erano pettinati in una crocchia elaborata per poi scendere, lunghi, setosi, sulla schiena. Gli occhi cangianti, a volte scuri, marroni, a volte chiari brillavano di intelligenza. Dalla madre, nei primi anni dell’infanzia aveva appreso al dolcezza, l’amore per il popolo, la compassione e la devozione alla patria e alle divinità. Dal padre, aveva preso la ferma volontà, la determinazione, proprie della famiglia Clelia.

“Padre,- disse con voce un po’ roca, ma comunque musicale e piacevole-sai bene che, nella nostra famiglia, non ci sono altre ragazze nubili. Se quello che serve, per salvare il nostro villaggio da questo male, è che io sia offerta al dio, così sia!”- tremava leggermente ma la voce era decisa, ferma.

Quitio, che prima era paonazzo, ora impallidiva. Pur avendo desiderato un maschio che potesse ereditare il suo titolo, era molto orgoglioso della figlia, divenuta così bella e sana. Inoltre aveva sempre auspicato di poter far sposare quella figlia ad un nobile di rango più elevato in modo da aumentare il proprio prestigio e la propria influenza. Avrebbe poi potuto cercare moglie tra le giovani delle famiglie più altolocate, e così avere l’erede maschio che desiderava. Ma se la figlia si fosse concessa alla creatura che, la notte precedente, aveva giaciuto con Belladonna, suscitando, stando al racconto di Rufur, in lei i piaceri della carne, piaceri che una meretrice dovrebbe dominare… E se la descrizione fatta da Rufus era veritiera. Quitio si rendeva conto che Clelia, una volta fatto il passo al quale si era detta disposta, non sarebbe più stata vergine. E come prima gli aveva ricordato il sacerdote, la verginità di una sposa novella è parte indispensabile della dote di una giovane nobile… Alzò il pugno, desiderando di impedire alla figlia questo gesto, ma si rese conto di essersi spinto oltre. Aveva dichiarato che avrebbe riparato di fronte ai rappresentanti del popolo, accorsi dopo che la notizia della morte di Belladonna. Se si fosse tirato indietro, il popolo di Verdebosco avrebbe potuto, secondo le regole della Confederazione, sollevarsi contro di lui, persino coinvolgere i nobili della città in loro favore. Lasciò cadere la mano rassegnato. “E sia!” disse.

“Ragazza, coraggiosa”- intervenne il sacerdote -“Predi un mantello e preparati, dobbiamo partire subito per raggiungere l’Alcova di Pitonio! Entro tre giorni, sarà tutto inutile; già adesso i miei rimedi stano perdendo di efficacia. Fra tre giorni, il male che affligge il villaggio sarà insanabile e mortifero come lo è stato per Belladonna!”

Il tono del sacerdote non ammetteva repliche. Un mantello fu portato alla giovane donna, che subito seguì il sacerdote sempre curvo su se stesso.

I monti pieni di boschi sono, certo piacevoli luoghi in cui passeggiare. Ma i due viandanti non potevano godere le bellezze del panorama. L’uomo, curvo, si posava sul suo bastone. La ragazza invece avanzava in groppa all’asino che avevano preso presso una delle fattorie limitrofe al villaggio.

“Il viaggio non è lungo, giovane Cinlia, ma può essere stancante per chi non è abituato a viaggiare a piedi!”

Per tutto il primo giorno avevano viaggiato mangiando pane e formaggio, portati in fretta e furia dei liberti del padre della ragazza, insieme ad  altri alimenti come carne cruda e  verdura, chiusi i una bisaccia. Arrivata la sera, si fermarono in una radura. Il sacerdote la fece scendere dall’asino aiutandola, poi si mise a raccogliere della legna e dei sassi. Con i sassi formo un cerchio dentro al quale pose dei rametti di legno. Con movimenti abili, che alla ragazza parvero quasi magici, accese un piccolo fuoco, che alimentava aggiungendo dapprima piccoli rametti, poi sempre più grossi pezzi di legno. Il fuoco regalava luce e calore. “Ci riscalderà,-aveva affermato il vecchio- e terrà lontani gli animali!” Poi , con il suo coltellino di bronzo, aveva tagliato le estremità di due rami formando delle punte, per poi infilzare pezzi di carne dalla bisaccia e grossi funghi che tirò fuori dai sacchi che portava appesi alla cintura. Posti i rametti sopra il fuoco, li abbrustolì abilmente, cospargendoli di foglie e spezie che ne rendevano appetitoso l’odore. L’uomo passò uno spiedo improvvisato alla ragazza, con i pezzi di carne e i funghi caldi e fumanti. La fanciulla prese il ramo e cominciò a mangiare gustando la carne e i fughi sapientemente aromatizzati.

“Come ti senti, giovane Cinlia?” chiese l’uomo, pacatamente.

“Stanca!” affermo di getto, quai sospirando.

“Non era quello che intendevo.- continuò lui- Ti stai trovando, giovanissima, a dover affrontare l’ignoto, un pericolo mortale. Lo hai potuto constatare, sapendo cosa è successo a quella donna solo ieri notte… Non hai paura?”

Cinlia si strinse il mantello attorno le spalle, il corpo scosso da un lieve tremito, come di freddo e abbassando lo sguardo.

“Sì, ho paura, ma cosa avrei dovuto fare? Mia madre mi ha educato ad essere altruista con il prossimo, ad essere coraggiosa nelle avversità. Lei era sempre gentile e amorevole con tutti, indipendentemente  dal ceto sociale. Da piccola, mi portava a giocare con i bambini dei contadini e dei pastori di Verdebosco, e quando eravamo stanchi per le corse e i giochi, ci riuniva attorno a lei, offrendo del cibo, non solo i bambini ma anche ai genitori. Poi ci raccontava storie. Da lei ho capito che un nobile ha una responsabilità: avere cura del proprio popolo! Mio padre lo fa, certo, ma solo se po’ averne un tornaconto… Lei intendeva che tale atto fosse spontaneo, disinteressato. Per questo non me la sono sentita di tirarmi indietro, quando era evidente quale fosse il mio dovere… E poi- continuò alzando lo sguardo e con voce più decisa- quella donna, per quanto bella, non era degna di divenire la sposa del dio. Forse sono anche io indegna?”

Il sacerdote le sorrise.

“Di certo possiedi molte qualità che il dio apprezza. Coraggio. Dolcezza. Abnegazione. E, certamente, grande bellezza. Ma, e spero di non metterti in imbarazzo, sei anche pura?”

La giovane abbassò gli occhi arrossendo…

“C’è qualcosa che devo sapere?” chiese il sacerdote con dolcezza.

“Pochi anni fa, c’era un giovane soldato, a Verdebosco, che mi disse di essere innamorato di me… Era un bel giovane, lo conoscevo sin dall’infanzia, e mi piaceva, ma morì durate una spedizione militare. Piansi tanto, per la sua morte… E poi…”

“E poi?”

“Alcuni mesi fa, mentre ero alla residenza di mio nonno… era una mattina soleggiata, e mi ero pulita, immergendomi in acqua calda e profumata con petali di rose. Mentre mi asciugavo, entrò nella mia stanza mia cugina Porzia, che è un po’ più grande di me. Mi vide, nuda, e mi guardò in maniera strana. Mi si avvicinò, e mi tolse di mano il panno con cui mi stavo asciugando. Mi mise una mano sulla guancia  e mi disse che ero molto bella. Mi prese per mano e mi portò sul mio giaciglio, facendomi prima sedere, e poi sdraiare. Incominciò ad accarezzarmi con le punta delle dita, il suo tocco mi fece rilassare, le sentivo scivolare sulla pancia, attorno all’ombelico, risalendo sui seni e costeggiando i capezzoli, che sentii indurirsi. Me li baciò, succhiandoli avidamente, prima uno e poi l’altro. Con dolcezza, mi aprì le gambe e appoggiò le labbra alla mia fessurina. Sentii la lingua farsi largo nella fenditura, leccandomi.. Ricordo di aver sentito un grande piacere, mentre la sua lingua entrava dolcemente nella mia intimità, muovendosi su e giù, raggiungendo la parte superiore del mio sesso dove sentivo il mio bottoncino inturgidirsi. Lei lo prese tra le labbra, stringendolo e succhiandolo, e in quel momento mi sentii rapita da un piacere fortissimo, che faceva tramare tutto il mio corpo. Poi mia cugina si alzò, avvicinò il suo viso al mio e mi baciò sulle labbra, premendole con forza e introducendo la lingua: ricordo il vago sapore dolciastro che sentii sulle sue labbra.”- alzò lo sguardo verso il sacerdote-”Questo mi rende forse impura, indegna di essere la sposa del dio?”

“Non credo. Il sacrificio che Pitonio chiede è che una vergine gli venga data in sposa, e solo quando una  vergine giace con un uomo il suo sesso ha la perdita di sangue, che per il dio è il segno del sacrificio, sangue che sostituisce quello offerto a volte in olocausto: non derivato dalla morte, ma dalla vita” Guardò la giovane negli occhi.

“Vuoi dire- chiese esitando- che potrei rimanere gravida del dio?”

“A volte è successo… Se la sposa è più che degna, il dio la ama e le dona un figlio, che è simbolo della sua benedizione. I figli di Pitonio sono rari, ma la nostra storia li ricorda come gradi capi del nostro popolo, ed eroi.. Ma adesso dormi, domani arriveremo all’Alcova di Pitonio, e all’adempimento del nostro destino.”

Cinlia annuì, stendendosi sull’erba, avvolta nello spesso mantello che, insieme al fuoco, le dava calore. Il sacerdote prese la rozza sella dell’asino che, tranquillo, brucava i cardi nel sottobosco, e la portò alla testa della ragazza, invitandola ad appoggiarvisi. Si avvicinò poi al fuoco, aggiungendo legna, quindi si appoggiò a un albero, stringendosi il mantello attorno al corpo. Cinlia si sentiva, inaspettatamente, comoda. Il sacerdote, se pur misterioso e burbero, era gentile. Guardò le stelle splendere nel cielo: non le aveva mai viste così. Chiuse gli occhi e si addormentò.

Le palpebre sbatterono al risveglio. Una, due, tre volte. Mettendo a  fuoco il cielo, ormai illuminato dal sole. Inspirò, sentendo uno strano peso sul petto. Scostando il mantello, si guardò sul petto. Strabuzzò gli occhi. Acciambellato tra i due seni, stava un grosso serpente. Cinlia fece per alzarsi istintivamente ma la voce dl sacerdote la bloccò. “Ferma!”- con tono concitato. Lo vide avvicinarsi, la mano tesa, aperta intimandola a stare ferma, lo sguardo corrucciato.

 La testa del’animale si alzò, come guardandosi intorno. Per un attimo, le pupille verticali dell’animale sembravano scrutare gli occhi della ragazza, mentre la lingua biforcuta saettava. Lentamente, il rettile sciolse le sue spire, scese strisciando lungo il seno sinistro, quasi stringendolo, e scendendo dal braccio di Cinlia, che ebbe un lieve sussulto, per poi scivolare sul terreno e sparire tra l’erba alta.

Il sacerdote la aiutò ad alzarsi. “Un buon auspicio!_ disse, e poi, vedendo lo sguardo interrogativo della ragazza-”La vipera è un animale sacro a Pitonio. Vieni, oggi arriveremo alla nostra meta, l’Alcova di Pitonio, ma dovremo proseguire a piedi, la zona non è adatta per l’asino. Lo lasceremo qui: avrà da mangiare cardi e rimarrà fino al nostro ritorno.” Le porse del pane tagliato dentro il quale aveva messo della carne arrostita avanzata dalla sera prima e del formaggio, pasto che la ragazza consumò camminando dietro al sacerdote, che ora portava anche una fascina di legna, raccolta la sera prima, oltre alla bisaccia del cibo.

Camminarono per delle ore. Ormai a pomeriggio inoltrato Cinlia sentì un rumore farsi sempre più vicino e più forte. Superati gli alberi del bosco la giovane venne abbagliata. Il sole si rifletteva sulla superficie cristallina che scorreva, rumorosa, lungo il percorso che la natura le aveva dato. Si trovavano sulle rive del fiume che dal dio prendeva il nome, il fiume sacro che bagnava la vallata delle terre dei Marsi..

“Siamo arrivati!”-affermò il sacerdote, indicando con il suo bastone.

Seguendo l’indicazione dell’uomo, la ragazza vide una alta cascata che infrangeva violentemente l’acqua scintillante, provocando il rumore, il boato che aveva sentito avvicinarsi. Possibile che fosse lì, l’Alcova di Pitonio? Dubbiosa, seguiva il sacerdote verso l’acqua che precipitava dall’alto, riflettendo i raggi del sole come uno specchio. Il sacerdote, avvicinandosi all’acqua che cadeva vi entrò con decisione, sparendo. Basita, si avvicinò alla cascata, scrutando. Capì, e con un balzo entrò nella cascata. L’acqua la colpì con forza, come uno schiaffo sulle spalle ed sul collo. Celata dall’acqua cadente e splendente dei raggi del sole, di luce riflessa, dietro la cascata, c’era una grotta. La caverna si addentrava nel sottosuolo, come a formare diverse stanze. La prima stanza della grotta era parzialmente illuminata dai raggi di sole che filtravano dalle acque, cristallina parete che separava quell’affranto sotterraneo dal mondo. Il sacerdote era al centro della seconda stanza della grotta, immersa nella penombra. Sembrava armeggiare con qualcosa. Celia si avvicinò. Al centro della seconda grotta c’era un grosso braciere di bronzo, che l’uomo stava liberando e parzialmente pulendo. Una volta finito, prese la fascia di legna che aveva portato, mise alcuni rami nel braciere e armeggiò. Due, tre scintille, e i rametti formarono presto un focherello vivace, che alimentò con legna sempre più consistente, nutrendo la fiamma che divenne presto un fuoco luminoso. La legna presto si trasformò in brace, che l’uomo alimentò nuovamente con altri rami. Ottenne un fuoco consistente, simile ad una fiamma sacra nel tempio

“Vieni!”disse con voce sommessa, andando verso la terza stanza. L’entrata era incorniciata da stalattiti e stalagmiti che la facevano apparire come una enorme bocca mostruosa, pronta a chiudersi e divorarli. All’interno di questa stanza il cui soffitto era costellato di stalattiti, ma il pavimento era libero di stalagmiti e anzi, al centro della grotta, ben più ampia delle precedenti, c’era una pozza piena d’acqua ribollente, fumante. La pareti della stanza, lisce e lucide, riflettevano la luce della fiamma che scoppiettava, allegra, nel braciere. Nell’aria un odore innaturale, che sembrava appartenere a un altro mondo, senza un vero “sapore”, ma perfettamente percepibile dall’olfatto. 

“L’acqua di questa pozza-spiegò il sacerdote con voce sommessa- è costantemente calda, sgorgado dalle viscere stesse della terra. Toccala…”

Cenlia allungò la mano e toccò l’acqua. Era piacevolmente calda. La fece scorrere sul palmo poi immerse la mano, lasciandola dentro. Il  tepore era piacevole. Il sacerdote si avvicinò frugando sotto il mantello. Tirò fuori un sacchetto di cuoio rosso, lo aprì ed estrasse alcuni cristalli colorati, poco più che granelli di polvere ammassati ora sul palmo. Lentamente, li fece cadere nell’acqua calda dove sparirono. Si iniziò a sentire, nell’aria, degli aromi che solleticavano l’olfatto, provocando una sensazione di rilassamento.

“Ora, giovane Cinlia, devi fare un bagno purificatore. Io andrò a cercare dell’altra legna per il fuoco, dovrò fare in modo che rimanga acceso a lungo, come un fuoco sacro… Fai con comodo.” Con queste parole, tornò alla stanza precedete e uscì dalla grotta. La giovane, ora sola fece cadere lo scuro mantello.Le mani, leggermente tremanti, sciolsero la cintura e i lacci che trattenevano il vestito. Come una carezza sul suo corpo cadendo. Quindi slacciò i sandali che portava ai piedi. Posò il piede nudo sulla pietra, che era stranamente tiepida, forse, capì, per lo stesso fenomeno che manteneva calda l’acqua. Il corpo ebbe un breve brivido nel denudarsi, ma l’aria di quella grotta si rivelò anch’essa piacevolmente tiepida. Si portò pudicamente la mano al seno, pieno, sodo, perfetto, leggermente a punta, accorgendosi che i capezzoli si erano inturgiditi. Una miriadi di emozioni si fecero largo in lei…Un misto di esaltazione, imbarazzo, eccitazione. Saggiò l’acqua con il piede. La pelle candida, alla luce surreale della grotta, la faceva apparire diafana, eterea, come se lei stessa si fosse trasformata in una creatura non più umana, come una ninfa o una divinità delle selve. Entrò nell’acqua, sentendosi riscaldare. Si distese nella pozza, rilassandosi, lasciando che i lunghi capelli si bagnassero. L’acqua le accarezzava il corpo, come se stesse ricevendo un  massaggio. Appoggiò la testa sul bordo della pozza, chiudendo gli occhi. Lasciò che una sensazione di rilassamento e benessere la invadesse. Non seppe per quanto tempo era rimasta così. Riaprì gli occhi solo quando sentì un rumore all’intero della grotta. Vide il sacerdote armeggiare attorno al braciere. Uscì dall’acqua lasciando che questa le gocciolasse addosso. Il calore della grotta  sembrava essere aumentato o forse era l’effetto del fuoco che il sacerdote stava curando, e che era diventata vera e propria pira sacrale. Cinlia prese il pettine con cui teneva intrecciati i capelli e lo passò su di essi, pettinandoli, curandoli; senza renderse conto, si stava facendo bella per lo sposo che doveva arrivare. Sentiva come un nodo in gola, un misto, ora, di tensione e paura che si univano alle emozioni sentite prima: ora che il momento fatidico in cui sarebbe stata sacrificata, come vergine, al dio, all’emozione e l’eccitazione si aggiungevano i dubbi? Se la avesse rifiutata? E se non l’avesse pressa in considerazione? E se non si fosse neanche presentato? Cosa le sarebbe successo?

Queste considerazioni continuavano ad affacciarsi alla sua mente, terminando solo quando il sacerdote, chiamandola la riscosse. Avvicinandosi a lei, l’uomo le portò delle rozze stoviglie intagliate nel legno, su cui stavano dei pezzi di carne, perfettamente arrostiti, funghi e delle foglie di lattuga tagliate a pezzi. Di nuovo, come la sera precedente, si stupì di come quell’uomo, curvo e apparentemente fragile, fosse estremamente competente in numerose cose, tra cui la cucina. La carne ne era un esempio illuminante, cotta perfettamente e aromatizzata, un autentico piacere al palato, anche meglio di come la preparavano alla casa del nonno materno. In una tazza di legno, c’erano numerose bacche selvatiche, more, lamponi, fragole e mirtilli, che la ragazza, consumato il resto del pasto, portava alle labbra gustandole lentamente. Involontariamente, portando i frutti di bosco alle labbra succhiava sensualmente la punta delle dita. Il sacerdote le porse un bicchiere,sempre intagliato nel legno, in cui aveva versato, da una fiasca di pelli, un liquido scuro. Lo bevve, scoprendo che si trattava di vino, leggermente speziato, che le diede una forte sensazione di calore.

Terminò il pasto, e il sacerdote prese le stoviglie di legno intagliato e le ripose in una sacca.

“Bene,-le disse-ora è tempo di entrare nell’Alcova di Pitonio!” e le indicò l’apertura che portava i una grotta più interna. Cinlia fece per prendere i vestiti, ma il sacerdote la fermò, fermandole le mani e scuotendo il capo. Alzatasi, seguì l’uomo che l’aveva guidata sinora verso la grotta interna. Arrivati all’ingresso, l’uomo si scostò, invitandola ad entrare. Varcò quell’ingresso, più piccolo dei precedenti. La grotta in cui ora si trovava era più piccola, molto simile a una semplice stanza della sua casa a Verdebosco. La luminosità era molto ridotta, ma riusciva chiaramente a vedere, nella penombra, che la stanza era spoglia, ad eccezione di una pietra perfettamente squadrata, posta sul fondo della grotta. Il sacerdote le passò un involucro, indicandole la pietra, senza parlare, come se fosse proibito. In silenzio raggiunse la pietra. Notò che, se pur era bianca, la superficie superiore appariva nera. Sentiva un odore familiare. Muschio. Con mano esitate, toccò la superficie nera della pietra. Era molto morbida e umida. Una spessa coltre di muschio ricopriva la pietra. Con un lampo di intuizione, sciolse il fagotto che le aveva dato il sacerdote e la stese sopra il muschio. Si trattava di una imbottitura di pelli animali, che si adattavano quasi perfettamente alla pietra squadrata. In una parte presentava un’imbottitura più spessa, come a formare un cuscino per poggiare la testa. Con abilità, Cinlia dispose l’imbottitura su quella che, aveva capito, non era, come inizialmente le era apparso, un altare sacrificale. Era invece un vero e proprio letto nuziale.

“Bene, giovane Cinlia, ormai il nostro viaggio è finito!- disse il sacerdote, fermo all’ingresso dell’Alcova di Pitonio- Io non posso entrare in questa grotta, il cui accesso è permesso solo alla sposa prescelta del dio… Ora, fanciulla, stenditi sul letto e aspetta che il tuo sposo, al crepuscolo, venga a reclamare il tuo sacrificio. Io tornerò a curare il fuoco…” Giratosi si allontanò, cantando, con voce rauca ma gradevole, un inno che Cenlia aveva sentito, in occasione di alcuni sposalizi a Verdebosco.

“Al tramonto lo sposo e la sposa, trepidanti,

si ritirano lasciando gli amici festanti. 

La luna illumina il cielo. Volano le civette rientrando al nido.

Le volpi e i lupi, la caccia terminata,

rientrano alla tana con la compagna amata. 

Tutto in natura ricerca, la notte, 

di non stare soli.

Dal tramonto all’alba, è il tempo dell’amore!”

Sentendo questi versi, la fanciulla si stese nel giaciglio ora pronto. La pelle  le garantiva protezione dall’umidore del muschio, e un certo calore. Il cuore e l’animo erano sconvolte da mille emozioni. Sdraiatasi nel giaciglio chiuse gli occhi e, vinta, si addormentò.

Quando riaprì gli occhi erano passate delle ore. Guardando oltre l’uscio della grotta in cui si trovava, allineata con gli ingressi delle altre grotte, poteva vedere la cascata tingersi, riflettendoli, del colore del tramonto. Vide, accanto al braciere, la sagoma del sacerdote, seduto e curvo, forse addormentato accanto al fuoco che ardeva. Sentì il profumo del sacro incenso che doveva essere stato bruciato dalle fiamme. Non sapeva cosa dovesse fare. Una parte di lei era tentata di alzarsi e raggiungere l’uomo vicino al fuoco, ma si ricordò che le aveva detto di rimanere lì in attesa. Vide l’acqua della cascata, che riflettevano la luce rossa del tramonto, passare ai toni più scuri. Ora solo la luce del fuoco rischiarava, se pur debolmente, la grotta. Regnava il silenzio. A un certo punto, però, Cinlia notò un rumore, non evidente. Proveniva dalla pozza di acqua calda della grotta precedente. Di fronte agli occhi increduli della ragazza, un corpo emerse dalla pozza. Una figura umana, alta, le spalle larghe, il corpo atletico, i fianchi forti. Lunghe gambe camminavano verso l’Alcova, e tra di esse vedeva pendere qualcosa… L’anno precedete, durante un viaggio con la corte del nonno al sud, aveva potuto assistere, in una colonia greca, alle gare di atletica tipiche di quella cultura, in cui gli atleti gareggiavano nudi, e aveva visto, per la prima volta in vita sua, uomini nudi. Sapeva, quindi, cosa fosse, o cosa dovesse essere, ciò vedeva pendere tra le  quelle gambe, ma, rispetto a quelli che aveva visto in quella occasione, era decisamente più grosso e lungo. Le cugine più grandi, una delle quali si era sposata pochi mesi dopo quel viaggio, avevano parlato a lungo, con commenti fin troppo audaci, su come il pene svolgesse la sua funzione riproduttiva, e di come, eccitato, diventasse più grosso e duro. E aveva avuto conferma quella primavera, quando aveva visto uno stallone montare una giumenta…Si stava domandando cosa avrebbe provato lei, vergine, al venire penetrata da un simile membro, quando si accorse che la figura era ormai ai piedi dell’Alcova. Si irrigidì, vedendo il braccio destro che si alzava. La mano si posò sul piede sinistro della fanciulla, con un tocco gentile, risalendo, come una carezza,  sulla gamba, sulla coscia mentre, in ginocchio, la figura saliva sull’alcova, le gambe divaricate costeggiavano quelle di lei. La mano, carezzevole, salì sui fianchi e sul petto, saggiando il seno con le dita e carezzando col pollice il capezzolo, che si inturgidì. La mano salì ancora sulle spalle, sul collo e sul viso, dove indugiò, il pollice seguendo la linea della bocca carnosa, mentre le altre dita sentivano la forma perfetta del naso e dell’ovale. Le dita si persero tra la seta dei capelli andando a sostenerla alla nuca e attirandola. Languida, Cinlia si lasciò andare. Lo sposo reclamava un bacio dalla sua sposa. Labbra piene, maschie e decise, si posarono sulle sue, succhiandole avidamente. Cinlia rispose al bacio; le labbra che aderivano tra loro schiudendosi. Un sapore di miele e menta arrivò al palato della fanciulla, mentre un aroma intenso, particolarissimo, le invadeva le narici, come un misto di vari odori: muschio, menta, l’odore dell’erba bagnata, ma anche l’odore della pelle animale e dei funghi. Le labbra di lui si staccarono dalle sue baciandole il collo e poi i seni, che teneva ormai con ambo le mani mentre la bocca baciava e succhiava avidamente i capezzoli. Sempre tenendole i seni, il viso scese sull’addome, soffermandosi vicino all’ombelico. Poi sentì le mani scendere carezzevolmente sul corpo, afferrare le gambe ed aprirle, e la testa di lui infilarsi tra le sue cosce. La sentì, umida e calda. Come quella volta con la cugina, sentiva la lingua del suo sposo assaporare la sua intimità, farsi largo tra le grandi labbra del suo sesso. Si accorse però di una stranezza. La lingua che ora assaporava la freschezza del suo virginio fiore era biforcuta, come quella del serpente che aveva dormito sul suo petto. Se anche un brivido di repulsione la stesse cogliendo, l’ondata di piacere che la travolse, mentre quella lingua anomala si muoveva sul suo sesso, fu più forte; si scoprì gemere debolmente, mentre il piacere cresceva e raggiungere il suo apice quando le due punta della lingua, raggiunto il clitoride, già gonfio, si erano strette su di esso, pinzandolo, e sentì la secrezione di  liquido vischioso che veniva immediatamente e golosamente lappato. Pitonio si fermò alzando il viso dal pube di lei. Cinlia capì che voleva possederla, penetrarla. Da una parte era  ancora atterrita al pensiero, dall’altra, ora sollecitata dall’orgasmo appena provato, anelava ciò che si doveva compiere. Sentì qualcosa strisciare sulla sua pancia. Inizialmente, pensò che fosse un serpente, ma si accorse subito che era troppo dritto, duro e nodoso. Capì. Pitoio stava passando il suo pene sul suo corpo, come per farle capire quanto in profondità le sarebbe entrato. Quando sentì lo scroto appoggiarsi contro il suo pube, percepì chiaramente la punta di quel pene a diversi centimetri sopra l’ombelico. Poi il pene scivolò indietro. Cinlia sentì la punta di quel sesso maschile sfregato tra le grandi labbra, la punta del glande sfregata sul clitoride. Lentamente la penetrò per poi fermarsi, sfilarsi, tornare a sfregarsi tra le labbra e il clitoride, per poi rientrare, andando sempre più in profondità. Più volte questa operazione venne ripetuta, fino a quando l’imene, raggiunto, si ruppe, versando il virgineo sacrificio al dio. Il dolore per la rottura dell’imene non fu traumatico come la ragazza se lo era aspettato, anzi, fu subito sostituito dalle ondate di piacere che stava provando. Ormai rotti gli indugi, Pitonio entrava in lei sempre più in profondità fino a quando il suo scroto non toccò le grandi labbra. Cinlia non ci poteva credere. Aveva accolto dentro di lei quel pene enorme, eppure non aveva provato alcun dolore, anzi, soltanto un piacere immenso. Le sue labbra ora si schiudevano in gemiti di piacere, mentre le sue mani toccavano il corpo maschio, sentendo la pelle morbida, i muscoli duri  e guizzanti. Accarezzandogli le braccia, le spalle, appoggiò le mani sul suo viso attirandolo per un bacio. Le labbra si intrecciarono ancora, ma questa volta la lingua biforcuta si introdusse tra le labbra vermiglie, intrecciandosi con la lingua morbida e arrotondata della donna. Cenlia si abbandonò a  questo gioco amoroso, sentendo il sesso duro di lui che ancora si muoveva, con  ritmo ben cadenzato, dentro di lei, aumentando a tratti la velocità e a volte rallentando, per poi accelerare nuovamente. Finalmente, dopo una penetrazione più profonda delle altre, sentì il pene contrarsi e rilasciare dentro di lei getti continui di seme virile. Il seme di un dio, che ora era dentro di lei, pensò con reverenza. Pitonio rimase dentro di lei, immobile, per diversi minuti, come volendo accertarsi che tutto il suo seme venisse accolto nel suo giovane corpo. Poi si sfilò da lei, uscendo. Cenlia sentiva il suo sesso aperto, come mai aveva pensato potesse accadere. Sentì qualcosa premere sul suo viso e sulle labbra. Vide che Pitonio era ora inginocchiato vicino al suo viso, e premeva il suo sesso, ora più flaccido, contro le guance. Lasciò che quel pene si sfregasse sul suo viso traendone piacere, ma sentiva la punta  che indugiava, spesso, sulle labbra, come volendo entrarvi. Indugiò, ma , dopo che la cosa si ripetè più volte, schiuse le labbra assaporando la punta del pene con la lingua Sapeva di castagne. Con sorpresa si rese conto che quel sesso virile stava acquistando nuovamente vigore e durezza. La punta di quel pene divino continuava a premere sulle labbra. Celia aprì la bocca, e quel sesso ormai nuovamente turgido le entrò dentro, sfregando con forza sulla lingua, arrivando quasi fino alla gola. Non sarebbe mai riuscita a prenderlo totalmente in bocca senza soffocare, ma vedeva che Pitonio non intendeva farlo, indugiando in un movimento dentro  e fuori e posando con forza il glande sulla lingua. Intanto, la mano destra del dio andò sulla vagina ormai svezzata, infilando dentro le dita e muovendosi, penetrandola, stimolandole i punti erogeni. Poi le dita uscirono, il medio percorse lo spacco vaginale scendendo fino all’ano, che accarezzò dolcemente, poi lo introdusse dentro, mentre il pollice faceva lo stesso con la vagina. Stimolata dalla duplice, anomala penetrazione, la giovane leccava il pene enorme che le riempiva la bocca. Pitonio si sfilò, il palo nuovamente duro e turgido. Si stese sul giaciglio, abbracciando la sua sposa e portandola sopra di lui, mentre si scambiavano un bacio ormai lussurioso. Poi, lui le puntò nuovamente il pene sulla vulva, spingendo mentre con la mano la costringeva a stare perpendicolare al suo corpo, seduta contro di lui.  La penetrazione fu lenta, ma profonda. Cinlia sentì tutto quel pezzo di carne nuovamente dentro di lei, ma la sensazione che ne traeva era che scavasse ancora più in profondità. Impalata, sentiva il maschio sotto di lei che muoveva le anche sollecitando le pareti della vagina mentre, con le mani, le sollevava e la faceva ricadere. Colta da una nuova intuizione piegò le gambe in modo puntellarsi con le ginocchia, e con le gambe cominciò ad assecondare il movimento della penetrazione, Scoprì che in questo modo poteva guidare la penetrazione e renderla più profonda mentre le mani, ora libere, del suo uomo stavano torturando i suoi seni, stringendoli , accarezzandoli, pizzicando dolcemente i capezzoli che ormai erano duri come sassolini. Poi la mano destra scese, saggiando le natiche. Pitonio si mise seduto, divorando quei capezzoli durissimi mentre inseriva, come prima, ma più in profondità, un dito nel forellino posto tra le natiche,  muovendolo delicatamente. Il pene, invece si muoveva con un ritmo sempre più incalzante, la ragazza, come in preda ad istinto animale, si muoveva a ritmi sempre più veloci, alzandosi lentamente e poi scendendo quasi d’un colpo. Al culmine del piacere, gemeva, urlava frasi sconnesse, buttando ora indietro la testa, ora in avanti facendo cadere la cascata di capelli setosi sul petto muscoloso sotto di lei, ora indietro come un velo nuziale. Un secondo dito si fece largo nel forellino segreto. All’ennesima introduzione del pene nel corpo della ragazza, la mano ancora libera del maschio la trattenne lungo i fianchi mentre, da sotto, spingeva con il bacino. Cinlia mosse i fianchi lateralmente, facendo sfregare istintivamente l’asta di carne sul clitoride turgido e regalandosi un nuovo orgasmo, mentre sentiva il suo piacere esplodere dentro di lei, un getto di liquido seminale che la riempiva. Tremante si accasciò sul petto muscoloso. Languidamente, rifletteva che tutto quel seme che le era stato versato dentro, per ben due volte, l’aveva senz’altro ingravidata, e lasciò che il membro si sfilasse da lei. E da sotto di lei. Celia pesava che si fosse saziato, ma poi notò una cosa: le due dita erano ancora piantate nel suo sfintere, muovendosi piano, delicatamente. Si era appena resa conto di ciò, quando un terzo dito si unì agli altri due. Muovendosi, le dita le massaggiavano delicatamente quel recesso proibito. Ricordò di quando le ragazze parlavano degli atleti nudi che avevano visto gareggiare nella colonia greca, che alcuni di loro praticassero una forma di amore rivolta proprio a quell’orifizio, pratica in uso per rapporti tra due uomini, in Grecia, ma che si diceva fosse in voga anche nei paesi persiani, in cui si pensava che desse un senso di piena appartenenza sulla donna. Possibile che un dio ancestrale della marsica volesse praticarle quel tipo di rapporto? Ne dubitava, ma sentiva, mentre le dita la massaggiavano lì, crescere una nuova ondata di piacere, più animale delle precedenti. Si rilassò. Pitonio sfilò le dita dallo sfintere, la prese sui fianchi, mettendola a gattoni davanti a lui, e posando la punta del pene, tornato duro, sul buchino rotondo. Cenlia lo sentì spingere, facendosi largo sulla sua tenera carne. Si sorprese nel sentire il suo buchino cedere a quell’introduzione anomala. Non sentiva dolore, che le era stato detto inevitabile, ma invece un forte piacere sin da subito. Lui si era fermato, saggiando quanto quel buchino potesse contenere, lasciando che si abituasse a quella presenza aliena, muovendosi lievemente, dolcemente. Poi spinse un po’ di più, bloccandosi all’improvviso, entrando sempre più in profondità. Ripetè questa operazione diverse volte,entrando sempre di più, ma fermandosi appena una buona spanna di carne era ormai dentro quell’ingresso proibito; una volta che l’ano si abituò a ospitare quel corpo estraneo, incominciò a pompare, cercando di non andare più a fondo. Cinlia era sorpresa, non pensava che avrebbe potuto raggiungere il piacere anche in quel modo, ma dovette ricredersi : solo il sentire il membro muoversi nel suo buchino anale le stava dando piacere, un piacere che aumentava man mano, esponenzialmente. Inoltre, sentiva le dita forti del suo maschio che andavano ad accarezzarle la fessurina, torturando il clitoride, mentre l’altra mano le stringeva i seni. Girò la testa verso di lui offrendogli le labbra mugolanti dal piacere. Pitonio le baciò le spalle, attirandola a sé con la mano che era ancora stringeva i seni, e si impadronì delle sue labbra con bacio infuocato. Di nuovo l’orgasmo esplose e fiotti di seme virile riempirono la ragazza, stavolta nell’intestino. Stavolti, gli amati caddero sdraiati nel giaciglio. Cinlia, esausta, chiuse gli occhi e si addormentò.

Ore dopo, Cinlia si svegliò spinta da un bisogo naturale. Sentiva un liquido viscoso colarle dal buchetto, ma era un’altra, l’urgenza fisiologica che l’aveva scossa dal sonno. Si alzò dal sacro giaciglio, andando vicino all’ingresso dell’Alcova, dove aveva notato una crepa sul pavimento. Urinò copiosamente,chiedendosi se, oltre all’urina, stesse espellendo il seme del suo divino amante. Guardò oltre la soglia. Lontano, vicino al braciere, vedeva la sagoma curva del sacerdote, ferma accanto al fuoco che ancora scoppiettava. Si domandava, arrossendo, se avesse sentito il suo amplesso, i suoi gemiti e i suoi gridolini di piacere che, di certo, erano rimbombati lungo la volta delle grotte. Fece per uscire dall’alcova, quando una mano le afferrò il braccio, girandola. Lui era vicino a lei, in piedi. La afferrò per la vita, attirandola a sé, baciando nuovamente le sue labbra, sollevandola e penetrandola nuovamente. Stettero lì, lui, in piedi eretto e forte, lei sollevata sulle sue braccia, dondolava facendo scorrere dentro di lei il suo sesso, poi lui la strinse,e baciandola ancora la riportò nel giaciglio in cui i loro corpi si avvinghiarono, in cerca del piacere, in cerca dell’amore…

Cinlia si risvegliò. Da lontano la luce del sole filtrava, indicando che ormai si era fatto giorno. Posò la mano sul giaciglio, al suo fianco. Vuoto. Aveva sognato? Si mise a sedere. No, non aveva sognato. La sensazione di indolenzimento che sentiva agli orifizi e ai reni le rivelò che la notte di passione che aveva appena trascorso era una realtà. Si sentiva…felice. Appagata. Rimpiangeva solo l’eventualità che non aver più potuto vivere una notte così. Si sedette. Il sangue imeneo si era rappreso all’intero delle sue cosce. Si alzò, recandosi nella grotta con la pozza d’acqua calda. Avrebbe desiderato lavarsi ma, sapendo che la pozza era, in qualche modo, sacra, non osò. Prese i suoi vestiti e  se li mise, acconciandosi i capelli e fissandoli con il suo piccolo pettine. Si recò nella grotta del braciere, dove non vide il sacerdote. Si chiese se l’avesse abbandonata, quando questi varcò la cascata. Le sorrise sereno, ma lei vide che il viso aveva aspetto sbattuto, lo sguardo vitreo.

“Il dio quindi ti ha preso in sposa!” disse con un sorriso.

Cinlia arrossì.

“Bene, è tempo di tornare a casa…”

A casa. Ma per Cinlia, quest parola sembrava avere un altro significato. Era casa sua il luogo in cui era cresciuta, o quell’anfratto in cui un essere l’aveva posseduta, amata, appagata, il luogo in cui, finalmente, era divenuta donna?

Il sacerdote le accarezzò il viso, accorgendosi del suo turbamento.

“Non preoccuparti, piccola.- disse- Qui o altrove, sei la sua sposa. Se, come credo, ti ha amata, tornerà da te, e nulla potrà fermarlo…” Cinlia ricambio il sorriso rincuorante del vecchio, desiderando che ciò accadesse.

Uscirono dalla cascata, il sole alto. Si incamminarono, seguendo il percorso inverso a quello del giorno prima. Risalirono la vallata, ritrovando l’asino che avevano lasciato il giorno prima. Grata di poter salire sul quadrupede, la ragazza lasciò che il viaggio scorresse, guardandosi attorno e impiantando nella mente ricordi di quei luoghi.

Il giorno dopo, arrivarono a Verdebosco. Il villaggio era come trasformato. Il morbo, che aveva portato sofferenza  morte, era svanito. Le coltivazioni, prima rovinate, erano ora lussureggianti,le bestie portate al pascolo, sane e forti.

Cinlia venne accolta dagli abitati di Verdebosco festosamente, ovunque si girasse, li vedeva sorriderle. Bimbi le portarono ghirlande di fiori, mentre le donne, piangendo grate, la baciavano ora la veste, ora le mani .Arrivati alla Casa Grande però, vide un viso tutt’altro che felice. Il viso di suo padre.

Davanti al genitore corrucciato, Cinlia raccontò il suo viaggio.Già il sacerdote aveva spiegato il luogo e le caratteristiche dell’Alcova di Pitonio, pur celandone la posizione precisa. La giovane donna, invece descrisse il suo incontro amoroso con il dio, tacendo quei dettagli intimi che la mettevano in imbarazzo. Uno degli speziali, quello che aveva contratto il morbo ed era ora guarito, le sollevò la veste, mostrando ai presenti le  gambe ancora sporche di sangue rappreso, ma lasciando nascoste le intimità della giovane, che continuò descrivendo la mattina successiva e il viaggio di ritorno.

“E tu, vecchio, puoi testimoniare quanto avvenuto?”

“Testimoniare io? Dovresti sapere, Quintio Nunzio Clelio, quanto sia proibito spiare un dio nel suo intimo. Solo a una sposa prescelta può essere concesso di condividere un’esperienza simile- continuò guardando Cinlia- e sopravvivere! Io sono rimasto a governare la fiamma, dopo aver masticato questa,-estrasse dal mantello un sacchettino- i tuoi speziali potranno confermarti quello che dico! È una sostanza che annebbia i sensi, lasciando svegli ma incapaci di percepire cosa accade attorno, e abili solo ad eseguire compiti semplici, come governare un fuoco!”

Uno degli speziali si avvicinò, prese il sacchetto e lo annusò.

“È vero, signore-disse-questa è una sostanza ipnotica potente!”

Quintio, gelido camminò attorno alla figlia e il sacerdote. Improvvisamente, come una furia, si avventò su quest’ultimo, atterrandolo. “Vecchio-urlò-Mostra la tua lingua biforcuta!”

L’uomo lo squadrò irato, apri la bocca e mostrò una lingua perfettamente arrotondata, normale.

Quintio gli si allontanò ma poi, con un gesto folle, gli fu ancora addosso abbassandogli le brache. Mise in mostra il sesso del sacerdote, di dimensioni decisamente normali. Quintio si allontanò, pallido, vitreo. Aveva oltraggiato inutilmente il sacerdote.

“Reverendo sacerdote, io ti chiedo perdono-balbettò- Credevo…Pensavo…”

“Credevi che io avessi abusato di tua figlia- esplose l’uomo, il fuoco negli occhi e l’indignazione nella voce- Che avessi preso il fiore della sua virtù e della castità! Forse perché, anni addietro, la tua famiglia cacciò il mio ordine da questi luoghi e dal tempio? Posso anche capirlo, ma non scusarlo! Esigo riparazione!”

Quintio abbassò la testa, rassegnato. “Riparerò- disse con voce atona- con la mia vita, se necessario!”

“La tua vita? E cosa dovrei farmene? No! Per riparare, dovrai liberare, immediatamente, un’ala di questa casa. Dovrà essere possibile accedervi dall’esterno e diventerà la dimora del mio ordine! È tempo per noi sacerdoti di Pitonio di tornare in queste che furono le nostre terre, diventare parte di questo villaggio, amministrarne i riti, non solo le celebrazioni annuali. Faremo parte del concilio del villaggio, e avremo diritto di veto, anche sulle tue decisioni, Quintio, o su quelle dei tuoi discendenti!”

“Accetto, reverendo sacerdote!” si arrese il nobile scoppiando in un pianto isterico. Cinlia gli si avvicinò abbracciandolo e confortandolo “Padre…Padre, ti prego calmati. Io-continuò con voce sommessa – io credo di essere stata ingravidata dal dio, padre. Di aspettare un figlio da lui. Padre, se nascerà un maschio sarà il tuo erede, l’erede della famiglia Clelia e figlio del dio Pitonio. E sono certa che la benedizione di Pitonio, che ha guarito la vallata, scenderà anche sulla nostra famiglia, rendendoci più prosperi che mai!” L’uomo, in lacrime, abbraccio delicatamente la figlia.

Era calata la sera. Il sacerdote prendeva possesso dell’ala della Casa Grande che era stata precipitosamente liberata. L’ala era ampia, accogliente, ma il sacerdote aveva disposto che le camere subissero dei lavori, affinché da ogni stanza se ne ricavassero di più, al fine di ospitare l’ordine dei sacerdoti. Il sole stava ormai scedendo. Scelse una delle camere, e vi entrò pronto per passare la notte. Un braciere ardeva, caldo. Posò il bastone andando a riscaldare le mani sul braciere. Lo sguardo era soddisfatto. Rimase lì, seduto  in meditazione, vicino al fuoco. Calò la notte, le cicale incominciavano a catare l’arrivo dell’estate. I sensi acutissimi del sacerdote gli rivelavano che ormai, nella casa, regnava il silenzio e il sonno. Si alzò. Lentamente si tolse i vestiti. Nudo, raddrizzò il corpo curvo, i muscoli si tesero mentre il corpo cambiava postura, gonfiandosi; lo scroto e il pene si ingrandirono, come se parte di loro fosse stata trattenuta dentro il corpo, dai muscoli stessi. Ora dritto, alto e potente, si tolse la maschera che lo faceva sembrare vecchio, rivelando un viso giovane, ma con occhi senza tempo. Si umentò le labbra con la lingua biforcuta, in cui ancora sentiva il sapore di Cinlia. Quella notte, lo sapeva, il dio Pitonio avrebbe visitato la sua sposa!

Leave a Reply