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Il giorno dopo andai a lavorare, con uno stato di eccitazione sempre più forte e la voglia di sentire mani e bocche ed attributi di altri su di me.
Non riuscii ad incrociare nessun autista sul piazzale e mi fecero sapere che da quel giorno Gregorio e Stefano sarebbero stati impegnati nella nuova sede che la ditta stava allestendo, in un’altra zona della città.

Con il sesso in ebollizione, mi affacciai con un pretesto alla stanza di Stefania, che mi cacciò via a male parole, dicendo che non aveva tempo da perdere con una merdina come me.

In pausa pranzo, andai alla trattoria convenzionata, ma anche lì tutti era concentrati con gli affari propri e, francamente, mi mancò il coraggio di essere più sfacciata.

Alla fine della giornata, tornai a casa con trepidazione: sapevo che avrei trovato Marco, mio marito, rientrato dal suo viaggio di lavoro e sarebbe stata la cosa più naturale al mondo, dopo la cenetta succulenta che avevo in mente di preparargli, di andarcene a letto a farci coccole e… e altro.

Ma non potevo, per il giuramento fatto al mio padrone, suo padre, mio suocero…

Così lo accolsi affettuosamente, con lunghi, appassionati baci (ma solo in bocca!), scostando le sue mani, se diventavano troppo ardite, con un «… no, dai… non mi sento tanto bene…» e lui che se ne stette, potendo aspettare che mi ristabilissi perfettamente, perché tanto «… penso che non farò altre trasferte per almeno una ventina di giorni, amore mio!» (Come sarebbe, “almeno venti giorni”??? non potevo resistere, così tanto!)
Comunque passò quella serata ed il giorno e la serata successiva, anche se negarmi a Marco era sempre più difficile, visto che durante il giorno ero eccitata in modo quasi furibondo, ma non riuscivo assolutamente a trovare qualcuno che mi aiutasse a spegnere l’incendio che avevo tra le cosce.

Rientrando la sera successiva, trovai mio marito indaffarato a preparare la valigia.

«Cosa fai, amore mio?»

«Ah, eccoti arrivata!» Mi sorrise, mi abbracciò e mi baciò appassionatamente «E niente… c’è stato un problema in un giacimento in Uzbekistan e vogliono che vada io, il più presto possibile! Tra… -guardò l’ora- … venti minuti passa a prendermi un collega, col quale andrò fin là…

Scusami amore, ma sai quanto è importante il mio lavoro…» (Ma allora il dottor Paolo aveva ragione, che Marco sarebbe ripartito dopo pochissimi giorni!)

«Oh, tesoro, mi dispiace tanto, che tu debba andare via… Starai via pochi giorni, almeno?»
«Eheh, non so… penso di sì, comunque: vedrai che in tre o quattro giorni sarò di ritorno, amore mio!»

Però poi dovette sbrigarsi e stava ancora chiudendo la valigia, dopo l’ultimo controllo di aver preso tutto, quando gli suonò il cellulare e lui rispose con un laconico «Ok, scendo!»; un velocissimo bacio e poi via.

Come lo vidi salire in auto dalla finestra, mi ricordai i “compiti”: mi denudai, aprii al massimo le tende e le tapparelle e poi presi le tre compresse giornaliere…

Che sia per colpa di quelle, che avevo sempre la patatina in ebollizione?

Passando davanti allo specchio dell’ingresso, notai che avevo i capezzoli turgidi e… e mi fermai a guardarmi: strano! Mi sembrava che mi si fosse ingrandito il seno…
Perplessa, non avendo più reggiseni, feci una prova con una maglietta che ricordavo come mi vestisse e… e sì, davvero! In effetti la maglietta mi tirava molto, sul seno: coi capezzoli eretti, essendo molto “fina” (come cantava Baglioni) si “immaginava tutto”.

Venni assalita da un’onda di eccitazione e decisi che l’avrei indossata l’indomani, per coprire questo mio seno che era evidentemente cresciuto e… la mano, distrattamente, sfiorò la topina e mi sorpresi perché anche lei sembrava più voluminosa, più gonfia.

Mi arrivò un messaggio, era il mio padrone: “ciao troia! Hai visto che la mezzasega è partita? Vedrai che per un po’ non tornerà. Io oggi ho da fare, ci vediamo domani. Vorrei che mi raccontassi se e come ti hanno montata”

L’indomani entrai nel piazzale della ditta e sorrisi tra me: c’erano diversi autisti che ciondolavano, parlottando tra loro ed avrei potuto esibire la mia maglietta attillata che conteneva un seno che -mi ero resa conto- era diventato piacevolmente “importante”.

Contavo, anziché di attraversare il piazzale in linea retta, fare una sorta di curva per passargli vicina e sentire i loro sguaiati ma eccitanti commenti.

Però, come scesi dalla macchina, vidi sulla porta della palazzina Stefania, che mi guardava fissa, coi pugni sui fianchi, aspettandomi con chiara evidenza.
«Eccoti qui, cretina!» Ero davanti a lei, ai piedi dei due gradini che portavano alla soglia dove mi aspettava e vidi che, dopo aver guardato il mio viso, mise a fuoco qualcosa dietro di me e fece un sorrisetto cattivo.

«Dimmi, cretinetta: hai le mutande, sotto la gonna?»

«Ehm… no… non le ho… signora!» Mi ricordai all’ultimo, di chiamarla Signora, come pretendeva.

Uno scintillìo maligno nello sguardo:«Allora tirala su, fino alla vita: voglio guardarti e, già che ci siamo, anche mostrare a quei padroncini che non porti mutande!»

Pensai al plug che avevo infisso dietro: «Ma… adesso?»
«Cosa sono queste storie adesso, cagnetta? Non hai niente, sotto la gonna, vero?»

Nonostante le vampate di eccitazione, mi imbarazzava affrontare questi discorsi lì, piantata in fondo ai due scalini degli uffici: «Beh… devo portare un plug… dietro… e ce l’ho anche adesso…»

Si mise a ridere, forte: «Allora, facciamo così: ti tiri su quello straccio di gonna, ti fai guardare da me bene davanti e poi ti giri -ma lentamente!- e mi mostri anche il plug che hai nel culo… Poi, vieni dentro e mi spieghi»

E così feci, con entusiastico interessamento del gruppo di padroncini.

«E adesso spiega: perchè sei a culo nudo e tappato?» Eravamo nel suo ufficio: lei comodamente seduta nella sua poltroncina, dondolandosi lentamente con un piede a terra, mentre io ero inginocchiata davanti a lei, senza gonna e col sedere appoggiato ai talloni.

«E’ una… disposizione del mio… ehm… padrone… signora!»

Fece una smorfia divertita: «Non sarà mica quell’essere ridicolo di tuo marito, eh?»

«No signora: è… è suo padre, mio suocero…»
Sgranò gli occhi, poi rifletté qualche istante e… «Ma il tuo maritino, cosa ne pensa?» chiese, ridacchiando.

«Non ne sa nulla, signora. Invece il dottor Paolo, mio suocero, sa di lei e mi ha detto di dirle che lui ha appena cominciato a sottomettermi e che è contento di come lei mi tratta -Stefania fece un sorrisetto- e che non le pone alcun limite… signora!»

Restò a riflettere per un pochino, accarezzandosi distrattamente le labbra con l’indice, mentre io, con i dorsi delle mani appoggiati sulle cosce (“in posizione”, come mi aveva detto di stare), attendevo, accosciata e nuda dalla vita in giù.
«Vediamo di capire… -disse-… prima di tutto levati il plug, voglio vedere quanto è grande» ed io afferrai la base e, spingendo e tirando, feci uscire l’oggetto metallico.

La signora me lo fece tenere in mano, girandolo per farglielo osservare a suo agio e alla fine, dopo aver commentato a bassa voce, forse tra sé, che la dimensione non era poi granché, mi disse di metterlo in bocca per insalivarlo bene e poi reintodurmelo.

Nonostante un sentore amarognolo, lo insalivai per bene e lo ricollocai dove lo avevo tolto.
«So che il tuo padrone ha detto che non mi vuole porre limiti, ma vorrei informarlo che ho intenzione di farti epilare completamente e di farti fare… uhm, delle modifiche, diremo così»
Rifletté ancora qualche istante, poi cominciò a scrivere su un foglio preso dalla stampante.
«Come hai detto che si chiama. Il tuo padrone?»

«E’ il dottor Paolo, signora. Un veterinario, per la precisione»

Lei rise: «Quello che ci vuole per le cagne e le vacche!»

La vidi concentrarsi, battendosi la penna sulle labbra e poi scrivere qualcosa. Alla fine rilesse, contemplò lo scritto, lo mise dentro una busta che sigillò e me la porse.

Per il Dottor Paolo – SPM” era scritto sulla busta: «Dagliela alla prima occasione» mi ingiunse, prima di mandarmi via.

Tornai alla mia scrivania e lo stato di eccitazione permanente nel quale vivevo mi rendeva difficile concentrarmi sul lavoro, ma strinsi i denti cercai di risolvere la complicata pratica che avevo sulla scrivania e… e quando finii di picchiarmici, guardai l’ora per vedere se era già tempo che facessi pausa pranzo e… accidenti! Erano già le tre emmezzo!

Mi strinsi nelle spalle: in fondo saltare un pasto non poteva certo nuocermi, pensai e decisi che la piccola tavoletta di cioccolato, che avevo trovata in borsa, sarebbe stata sufficiente per arrivare all’ora di cena…

Avevo finito da un po’ di sgranocchiarmi la cioccolata, quando Stefania mi chiamò da lei.

«Nella nuova sede, hanno bisogno di questi fascicoli: glie li porti e poi, visto che ormai è quasi ora, te ne vai direttamente a casa»

Oddio! Non ero ancora stata alla nuova sede e le chiesi -per favore- di spiegarmi il percorso.

Lei, ovviamente, mi insultò, ma poi mi spiegò il percorso, abbastanza semplice.
La ringraziai e lei, con una luce maligna negli occhi, mi disse che per ringraziarla adeguatamente avrei dovuto inginocchiarmi e poi leccarle i piedi «… e spero che non ti dispiaccia, tesooooro, se avendo messo sneakers stamattina, saranno forse un po sudati…»
Me ne faceva entrare uno in bocca, mentre mi appoggiava il tallone dell’altro sulla fronte ed io, devotamente, li leccai e succhiai accuratamente.

Quando decise che era soddisfatta, mi spedì a male parole, coi miei incartamenti «… che mica possono restare lì fino a mezzanotte, ad aspettare i tuoi comodi, cretina!»

Perciò mi misi al volante della mia auto e, cercando di ricordare il percorso, mi avventurai.

Per giunta, quella sera, il traffico era ancora più lento del solito e, ad un incrocio davanti a me, c’erano agenti della municipale che deviavano il traffico nelle laterali, impedendo di proseguire dritti come avrei fatto normalmente.

Seguendo la pulsione della giornata, feci risalire di un paio di centimetri l’orlo della gonna e poi mi fermai accanto all’agente, di spalle.

«Scusi, ageeente…» Si voltò e mi sentii sprofondare: invece dell’aitante vigile a cui sognavo di regalare una vista suggestiva, si era voltata una virago con due spalle da scaricatore di porto.
Mi guardò con aria feroce ed io dissi la strada dov’ero diretta e che con quella deviazione non sarei riuscita a…
Lei mi sciorinò una raffica di “Prima a destra, seconda a sinistra, alla rotatoria vada dritta e poi a sinistra e la terza a destra…” e mi fece segno di levarmi dai piedi.
Ovviamente non ricordavo tutte le svolte elencate e fu così che mi trovai in una parte di città poco frequentata, con capannoni, magazzini ed edifici abbastanza fatiscenti.
Come una palazzina di tre piani che, settantanni fa, doveva essere abbastanza gradevole, ma che ora, dopo decenni di incuria e circondata da capannoni abbandonati, aveva l’aria sciatta e sgangherata.

Ai lati del portone c’erano due negozi: uno con la saracinesca abbassata e coperta di graffiti e l’altro che annunciava “Commestibili” nell’insegna, anche se l’aspetto non invogliava alle visite e, men che meno, agli acquisti.

Su una panchina, che si intravvedeva tra le erbacce, erano seduti due uomini in canottiera, che fumavano e stavano chiacchierando e scherzando col conducente di un furgone che, a causa di una vecchia station wagon parcheggiata di sbieco e con una ruota sul marciapiedi, in pratica bloccava il transito.

Dopo essermi fermata, visto che nessuno dei tre sembrava essersi accorto del mio arrivo, mi affacciai dal finestrino: «Scusiii… Scusi, per favore… io… dovrei passare…»
Uno degli uomini si alzò lentamente dalla panchina e venne verso di me: non rasato, canottiera e jeans macchiati, capelli lunghi, neri, unti, labbra tumide con piantata in un angolo una sigaretta.

Appoggiò la mano sul tettuccio e poi si piegò a guardarmi, con fare strafottente ed un alito atroce.

«Bela signora, tu deve passare?» Ebbi un fremito, sentivo il suo sguardo come se mi stesse scansionando, radiografando; mi sentii nuda e mi venne un groppo alla gola dall’eccitazione: ero certa che avesse ben studiato i miei capezzoli eretti che si vedevano facilmente sotto la maglietta ed avesse sbirciato le mie cosce… Fu più forte di me: le scostai un pochino, facendo risalire la gonna di un paio di centimetri.

Avevo voglia di vedere cosa sarebbe successo -l’eccitazione mi stava facendo impazzire!- ma dovevo andare a consegnare l’incartamento…
«Bela signora, non vuoi restare qui a fare amicizia con noi?»
Dio solo sa quanta voglia ne avessi, ma dovevo andare! Un’occhiata all’orologio del cruscotto mi informò che cominciava ad essere tardi…

Ebbi un’intuizione: «Senta, io devo fare una commissione urgentissima qui vicino, ma mi sembrate simpatici e vorrei fare amicizia con voi: le lascio questo braccialetto come pegno, ma le prometto che entro mezz’ora tornerò a prenderlo e potrò fermarmi… Cosa ne dice?»

Lui osservò il braccialetto: era un braccialetto d’argento, col marchio: di un valore tale da renderlo credibile come pegno del mio ritorno, ma senza che -se fossi tornata e non avessi più rivisto né lui né il braccialetto- mi provocasse una perdita significativa.
Lo soppesò e poi, con una lingua gutturale, disse qualcosa al conducente del furgone, che mise in moto si spostò in avanti e poi, a me: «Va bene, bela signora: tu torni mezzora e noi fare tanta amicizia, fai in fretta!»

Lo ringrazia con un sorriso e ingranai la marcia.

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