Skip to main content

Christine Buenariva espira, esalando piano. Inspira dalle narici, respirando l’odore della sua terra. O quantomeno, della terra in cui è nata. Non si era mai sentita straniera là, ma neppure benvenuta, almeno non più, non dopo gli eventi che calarono a separarla dal mondo dei normali, relegandola in un diverso universo mentale.
Ma il caldo, il vento, l’odore del mare e la sensazione di qualcosa di magico, non l’aveva mai abbandonata quando il suo pensiero, negli anni a seguire era volato là, alla terra sua madre.
Espira di nuovo. Inspira. Un ciclo. Una presa di coscienza, una comunione tra lei e quell’isola. Hispaniola, Haiti. Terra di sangue e lacrime, e di primeva bellezza.
La nera si concede un sorriso. È tornata, è a casa. Nel suo regno. Piccolo che sia, è suo.
Tanto le basta. Espira di nuovo. E il sorriso svanisce. Sa che non è tornata per restare.
Ma sa anche che ha un compito. Un dovere. Una missione.
Non ha bagagli con sé, tranne non uno zainetto con dentro un cambio d’abiti.
Non ha armi con sé, ma quello non è mai stato un problema. Ciò che ha con sé è la conoscenza. E tanto basta.

Esce dall’Aeroporto Internazionale Toussaint Louverture. Mentre sale su un bus, ripensa al motivo per cui è giunta ad Haiti.

 

-Puoi farlo solo tu.-, spiegò Marco Poretti dopo che gli altri furono usciti. Click. Sulla parete adibita a schermo di proiezione si materializzò un viso. Foto segnaletiche.
Il viso di un meticcio, smorfia spiacevole, occhi stranamente azzurri sul viso color cacao e capelli neri fece capolino sullo schermo.
-Boniface Laffort.-, disse Marco. Christine ascoltava, immobile. Non fosse stato per il petto che si muoveva appena si sarebbe potuta comodamente dire una statua d’ebano.
-A capo di una notevole organizzazione della malavita locale. Taglieggia, uccide, stupra, fa sparire gente. E ora… si prepara a ben altro.-, disse l’informatico. Indugiò un solo istante sul corpo della nera, ma aveva già assodato essere territorio proibito. Si domandò se qualcuno mai l’avesse potuto esplorare, quel territorio… Cacciò quei pensieri.
-Ora si prepara a divenire presidente.-, disse. Altro click. Altri grafici. Proiezioni.
-Haiti è malmessa dopo le epidemie del 2010. I terremoti non hanno aiutato. L’OMS sta ancora cercando di arginare i danni. Ricostruzione lenta e agonica per l’intera popolazione. E il Covid sta arrivando anche da queste parti… Anche se non se ne parla.-.
Altro click. Altra foto. Boniface Laffort portato in trionfo. Applaudito. Elogiato. Blandito…
-Boniface Laffort ha contatti in Europa e Centroamerica. È un industriale, ma solo di facciata, l’uomo nuovo di Haiti. Questo unito alle sue connessioni malavitose rendono la possibilità di una sua elezione come prossimo capo di stato molto, molto concreta.-, spiegò Marco, -Peccato che, come io e Shaibat abbiamo scoperto…-, altro click. Altre foto. Droga, incontri, Boniface Laffort rappresentato insieme a un paio di trafficanti noti, -… Il nostro esimio futuro possibile presidente non è uno stinco di santo, per nulla. È ammanicato con diversi boss del crimine dell’America Centrale e Latina.-. Altro click. Altra foto. Non segnaletica.
-Uno di questi è Henry Samson Lincoln.-, Altro viso. Un nero, viso grosso, decisamente poco armonico. Christine non commentò. Marco riprese a spiegare.
-È il ras dello spaccio di sostanze in tutta la Florida. Una rete di contatti in tutto il fottuto territorio U.S.A e anche fuori. E soprattutto, prima che tu e il Giustiziere lo abbatteste, era in contatto con il Consiglio dei Sedici con cui faceva diversi affari. La caduta del Consiglio gli ha permesso di espandere i suoi affari in modo prepotente.-, altro click, altre foto.
Una sparatoria in un’università del Texas, tra le vittime c’é il figlio di un noto boss. Click!
Una rapina a mano armata in un ristorante divenuta una sparatoria nell’Illinois. Tre vittime.
Un concorrente e due bodyguard falciati. E altre stragi, in tutto il territorio U.S.
-E ora… se Boniface Laffort divenisse presidente ad Haiti… Avrebbe la possibilità di espandere notevolmente i suoi orizzonti.-, disse Marco. Si concesse di fissare Christine.

-Mettere fuori causa Boniface è solo una parte dell’incarico. L’altra è attirare Henry Samson Lincoln ed eliminarlo.-, disse, -Ed è un incarico che puoi compiere solo tu. Hai le connessioni per farlo. Più tardi vedrò di inviarti qualcuno come rinforzo.-. Christine a quel punto si concesse di annuire. Il primo movimento durante quel briefing.
-Ti ho prenotato i biglietti. Il volo è tra breve.-, Marco si decise a osare. Osare davvero.
Prese i biglietti stampati poco prima e li porse alla giovane. La nera lo fissò. E lui non retrocesse. Per una volta, osò guardarla. Tenere duro. Penetrare quegli occhi col suo sguardo.
Christine Buenariva non esitò, non parlò, lo fissò e basta. Occhi negli occhi. In un modo indescrivibile, Marco capì che stava venendo valutato, studiato.
il loro duello di sguardi si protrasse per un altro lunghissimo minuto. Poi la mano della giovane prese i biglietti. Marco si accorse di avere un’erezione granitica.
Se solo avesse parlato! Se solo avesse proferito una mezza parola!
Invece la giovane mostrò l’auricolare con microfono. Sorrise, beffarda?, poi uscì.
Marco sospirò, era palese che quel terreno gli sarebbe rimasto ignoto.

 

Il tragitto fino all’abitazione di Marcel Basile era stato lungo e noioso.
Di tutte le cose che le erano mancate di Haiti, la lentezza dei mezzi era quella che le era mancata meno, o quasi. Christine sospira. Scende dal bus.
La baraccopoli non è cambiata e la casa di Marcel Basile non spicca particolarmente, ma lei sa che lo troverà lì. Taglia la baraccopoli senza badare ai bambini per strada, al clamore o alle occhiate dei passanti. Arriva all’abitazione. Bussa alla porta della casa con due colpi.
-Chi è?-, chiede una voce maschile abbastanza sgarbata all’interno.
-La Regina.-, risponde Christine con tono sicuro. Pochi istanti e la porta si apre.
Il nero che apre la porta potrebbe comodamente essere un patriarca biblico rastafariano: capelli lunghi rasta, barba folta, occhi spiritati. Sorride alla vista della giovane.
-Come posso servirti, mia signora?-, chiede fedelmente.
-Raduna gli altri. Abbiamo un compito da svolgere e una guerra da combattere.-.

Il viso di Marcel si apre in un ghigno che pareva solo la parodia di un sorriso.

Marcel è un duro, lo è sempre stato. Non per niente, Christine l’aveva reclutato tempo prima. Lui la fa entrare. La casa è in disordine, mal messa, ma ancora dignitosa, rispetto a certi posti che la nera aveva frequentato in passato. Si siede al tavolo della cucina senza attendere inviti.
-È successo un casino. Le autorità domenicane hanno rotto le palle. Diciamo che le nostre attività nella Repubblica Dominicana sono finite. E del nostro gruppo rimangono pochi elementi.-, spiega Marcel mentre versa del rhum in un bicchiere. Ne prepara un altro che offre all’ospite. Christine lo prende e beve. Ascolta senza fare commenti.
-Paul Caribet è stato ucciso l’altra sera in una rissa in un bar. Questione di donne.-, spiega Marcel mentre beve. La nera ancora non ha sfiorato il bicchiere con le labbra che lui ha bevuto una buona metà del suo.
-Chloe è tornata negli States. La famiglia l’ha ripresa con sé. Era incinta…-, spiega Marcel.
Ancora nessuna reazione. Christine assorbe, confronta, analizza.
-Etienne invece è in ospedale. Leucemia o altro. Non credo che vedrà la fine di questo mese.-, continua l’uomo. Beve un altro bicchiere. Christine si concede un sorso. Fuoco il bocca e in gola. Annuisce, spronandolo senza parole a continuare la spiegazione.
-Siamo messi male.-, conclude Marcel. La mano vola verso la bottiglia. Christine lo blocca.
-Basta col rhum.-, dice, -Su chi possiamo contare?-, chiede poi. Marcel Basile annuisce, riflette.
-Sono sicuro che Jean ci supporterebbe, e anche Antonio. Quei due non ci hanno abbandonato.-, dice dopo pochi minuti, -Forse anche Julie…-, azzarda, -Sì, lei sicuramente ci starebbe. E Hortense…-. Volge lo sguardo verso Christine.
-Chiamali. Stasera stessa, riunione d’emergenza.-, decreta lei senza emozione alcuna.

 

Facendo l’ennesima tirata di sigaro, Boniface Laffort si rivolse al suo interlocutore.
-Mio carissimo amico. Siamo veramente sicuri che non ci sia possibilità di accordo?-, chiese.
Il tizio latino magro e decisamente fuori posto oltre che a disagio, Hernandez Qualcosa era un giornalista. Uno di quelli convinti, assolutamente e fermamente persuasi di lottare per il bene, di dove portare a galla la verità.
Ed aveva appena rifiutato ventimila dollari. Boniface sorrise guardandolo. Hernandez cercò di deglutire. Fallì. Rivolse lo sguardo ai due bodyguard di Boniface, alla bella donna accanto a lui.
Hernandez Qualcosa era idealista. Assurdamente idealista.
-Signor Laffort, temo non vi sia modo di accordarci.-, disse dopo un altro istante di pura e semplice adorazione della bella femmina che si era seduta accanto all’uomo che gli aveva offerto ventimila dollari. Boniface sorrise.
-Suvvia, tutti hanno un prezzo. Mi dica il suo.-, disse con quel sorriso che a Hernandez ricordava uno squalo prossimo a mordere. La donna si stiracchiò, mostrando che l’abito di Versace non faceva che impreziosire la sua già naturale bellezza. I bodyguard erano immobili.
A parte loro, nel parco della villa di Boniface Laffort non c’era nessun’altro.
-Lei ha trovato materiale che io desidererei evitare venisse divulgato. Sono disposto a pagare e a pagare più che lautamente quelle foto.-, disse il malavitoso, -Posso renderla molto ricco.-.
Ricchezza… Hernandez sospirò. Si concesse di pensarci, di ripensare ai vicoli di Caracas, alla povertà, alla disperazione a cui era sfuggito studiando…
-Mi dica, Hernandez, dove vorrebbe essere ora?-, chiese Boniface.
-Io…-, sussurrò lui, -Non saprei.-
-Fiji? Egitto? Europa? U.S. of fucking A.?-, chiese l’altro tempestandolo d’ipotesi. Silenzio.
-Posso farle fare la vacanza della sua vita, davvero. Io voglio che lei sia mio amico, e comprenderà. Desidero davvero il meglio per lei. Pensa che quelle foto siano chissà quale scoop ma cosa ci guadagnerà? Niente. Lei e io sappiamo la realtà, caro il mio reporter.-, Boniface fece un ultimo tiro e soffiò una nuvola di fumo, -Nessuno ricorderà nulla.-.
Silenzio da parte di Hernandez. Boniface sorrise.
-Mi spiace signor Laffort… io ho un dovere come giornalista. E quelle foto provano…-, fu interrotto dal semplice sguardo d’odio puro da parte del malavitoso haitiano.
-Quelle foto non provano un cazzo. Nessuno le prenderà mai sul serio. Così come nessuno prenderà sul serio lei, Hernandez.-, Boniface non disse altro, assumendo un’espressione pensosa, una mano appoggiata sul tavolo, l’altra sotto la superficie del tavolo. La donna si alzò in piedi, sedendosi accanto a lui, il corpo fasciato dall’abito che doveva costare più di quanto Hernandez guadagnasse in cinque mesi di lavoro.
-Lei crede che io sia un criminale, Hernandez, e io lo capisco. Lo capisco assai bene.-, disse il nero. Il reporter deglutì. Forse comprese, forse capì. E forse, avrebbe implorato.
-Ha ragione.-, sussurrò Boniface. Estrasse la pistola con rapidità assoluta. Hernandez ebbe giusto il tempo di iniziare una supplica che non conobbe fine. Poi i due proiettili lo centrarono facendolo cadere a terra insieme alla sedia su cui sedeva.
-Molto poco lungimirante da parte sua venire qui con le foto, Hernandez. Ancor meno sbandierarmi davanti che le copie delle foto sono in mano a suo fratello Likan, fratello che abbiamo già trovato e… punito.-, Boniface sparò il colpo conclusivo alla testa mentre il giornalista tentava di sollevare una mano, di difendersi invano.
-Ripulite.-, ordinò ai bodyguard. I due annuirono. Boniface rientrò. La donna lo seguì.
-Potresti avere delle noie per questo.-, disse. Lui sospirò. Entrarono nello studio.
-Già, se avesse accettato sarebbe stato tutto molto più semplice… Dannati impiccioni.-, replicò.
Sentì la mano di lei accarezzarlo. Sorrise, sentendola scendere lungo il collo, il petto. Fino alla cintola. La donna sorrise di rimando. I capelli erano corvini e lunghi sino alle reni, l’incarnato color caffelatte, il viso piacevole e le labbra parevano foglie di una pianta carnivora. I seni erano belli grossi senza però sconfinare nella volgarità. E gli occhi, quelli erano particolari. Bicolori. Un nero l’altro verde. Una cosa rarissima.
-Il mondo è pieno di idioti. Ora almeno ce n’è uno in meno.-, sussurrò lei.
-Ti ha eccitato, eh?-, chiese Boniface accarezzandole il viso e scendendo sino a ghermirle un seno, -Ti ha eccitato vederlo crepare, eh?-, chiese di nuovo. Strinse il seno. Il capezzolo sotto le sue dita era già turgido.
-Un sacco…-, sussurrò la donna mentre gli accarezzava il membro da sopra i calzoni.
Boniface sapeva bene cosa sarebbe successo: quella donna era una demone a letto tanto quanto nella vita. Era quello a renderla così maledettamente irresistibile.
Lei gli slacciò i pantaloni e lo prese in bocca. Boniface gemette. Era già duro e sapeva che non sarebbe durato molto. Ma sorrise ugualmente. Lentamente, con calma, dettò il ritmo di quella fellatio, muovendo il capo della donna per infilarle l’intera lunghezza del pene in gola.
Deciso a non godere nella bocca di lei, la fermò. Lei capì.
-Brava, Lucia.-, sussurrò lui vedendola sedersi sul tavolo dopo essersi sollevata il vestito sino alle anche. Era già nuda sotto, una sorta di tacito patto tra loro imponeva che lei fosse sempre pronta a soddisfarlo. Naturalmente la cosa valeva in ambo i sensi.
Boniface si posizionò tra le sue gambe, strofinò l’erezione sul cancello vulvare di lei.
Poi la trapassò con la sua erezione. Lei gemette, lo abbraccio, stringendolo e facendolo affondare nelle sue profondità. Boniface cercò le sue labbra. La baciò. Il bacio divenne di fuoco. Lingue intrecciate, mani frementi, sessi a contatto.
Quando il malavitoso le venne dentro, anche la nera godette. Uscì da lei ancora duro.
-È sempre bellissimo, tesoro.-, sussurrò. Lei lo accarezzò appena.
-Il piacere è tutto mio. Fratello.-, rispose Lucia gettando uno sguardo all’orologio. Erano le 17.20, -Ora, tra un’ora hai quell’incontro con i tuoi sostenitori.-, gli ricordò alzandosi.
-Già. Tu invece…-, iniziò lui. Lei sorrise.
-So cosa devo fare. Non temere.-, disse.

 

La riunione è deludente. Christine se ne accorge bene. I suoi fedeli sono pochi, maledettamente meno di quanti lei avesse creduto. Ma se lo aspettava.
Quello che la colpisce è il modo in cui gli altri la guardano, c’è sconforto.
Ma c’è anche un’altra emozione. Una certa apprensione. Loro avevano fallito, l’avevano delusa.
Loro lo sapevano, e ora si aspettano che lei parli. Forse aspettano anche una punizione, una reprimenda, un giudizio da quella che è la regina, al comando di tutti loro.
Christine non parla, per lunghi minuti attende in silenzio, lasciando scivolare lo sguardo su ogni singolo viso, leggendoli come libri. Sul suo di viso non si palesa emozione alcuna.

Solo gli occhi sembrano baratri oscuri, buchi neri capaci di catturare finanche la luce.
Mentre resta in silenzio, nota che i presenti sono nervosi. Sono in cinque.
Jean, Antonio, Julié, Hortense e Marcel Basile. Quello era tutto ciò che restava della banda che Christine aveva radunato, o meglio che si era radunata attorno a lei quando era tornata nella Repubblica Dominicana. Un quarto della loro passata forza.
Quello che Christine sente ora però è paura. Non per loro stessi o le loro vite.
È paura per lei, per ciò che lei non sta dicendo. Attendono una sua parola. Un suo cenno.
Hanno bisogno di una guida e lei lo sa bene. Hanno bisogno di uno scopo. Sono come lei.
Figli e figlie non voluti, reietti ripudiati dalla società, disillusi dalla ferocia della vita. Indomiti.
Nonostante tutto non si erano piegati, non erano stati abbattuti, non avevano ceduto.
Ecco perché sono lì, con lei, in questo momento, in questa casa, ad attendere una sua parola.
Lei lo sa. Lo capisce. Hanno fatto un percorso simile al suo, forse più di quanto creda.
Li conosce tutti. Per questo sa che deve parlare. Guidarli, dare uno scopo a quella loro esistenza, esorcizzare la solitudine con l’azione e la consapevolezza che lei è con loro.
Allora, finalmente, Christine comincia a parlare, a spiegare. A illustrare ciò che dovranno fare.

 

Solo due ore dopo la spiegazione finisce. Christine ha detto loro tutto quanto, sottolineando l’importanza e la pericolosità del loro incarico. Li osserva tutti quanti.
Ha chiesto loro, prima d’iniziare a spiegare e anche dopo averlo fatto, se qualcuno di loro avesse voluto tirarsi indietro. Nessuno di loro ha fatto cenno di volersene andare.
Dentro di sé, Christine è lieta di quella lealtà. Sa di avere ancora al suo fianco alleati eccezionali, l’antitesi alla passiva accettazione di ciò che è sbagliato e tuttavia regna.
Si concede un sorriso, rarissimo e assolutamente prezioso.
-Andiamo a caccia.-, decreta.
-Chi?-, chiede Julie. Christine la fissa. Mulatta, capelli castani color marrone scuro e un fisico longilineo, Julie ha saputo tenersi lontana dai guai. Pare persino che economicamente sia ben messa. I suoi hanno un negozio da qualche parte. È normale che se la cavi meglio degli altri.
Antonio e Jean sono ex militari, ex tagliagole, uno è un ex maestro di scuola media e l’altro un ex prete. Sono ex, punto. E ora sono prossimi a determinare di che cos’altro saranno ex.
Ma soprattutto, sono incapaci di restare fuori dalle ombre. Spietati e bastardi, per quanto sappiano essere emotivi. Christine li conosce. Con Jean ha anche fatto sesso, tra l’altro.
Bravi e leali. Oltre che con i contatti giusti per procurarsi armi, informazioni e rifugi.
Poi c’è Hortense. Ah, lei è una storia a parte…
Era una suora, o almeno lo era stata. Cresciuta da suore, devota e pia.
Poi era accaduto qualcosa. Un evento fatidico che aveva cambiato tutto.
Stupro. Uno stupro perpetrato da un branco di bastardi. Hortense e una sua consorella avevano subito tale violenza una notte. All’alba, mentre la consorella di Hortense aveva passato la notte piangendo, lei aveva preso una decisione.
Non sarebbe mai più stata schiava. Non avrebbe mai potuto perdonare quel peccato. Non ci riusciva. Aveva abbandonato il velo e le sue sorelle il giorno stesso.
Aveva cercato aiuto. L’aveva trovato: Christine non era solita aiutare qualcuno per puro e semplice diletto ma l’idea che quei tre bastardi la passassero liscia non le andava per nulla.
Aveva aiutato Hortense a vendicarsi, fornendole gli strumenti adatti.
Erano piombate sul trio due giorni più tardi, massacrandoli. L’ultimo dei saltimbanchi, un giovane nero con la barba e i rasta era stato finito personalmente dalla giovane ex suora a colpi di pistola. La notte dopo, Hortense si era ubriacata. E Christine l’aveva seguita a ruota.
Non avevano parlato, ma si erano capite: loro erano uguali.
Hortense era divenuta l’ombra di Christine Buenariva. Un’ombra quanto mai gradita in questo momento. Nel mentre aveva fato pratica ed aveva trovato un lavoro, una copertura di poca importanza. I suoi veri affari erano altri: da quando era arrivata ad Haiti aveva già ucciso almeno tre persone tra pusher e sfruttatori. Una degna emula di Christine come lei lo era stata del Giustiziere. Suo malgrado, la nera sorride. Stringe la spalla di Hortense. Lei la abbraccia. Christine la lascia fare, stringendola a sua volta.
-Sono felice che tu sia tornata.-, sussurra Hortense all’orecchio di Christine.
“Anche io.”, pensa la giovane, limitandosi a stringere l’amica.
In realtà, sa che è tutto meno che un ritorno. È una tappa. L’ennesimo fronte di una guerra.
L’ennesima battaglia. Forse quella finale. Ma non può e non intende farsi fermare.
Non qui. Non ora. La paura e il timore li lascia ad altri. Se n’è liberata, da molto tempo.
Ora, è tempo di pianificare.
Chiede agli astanti cosa sanno su Boniface Laffort.
Ascolta le risposte. Decide come agire. La riunione termina due ore dopo.

Christine Buenariva soffoca uno sbadiglio. È stanca. Il cibo che ha mangiato è poco ma le basta.
Non sta male, non sta bene. Semplicemente sta. E in fin dei conti va bene così.
Chiede a Marcel di poter stare da lui. L’indomani colpiranno.

Si abbatte sul divano sfatto che ha scelto come giaciglio. Si smarrisce in un sonno senza sogni.

  

Henry Samson Lincoln conosceva bene la polizia.
E conosceva tremendamente bene l’essere umano. Per questo, mentre il poliziotto dagli occhi azzurri e i capelli rossi gli leggeva i suoi diritti, Samson sorrideva.
Deciso a ignorarlo, l’agente stava imperterrito a pronunciare la formula di rito.
Beatamente ignaro di chi avesse davanti e palesemente incurante del fatto che tale ignoranza avrebbe potuto costargli molto, molto cara.
-Signor Lincoln… lei ha il diritto di restare in silenzio…-, continuò l’agente.
Henry Samson Lincoln sorrise. E sorrise davvero, vedendo l’agente avvicinarsi.
-Credo che le manette non serviranno, agente.-, disse, -Credo anzi che lei potrebbe risparmiarsi questa fatica.-. L’agente divenne paonazzo, il viso divenne del colore dei capelli.
-Aggiungo l’insulto a pubblico ufficiale e possibile resistenza all’arresto.-, disse.
Henry Samson Lincoln continuò a sorridere, calmissimo e a suo agio mentre la collega del poliziotto, una donna di chiare origini messicane e decisamente abbruttita dalla calura del giorno trascorso a pattugliare le strade della Florida nel bel mezzo delle proteste e nella morsa del Covid-19, si apprestava a catalogare le prove di reato.
-Nessun insulto, agente Lambside.-, disse Henry, -Assolutamente nessuno. Solo un’offerta, onesta e schietta come le parole che lei mi ha rivolto.-.
-Lei è stato trovato in possesso di una notevole quantità di denaro non dichiarato e stupefacenti.-, gli rispose Lambside inarcando un sopracciglio. Anche la donna-poliziotto parve rallentare la propria attività, attenta a quello scambio.
-Colpevole.-, disse Henry, il viso sorridente privo di qualunque traccia di malizia, -Eppure concorderà con me che la situazione non è delle migliori…-, sentì la donna avvicinarsi.
-Mani sopra la testa.-, disse. Henry sentì distintamente la bocca da fuoco della colt della donna contro la schiena. L’altro agente parve irrequieto, dubbioso.
-Ana.-, osò appena proferire Lambside.
-Jack, questo stronzo ci sta solo facendo perdere tempo.-, rispose la donna. Non era brutta, il viso era volitivo, gli occhi dallo sguardo duro erano di un color verde scuro e sul polso spiccava un tatuaggio. Una scritta in latino…
-Vuole solo temporeggiare, così che i suoi amichetti di sinistra possano arrivare a soccorrerlo.-, continuò Ana. La donna afferrò uno dei polsi di Henry, che non smise di sorridere. Si lasciò ammanettare senza resistere. Non ne aveva bisogno.
-Deduzione errata, miss…? Ah, già, non mi ha detto il suo cognome. Ana, bellissimo nome tra l’altro.-, guarnì la frase di un sorriso. Lei lo guardò in faccia.
-Ci provi pure, bastardo? Ti conviene tacere. Abbiamo abbastanza prove da sbatterti dentro per un bel pezzo. Traffico di stupefacenti, tentativo di corruzione di pubblico ufficiale e se aggiungo anche gli insulti a pubblico ufficiale siamo a qualcosa come dodici anni, condizionale o no. E non sarà un periodo piacevole, pendejo.-, l’ultima parola era un tipico insulto.
Henry sorrise, di nuovo. Conosceva bene la natura umana.
-Sto solo permettendomi di spiegarvi due possibili futuri. In uno voi fate il vostro dovere di agenti. Mi portate dentro. Risultato? Domani, o dopo, io sarò fuori.-, il viso di Henry Samson Lincoln ora era graniticamente calmo. Non sorrideva ma c’era un’assoluta sicurezza nelle sue parole, -Io perderò una giornata o due di tempo. Voi riceverete un paio di menzioni onorevoli e poi, lentamente, le vostre carriere e le vostre vite del cazzo saranno annientate. Professionalmente sarà un calvario. I miei avvocati vi distruggeranno. E poi, non pago, me la prenderò con le vostre famiglie. E non pensate neppure di farmi secco: non arrivereste a sera vivi.-. I due agenti si guardarono, le pistole in pugno. Henry tornò a sorridere.
-L’altra ipotesi è che voi mi lasciate andare. Niente neve e niente arresto. Nulla. Un errore di giudizio come ne capitano troppi ultimamente. In cambio, una bella fetta di quei dollari potrebbe magicamente ritrovarsi nelle vostre tasche. Esentasse e senza detrazioni.-.

I due agenti lo fissarono con odio. Le armi le avevano loro. Henry non aveva che una colt con sé e gliel’avevano requisita per prima durante la perquisizione.
-Pensi davvero di farci paura, figlio di puttana?-, chiese Lambside.
-No, mister Lambside. Penso che voi meritiate ben di più della paga da fame che guadagnate, specie se consideriamo i rischi che correte per difendere quell’idiota col toupé che chiamate presidente.-, rispose Henry. Silenzio. Di nuovo. Altri sguardi tra gli agenti.
-Mille dollari?-, domandò Ana. Henry annuì, solennemente.
-Posso comodamente fare venti o trentamila.-, disse. Lambside aprì e chiuse la bocca a vuoto.
-Notevole.-, sussurrò la poliziotta. Il suo collega tacque per un lungo, lunghissimo istante.
-Occorrerebbe che decidiate.-, disse Henry, -Mi aspetta un incontro importante.-.
Altri sguardi. Un silenzio più pesante. Poi la messicana aprì le manette.
-Molto saggio.-, disse Henry Samson Lincoln. Si avvicinò alla ventiquattrore e fece scattare le chiusure, porgendo ai due agenti due mazzette di banconote. Lambside prese la sua con vaga esitazione. Ana arraffò quella a lei destinata.
-Sapevo che avremmo trovato un accordo.-, sorrise ancora Henry.
-Se ne vada.-, sibilò Lambside. Il trafficante non se ne diede pena e procedette per la sua strada dopo aver recuperato le sue cose.
-Merda, Jack!-, la voce di Ana Cortéz era il ruggito di una pantera ferita.
-Lo so. Lo so.-, rispose Jack Lambside. Pur sentendo tutto ciò, Henry Samson Lincoln non smise di sorridere. Per niente. Come detto, lui conosceva la natura umana. E sapeva bene che tutti avevano un prezzo. Si trattava solo di stabilirlo. E di eliminare gli incorruttibili moralisti.

Contrariamente a ciò che sembrava, Christine non era né un’ignorante né una sprovveduta.
Sapeva bene che il modo migliore per colpire un nemico, qualunque nemico, era colpire al ventre molle, alle parti non protette, in una parola, al punto più debole.
Christine lo sa. Lo sa benissimo. Ma il punto debole è tale solo quando lo si conosce. La rete di Boniface è vastissima ma virtualmente priva di debolezze. E così, Christine Buenariva intuisce come agire. Non c’è un punto debole? Nessun problema. Se ne crea uno!
Era una cosa che aveva imparato quando aveva avuto modo di collaborare con il Giustiziere.
Muovere l’ombra, lo chiamavano i giapponesi. Nô gliene aveva parlato.
Creare l’occasione propizia.
Mentre rifletteva bevendo il caffè scadente che Marcel aveva procurato, Christine capì come fare. La rete di Boniface Laffort non aveva debolezze apparenti ma era pur sempre fatta di uomini. Di persone. Di carne e sangue. E quelle sono più che alla sua portata.
Christine decide di conseguenza: il loro bersaglio ha un nome, un volto e molte informazioni.
Il loro bersaglio si chiama Antoine Fontbleu, un francese attivo nel campo del volontariato. Ha una casa in una zona poco popolata, poco distante dal confine con la Repubblica Domenicana. Si occupa di rifornimenti medici. E di far entrare e uscire dal paese roba che scotta.
È il bersaglio perfetto. Sicuramente sa qualcosa ma non è così connesso a Boniface da far temere un attacco diretto al malavitoso haitiano.
Se lo facesse sembrare un pestaggio dovuto a una rapina o qualcosa di simile… Christine sorride. Sì. Dipingere la scena che il nemico vuole vedere, fornire prove alla più logica e semplice delle conclusioni. Evitare dubbi. Cementare certezze. Preparare di fatto il terreno ai futuri sbagli. Come aveva detto Sun-Tzu, l’Arte della Guerra si basa sull’inganno.
Christine aveva letto Sun-Tzu. Aveva anche letto altri libri. Alcuni prima di conoscere il Giustiziere e di unirsi a lui e ancora molti altri dopo averlo conosciuto. Quell’uomo l’aveva aiutata, l’aveva cambiata. In meglio, probabilmente. Ha tutta l’intenzione di restituire il dono fattole. Per questo farà quello che le è stato chiesto, anche se ogni passo che fa su quella terra le ricorda un passato tutt’altro che piacevole, che preferirebbe evitare di rivivere.

 

Antoine Fontbleu ne aveva abbastanza.
Ne aveva abbastanza delle file, ne aveva abbastanza dei mendicanti, ne aveva abbastanza di dover sembrare sempre l’angelo della misericordia del cazzo. Ne aveva piene le palle.
Era stato un volontario per evitare altri spiacevoli fini. All’anagrafe Jean Bonucci, criminale in Francia. Arrestato e condannato, liberato su cauzione pagata da un uomo rivelatosi al servizio dei potenti di Boulevard Haussmann, la potente mafia corsa.
Deciso a ripagare il suo debito, era finito a spacciare stupefacenti per loro. Droga lungo tutto la Costa Azzurra. Era divenuto ricco. Ma aveva fatto la scelta sbagliata: cercare di pestare i piedi ai suoi datori di lavoro. Una partita di eroina tagliata male, venduta come pura. Diverse vittime, una massiccia operazione dell’antidroga francese e un’ancor più massiccia reazione da parte dei corsi. Scaramucce nelle strade in Costa Azzurra e arresti. Il risultato era stato che Manuel Vincent, un Capu abbastanza importante, era stato arrestato.
La reazione dei mafiosi si focalizzò su Antoine Fontbleu, all’epoca noto come Jean Bonucci.
Bonucci aveva consegnato Vincent agli sbirri, in cambio di un’assoluzione completa.
Decisi a non lasciarsi scappare l’importante testimone, gli agenti dell’Eliseo gli avevano dato una scelta: lavorare con loro o venire incriminato al pari degli altri mafiosi già noti.
La decisione di Jean Bonucci fu immediata. Denunciò diversi suoi ex collaboratori e contribuì alla caduta di Jacques Benard, importante magistrato molto ammanicato e con connessioni notevoli con i Capu corsi. Svolto il suo compito, la Francia lo ricompensò con una rendita mensile e una nuova identità. E Antoine Fontbleu sorse come una fenice dalle ceneri.
Rinacque ad Haiti come volontario e lì attirò l’attenzione di Boniface Laffort, che riconobbe i talenti di Antoine nel traffico di droghe, attività che non aveva abbandonato ma che ad Haiti stentava a far decollare. L’uso della sua copertura di volontario fu utilissimo e gli permise di allacciare un’utile alleanza con alcune cellule criminali di spacciatori haitiani residenti in Francia e in Spagna. Boniface lo prese sotto la sua ala, garantendogli una fetta degli introiti.
Antoine Fontbleu era un volontario, ma era divenuto tale per mera copertura e, nonostante riuscisse a fingersi caritatevole e gentile, era anche intimamente consapevole che quel ruolo gli faceva schifo. Non era che una maschera. Una che lui, arrivato a casa, voleva solo togliere.
Salutò il bodyguard. Il nero ricambiò il saluto. In realtà, Antoine lo sapeva bene, era un uomo di Boniface. Sicuramente stava tenendolo d’occhio, per conto del grande capo.
Ma Antoine non intendeva fare il furbo. Assolutamente no.
Entrò a casa. Abitava nel comune di Savanette, in una casa decisamente abbiente.

Arrivò al frigorifero e alla cucina. Stappò una birra. Bevve a garganella. Faceva caldo.
Attivò il ventilatore, sapendo di poterselo permettere: il generatore di casa sua era autonomo.
Sospirò pensando che la stronza irlandese che lavorava come medico pediatrico non sembrava intenzionata a dargliela. Valutò le alternative e decise.
Avrebbe dovuto cercare altrove. Sapeva anche dove.
Sollevò il telefono. Poche frasi, la promessa di un pagamento e la certezza che presto una ragazza bella, compiacente e sicuramente sana sarebbe giunta a dare sollievo alle sue voglie.
Chiuse la chiamata. Fece una rapida doccia. Passò mezz’ora. Poi qualcuno bussò alla porta.

La ragazza che fece entrare era semplicemente stupenda. Solo lo sguardo tradiva il desiderio di non essere lì. Avrebbe voluto essere altrove. Dovunque.
Lui sorrise, affabile e incurante. Lei pose la mano. Soldi, ovvio. Lui le ficcò in mano alcune banconote. Dollari. Duecento per la precisione. Più di quanti quella sgualdrina avesse mai guadagnato in mesi di lavoro. Lei sorrise, un sorriso mesto.
-Spogliati, troietta. Spero tu sia pulita perché di mettere il preservativo non mi va.-, sibilò lui.
Lei annuì. Mostrò persino un test. Pulita. Nessuna malattia venera o sessualmente trasmissibile. Una vera manna. Antoine sorrise. Lasciò che la giovane mulatta si spogliasse degli abiti restando nuda. Aveva un bel seno, un corpo decisamente slanciato e bello a vedersi.
Era depilata e i capelli erano riuniti in dreadlocks molto belli però leggermente mossi.

Antoine prese a fare lunghi respiri per calmarsi. Si avvicinò appena, palpeggiando quel corpo d’ebano chiaro. Sorrise pinzando i capezzoli della giovane, stringendo i seni, incurante di provocarle dolore.
-Sei bagnata, puttanella?-, chiese. Lei annuì appena. Antoine sorrise. Affondò una mano tra le gambe della ragazza, infilandole un dito tra le grandi labbra. Era bagnata, poco ma abbastanza.
Sorrise. Sì. Ora si sarebbe divertito e non poco. La mano tra le gambe vezzeggia lo sfintere, ignora i gemiti e le suppliche smozzicate della ragazza.
-Ora tu me lo succhi un po’, poi ti sfondo in ogni buco.-, sibilò lui. Lei s’inginocchiò, aprendogli i calzoni ed estraendo il membro già turgido. Prese a succhiarlo. Poca voglia, si vedeva.
Lui le ghermì la nuca, imponendo il ritmo, affondandole in gola, sentendosi un superuomo.
-Succhia bene, troia.-, la insultò. Sentì gorgoglii. La giovane evidentemente non era abituata a un simile trattamento. Poco importava: pagava più che a sufficienza perché la ragazza lo assecondasse in tutto ciò. Sentiva di stare per godere. In bocca o in faccia?
La domanda divenne ininfluente un secondo dopo, quando la porta della sua abitazione si spalancò. E Antoine Fontbleu si rese conto che le cose si erano appena complicate.
Rimase bloccato, assolutamente conscio dell’erezione in diminuendo e del fatto che anche la giovane che lo stava succhiando si era fermata.
Davanti a lui si stagliavano due sagome: quella di una giovane donna nera e di un mulatto dalla barba curata e l’abito nero simile a quello di un prete quanto mai poco convenzionale.

 

Christine Buenariva guarda il bastardo. La mano destra di Antoine è ancora piazzata sulla nuca della giovane, evidentemente una prostituta. Il viso del francese è assolutamente sorpreso e terrorizzato a un tempo.
-Lasciala.-, dice soltanto. Brandisce la mazza da baseball con assoluta calma.
Antoine non si muove Jean, l’ex sacerdote, osserva la scena con disappunto.
-Fornicazione… E violenza.-, scuote il capo con somma disapprovazione.

 

-Il mio bodyguard è…-, Antoine s’interrompe. Vede altre due sagome e una terza trascinato dentro. Le due sagome sono un altro nero e una giovane dall’aria tanto feroce quanto quella dell’altra. Ora sì che ha paura. La bocca della troietta gli sembra gelida, o forse è lui che non riesce neppure a evocare il pensiero del sesso, in questo momento.
-Molto morto, direi.-, dice il tizio che sembra un prete. I due nuovi giunti lasciano cadere il corpo. Antoine lo osserva. Nessuna ferita solo la trachea bizzarramente, oscenamente distorta.
-Cosa volete?-, chiede infine. Come in un sogno, o in un incubo, lascia la presa. La ragazza si alza. È spaventata quanto lui, ma il prete le fa cenno di prendere i vestiti e andarsene.
Antoine sa, capisce, ora con assoluta certezza che non scoperà la bella figa umida di quella giovane, non ne violerà lo sfintere illibato. Non farà proprio nulla.
-Quelli come te mi fanno schifo.-, la voce della nera, quella che è entrata col prete non tradisce emozione alcuna se non disprezzo, -Quelli come te sono parassiti.-, la mazza da baseball sbatte sul palmo della giovane, un suono intimidatorio che alza ulteriormente la paura di Antoine.
-E penso che tutti quanti sappiamo bene che fine possano fare i parassiti.-, sibila la virago.
-Io… sono solo un volontario!-, protesta lui, -Non potete…-.
-Non sei un volontario. Sei un trafficante. E aiuti un criminale.-, la voce del tizio che sembra un prete pare il ringhio di un drago. Antoine tace. Nota che è circondato.
In un momento imprecisato, l’altro tizio e l’altra nera l’hanno accerchiato. Nessuna via di fuga.

Nota la giovane prostituta, rivestitasi nel suo abitino colorato che esce senza neppure guardarlo. Nessun aiuto neanche da parte sua. Antoine riporta la sua attenzione sulla nera e sul tizio vestito da prete. Cerca di ragionare.
-Mi avreste già ucciso se fosse solo per quello, no? Volete qualcosa, mi pare di capire.-, dice.
-Acuto.-, dice il prete, -Di fatto vogliamo qualcosa, figliolo.-.

-Lo immaginavo! Che volete? Soldi, droga?-, chiede Antoine, improvvisamente energico e decisamente più ottimista, -Sono sicuro che possiamo accordarci!-.
Se la caverà, ora lo sa. Sa che non lo uccideranno. Sa che dovrà giocarsela con cautela ma può farcela, l’ha già fatto in passato, più volte. Non lo fotteranno. Sarà lui a fottere loro.
-Credo anch’io, in verità.-, dice quella sorta di prete sorridendo.
Circondato da sconosciuti minacciosi, Antoine Fontbleu sorride, sprezzante.

-Boniface Laffort.-, dice il prete. Antoine annuisce. Sorride ancora.
-Sì… Ecco, io ne so poco, ma diciamo che ha un’amante, una tipa abbastanza strana, qualcuno dice sia una mambo…-, dice. Nota un impercettibile mutamento nella postura della nera accanto al prete. Disagio? Non riesce a capirlo. Ma non ci bada.
-E so che la tipa sa molto più di me.-, dice. C’è altro ovviamente ma non è necessario che lui lo dica. Appena lo lasceranno in pace potrà avvisare Boniface e trasformare questo intoppo in un considerevole vantaggio. Qualcuno intende agire contro il malavitoso. Quel gruppo è sicuramente bassa manovalanza. Un cartello rivale? Forse. Più che probabile.
-Nient’altro?-, chiede il prete. Inquisitorio, sicuramente. Ma Antoine sorride.
-Forse. Mi lascerai stare?-, chiede. Il prete annuisce.
-Bene. C’è un deposito. È sotto una chiesa crollata dal terremoto del 2010.-, spiega. Dice loro quale chiesa e dove. Potrà sistemare tutto con un paio di telefonate.
Il prete annuisce. Comprende. Indietreggia di un passo. Antoine sorride di nuovo, chiaramente soddisfatto. Ha detto loro tutto, o quasi. Ma poco importa: sa che basta.
“Ho vinto.”, pensa. Boniface lo perdonerà sicuramente, considerando che non può fare a meno di lui, non senza perdere alcune importanti connessioni con l’Europa, quantomeno.
-Dimentichi una cosa.-, la voce della nera accanto al prete pare lontanissima. Antoine neanche si volta a guardarla. Non fa in tempo.
Il colpo con la mazza da baseball lo centra al mento da sotto in su, l’arcata mandibolare mostra segni di cedimento, sangue in bocca e denti a pioggia sul linoleum. Antoine cade.
-Io non ti ho dato nessuna fottuta parola del cazzo.-, sibila la nera.
Lui la fissa, riuscendo a non svenire. Cerca di implorare e di parlare.
Il viso della giovane è inespressivo, ma gli occhi… negli occhi arde un fuoco.
Antoine Fontbleu capisce, intuisce che non ne uscirà. Non fotterà quella mulatta di poco prima, non fotterà più niente e nessuno. Mai più.
Tenta di alzare le mani. Un vano gesto di autodifesa. Inutile e tardivo.
Il colpo successivo lo centra in piena faccia.

 

Christine colpì ancora. La mazza calò di nuovo. La giovane si fermò dopo il terzo colpo consecutivo. Il viso di Antoine non aveva più nulla di umano.
Christine Buenariva espirò, scacciando il pensiero del passato, il ricordo.
La violenza, la fuga, l’essere vittima, preda. Prima della sua rinascita come l’Araba Fenice…
Il pene di quel bastardo che le entrava dentro, quel vescovo, uomo di dio solo nell’apparenza, lupo avvolto nelle vesti da agnello, simulacro di pietà e carità, falso profeta di virtù mai realmente sue… La sensazione dell’innocenza persa. Di venire squartata, aperta, violata. L’urlo. La furia, e il dolore. Poi…
Con un secondo respiro, Christine riprese consapevolezza del presente, bandendo i ricordi.
-Prendete i soldi che trovate. Lasciate così il corpo. Fate casino. Deve sembrare una rapina.-, ordinò. La banda eseguì. Sconquassarono la casa, ruppero e distrussero.
Lei rimase immobile. Occhio fermo nel tornado della devastazione.
Poi, dopo diversi minuti, uscirono. Avevano preso anche diversa roba. Soldi per migliaia di dollari. Utili. Sicuramente utili. E avevano le informazioni. Il raid era riuscito.

Se ne andarono inavvertiti. Erano le 23.47.

 

La notizia fu data il giorno dopo. Nessuno ci perse troppe lacrime: una rapina finita male, senza nessun’aspettativa di giustizia da parte di nessuno (neppure dai famigliari), le esequie si sarebbero tenute in Francia. Il solito caso del volontario europeo venuto per poter fare del bene al Terzo Mondo e pagare l’idealismo con la vita. Classico. Nulla di nuovo.
Persino i giornali relegarono la cosa alla terza pagina, troppo attenti all’incedere del Covid in Asia e in rapido avanzamento verso l’Europa.
Boniface ponderò i fatti. Verificò ipotesi, cercando di comprendere se quell’omicidio fosse stato realmente accidentale. La polizia giurava che la morte di Antoine pareva solo il risultato collaterale di una rapina finita male. Ma c’era qualcosa che non quadrava.
La morte del bodyguard, ad esempio. Emilé Dasaliné, ritrovato ucciso a causa di un colpo alla trachea e il viso sfracellato di mazzate, a poca distanza dalla casa che doveva sorvegliare.
Attirato e sopraffatto? O spostato una volta morto? Boniface sapeva che la polizia non aveva trovato prove al riguardo. Come rapina gli pareva sin troppo ben eseguita…
-Che ne pensi?-, chiese a sua sorella, Lucia Laffort.
La nera lo guardò, sollevando lo sguardo dai tarocchi, pensosa e assorta nella contemplazione.
-Antoine aveva dei nemici di vecchia data. È possibile siano solo loro.-, disse, -Ma io ti consiglio di stare attento. Se l’hanno attaccato potrebbero prendersela anche con te.-.
-Cosa vedi?-, chiese Boniface avvicinandosi al tavolo. La mambo sorrise, scoprendo i denti.
-Un futuro di sangue.-, disse mostrando le carte. La Torre, il Carro girato e la Donna di Spade.
-Ne hai estratte solo tre…-, osservò lui. Gli occhi bicolori della sorella lo inchiodarono.
-Bastano. Ciò che vedo è una donna. Pericolosa.-, disse.
-Tu?-, chiese. Lei scosse il capo. Girò una quarta carta. La Papessa girata.
-Questa sono io. E colei che vedo non sarà visibile alla mia vista.-, decretò a occhi socchiusi.
-Ma chi è?-, chiese Boniface. Altra carta girata. La Forza.
-Una persona che ha attraversato l’inferno, fratello.-, la voce di Lucia pareva ora lontanissima.
-Non sai dirmi di più?-, domandò l’uomo. La sorella scosse il capo.
-Non credo. Posso dirti che non è da sola.-, altre carte. L’Eremita e il Bagatto.
-Mi confondi amore.-, sussurrò Boniface baciandola. Lei accolse il bacio, le lingue s’incontrarono. Boniface sentì i denti di Lucia mordergli appena il labbro.
-Io devo andare. Ho un incontro con un’amica.-, disse Lucia.
-Carmela?-, chiese lui a bruciapelo. Carmela Hilt era una benefattrice affascinata dalle capacità di Lucia di predire il futuro e sborsava grosse somme per ottenere risposte.
Un pollo da spennare, e Lucia era molto brava a farlo.
-Già. Mi aspetta in centro.-, disse la giovane. Raccolse i tarocchi con solennità e chiuse il mazzo in una scatola di palissandro, lasciando Boniface con i suoi pensieri.

Respirando piano e osservando un punto indistinto innanzi a sé, l’uomo pensò che forse c’era qualcosa. Un nemico, un avversario. Qualcuno che aveva il preciso intento di colpirlo.
Ma perché colpire proprio Antoine Fontbleu? Perché proprio lui tra tutti i possibili bersagli?
La risposta più logica era che qualcuno avesse intuito il suo legame con Antoine ma anche in tal caso, cos’altro sapevano di lui? Molto, probabilmente con ottime fonti. Il che poteva implicare il coinvolgimento di enti come la D.E.A. americana o i servizi segreti europei. Oppure qualcun altro, a cui Antoine aveva pestato i piedi in passato prima di raggiungere Haiti.
Anche così, ciò prefigurava dei nemici potenti e con vaste risorse. Pericolosi.
E questo avrebbe significato che Boniface avrebbe dovuto tentare di scongiurare lo scontro.
Oppure, l’altra possibilità, terribilmente concreta, era che non sapessero nulla e che fosse la questione personale di pochi individui. Ciò voleva dire che Antoine, convinto di farcela una volta ancora vendendosi, avesse tentato di barattare la sua libertà con informazioni reali (più o meno). E se era stato così… Boniface estrasse il cellulare. Doveva fare alcune chiamate.

 

Christine non aveva dormito. Il sonno le era nemico là, ad Haiti. Quell’isola, spezzata in due nazioni di simile miseria e ferocia le faceva tornare alla mente tutto. Ogni orrore subito sul suo suolo. Ogni ordalia passata, ogni scelta. E la consapevolezza che là, in baratri di sofferenza, aveva avuto inizio il suo processo di cambiamento, la sua metamorfosi in ciò che ora era.
La sua debolezza, il ricordo che la tormentava era anche la sua forza. Era un’autentica dicotomia e solo il cielo sapeva con quanta volontà la nera aveva cercato di assoggettare quei ricordi, di richiuderli nel suo subconscio, oltre le porte chiodate della parte più oscura della sua mente. Nondimeno, i ricordi si ripresentavano, impietosi e implacabili.
Socchiuse gli occhi, cercando di scacciare una fitta di mal di testa. La luce filtrava dalla tapparella abbassata. La stanza era pateticamente spoglia. Una camera per gli ospiti. Gentile offerta di Julie. I genitori non sapevano nulla delle pessime frequentazioni della figlia. Meglio così per tutti. Christine si era ripromessa di evitare che ne venissero a conoscenza.
La vita da quelle parti era già dura a sufficienza senza alienarsi i propri genitori, una grazia che a lei non era stata data. Ricordava sin troppo bene quando la sua famiglia, pur mostrandosi comprensiva, aveva preferito disconoscerla che attirar le ire della Chiesa…
Il ricordo era ancora lì, un memento incancellabile, la lama di fuoco che era calata a separare la sua esistenza dal resto della società. Forse non di tutte le società, tuttavia.
Spesso Christine si era chiesta se, dopo tutto quello che aveva passato, forse la soluzione migliore non sarebbe stata quella di sparire, di andarsene via, in Africa, tra le terre dell’inizio, in Nigeria, laddove la religione vudù aveva avuto inizio. Forse laggiù gli sciamani erranti degli Youruba l’avrebbero riconosciuta come un’eletta di Ogun, tributandole il rispetto…
Scosse piano il capo. Quella di andare in Nigeria a costruirsi un regno era stato il sogno di Amour Mirabellé. Lei sarebbe voluta tornare là, assurgere al rango di un tramite tra gli dei e gli uomini. Follia, Christine lo sapeva. Amour aveva creduto di conoscere il divino ma aveva solo saputo ingannare sé stessa e coloro che l’avevano seguita, inclusa lei, la sua ex Regina di Guerra. C’era voluto il Giustiziere per abbattere quell’illusione e fare di Christine quello che ora era. Una guerriera fedele a sé stessa soltanto e a coloro cui decideva di essere fedele.
-Ti ho portato il caffè.-, disse la voce di Julie, strappandola ai suoi pensieri.
Christine annuì. Lo prese. La tazzina era sbrecciata in un punto, bevve piano.
Julie era alta poco meno di lei, ma compensava con una bellezza notevole e un viso da madonna. Spesso, Christine si era domandata come fosse possibile che quella giovane fosse riuscita a evitare di sposarsi tanto a lungo. Gli uomini la bramavano e le donne la invidiavano, eccetto quelle in grado di bramarla. Ma Julie aveva sempre rifilato picche a tutti, o quasi.
Quasi, perché Christine Buenariva sapeva che qualcuno aveva potuto bearsi di possedere quel corpo da favola. La giovane si sedette accanto al letto su cui Christine era distesa.
-Ora che si fa?-, chiese. Risposta ovvia.
-Continuiamo. Usiamo le informazioni che abbiamo per cercare di colpire di nuovo, finché Boniface non si espone di persona.-, rispose lei. Julie la fissò.
-Chi te lo fa fare?-, chiese. Christine si limitò a fissarla. Non era una domanda a cui rispondere.
-Insomma, pensi che cambierà qualcosa?-, chiese Julie, -Ci siamo sempre date da fare ma colpire uno come Boniface…-, era paura quella che si sentiva nella sua voce?
-Abbiamo già rischiato in passato.-, disse Christine, -Nessuno ci ha mai ritrovati. Nessuno la farà, neppure stavolta.-, bevve un altro sorso finendo il caffè. Era acqua sporca ma andava bene. Le serviva quella sferzata di energie. Notò che Julie si era seduta con nonchalanche sul letto. Le sorrideva. Lentamente, una mano accarezzò appena il viso di Christine.
Era un gesto ardito, lo sapevano entrambe, ma era un gesto assolutamente concesso.

La carezza si fermò un istante, cristallizzata nel tempo come le due donne.
Gli occhi di Christine cercarono e affondarono in quelli di Julie. Fu una comunicazione muta.

Un dialogo privo di parole, un interloquire di più alto livello. Durò pochi istanti.

Poi, fulminea ma languida, lenta ma rapida, una delle due baciò l’altra.

Fu appena un secondo, un istante, labbra contro labbra, bocche che si cercarono, che si esplorarono. Christine si annullò nel momento, posando una mano sulla nuca di Julie, scendendo lungo il collo e la schiena. La giovane la strinse. Christine sospirò.
Le era mancato il sesso saffico. Non era straniera ai piaceri tra donne, anzi poteva ben dire di averli coltivati al pari della sua conoscenza delle arti amatorie con amanti maschili.
Non si considerava bisessuale, ma sapeva che era così che chiunque altri l’avrebbe definita.
Che si fottessero: non sapevano nulla, nulla!
Non avevano idea dei baratri, degli orrori che lei e infiniti altri avevano affrontato e dai quali molti, moltissimi altri non erano mai usciti. Il ricordo lambì la coscienza di Christine.
La giovane strinse l’altra donna a sé, in uno spasmo possessivo che Julie avrebbe potuto persino considerare bizzarro se solo ci avesse pensato, ma i pensieri di quella donna erano rivolti solo a Christine, al suo corpo, al desiderio di lei, alla brama di ciò che potevano darsi.
Il desiderio era una grazia: impediva a Christine di rimanere ostaggio di quel senso di oppressione che inevitabilmente mutava in rabbia pura quando i ricordi montavano.
Julie gemette. La bocca della giovane si spostò lungo il collo di Christine. La nera assaporò il momento. Sfiorò i seni di Julie con una mano, toccando i propri con l’altra.
Si volevano. Lo sapevano entrambe. Poi, improvvisamente, qualcuno bussò alla porta.

Le due si separarono. L’intermezzo erotico era rimandato.
-Avanti.-, disse Christine. Jean entrò. Nonostante fossero passati anni, continuava a tagliarsi i capelli e ad assumere un portamento quasi sacerdotale, forse per mera abitudine. Oppure perché avrebbe voluto poter tornare indietro. Christine non sapeva molto di come Jean avesse rinunciato al collare da ministro di Cristo, ma sapeva che la separazione era stata netta, sebbene sicuramente dolorosa, almeno per quanto lei poteva supporre.
-Ci sono novità.-, disse Jean. Il crocifisso che portava al collo baluginò appena quando un raggio di sole entrato dalla finestra lo colpì. Le due annuirono. Julie sottolineò che era meglio chiamare gli altri e uscì. Christine raccolse da terra i suoi vestiti. Si sfilò la canotta e mise una maglietta, senza badare a Jean. Il pudore non era di casa: lui l’aveva già vista nuda, avevano già fatto sesso. Non c’era nulla da nascondere. L’uomo non distolse lo sguardo e mantenne il suo aplomb con una dignità da ecclesiastico.
-Ti fidi di lei?-, chiese di botto mentre Christine s’infilava un paio di pantaloni.
-Non dovrei?-, chiese lei fissandolo. Cosa c’era dietro quella domanda?
-No. Di tutti noi, lei è quella che ha di più da perdere.-, disse Jean. Christine terminò di vestirsi.
-Mi stai dicendo che pensi che ci abbia traditi?-, chiese con tono inespressivo.
-Ti sto dicendo che é possibile che lo faccia. Io e Antoine siamo scapestrati, sbanchiamo il lunario con qualche lavoro qua e là. Marcel è uno a posto e Hortense… lei è al di sopra di ogni sospetto, ma Julie ha stabilità, una vita decisamente migliore della nostra. Se Boniface le chiedesse di tradire in cambio di qualche agevolazione…-, Jean lasciò la frase in sospeso.
-E se lo chiedesse a te o a Antoine, o a Marcel? Rifiutereste i suoi soldi?-, chiese la nera.
-Assolutamente sì. Ma immagino che non basti la mia parola a convincerti. Vedila così: Julie ha ancora una famiglia. Ha dei parenti. È vulnerabile. Più di tutti noi.-, disse l’ex sacerdote.
Christine tacque. Furono interrotti dall’arrivo di Julie che annunciava che gli altri erano stati avvisati. E che si sarebbero trovati a casa di Marcel.

 

Lucia sorrise, ascoltando tutte le chiacchere della sua amica. Carmela parlava, parlava e parlava. La nera dagli occhi bicolori ascoltava la giovane senza parlare, annuendo.

In realtà il pensiero della donna verteva su ben altri temi delle chiacchere inconsistenti di Carmela. Ripensava alle carte, a ciò che avevano mostrato.
C’era una minaccia e se aveva visto giusto, la minaccia era una donna, una guerriera spietata, giunta da lontano eppure così assurdamente familiare…
Perché quella donna era un pericolo? Chi era? Improvvisamente decise di voler indagare.

 

-Pare che Boniface abbia rinforzato qualche punto.-, disse Marcel, -Hortense ha detto che non c’era al funerale di Antoine, ma che in compenso c’era uno dei suoi assistenti.-.
Erano riuniti in casa dell’uomo che, dopo aver offerto a tutti del pollo marinato in salsa, aveva immediatamente preso a spiegare quanto doveva essere chiarito.

-Sul suo assistente sappiamo qualcosa?-, chiese Christine. Marcel scosse il capo.
-Poco. Sappiamo che lavora per il Ministro degli Interni, l’ideale per quando Boniface Laffort deve insabbiare qualcosa.-, disse. La nera annuì. Marcel riportò l’attenzione sugli altri membri del gruppo. Marcel si schiarì la gola. Poteva immaginare quale fosse il pensiero di Christine: le informazioni che avevano ottenuto non erano sufficienti.
-Dobbiamo colpire. Costringere Boniface a fare un errore.-, disse Antonio.
-Sono d’accordo.-, riconobbe Jean, -L’attacco è l’unica mossa sensata da compiere.-.
-Già. Ma dove?-, chiese Hortense. Già, dove? Marcel sapeva che il deposito di cui loro erano a conoscenza era sorvegliato. Quasi sicuramente era una trappola. Eppure pareva non esserci scelta se non finirci dritti in mezzo…
Inconsciamente, Marcel cercò Christine Buenariva. La giovane pareva assorta nei propri pensieri. Distante da quella discussione. Probabilmente stava considerando i fatti.
Sapendo di non essere l’unico ad attendere la decisione di Christine, Marcel temporeggiò, attese. Il silenzio si fece pesante, una cappa di piombo invisibile gravante sui presenti.

-Attaccheremo.-, sibilò Christine. Così sarebbe stato.

Marcel portò delle pistole e persino un paio di mitra. Vecchi residuati, roba venduta sottobanco, armi che avevano già visto almeno due guerre. Portò anche dei machete.
Hortense osservò quell’arsenale senza parlare. A lei non serviva a nulla lamentarsi della qualità delle armi. Aveva sempre saputo arrangiarsi. Guardando Jean e Antonio notò che neanche loro avevano molto da dire. Erano tutti veterani, assassini, padroneggiavano varie sfumature dell’esercizio metodico della violenza.
La giovane sorrise a Marcel prendendo una delle pistole e un machete. Lui replicò il sorriso.
Hortense non si soffermò a pensare ai rischi: Christine aveva parlato, il futuro era stato deciso, non restava che agire. Anche se sarebbe stato rischioso, lei avrebbe seguito la donna che le aveva regalato la vendetta sino all’inferno, se le fosse stato richiesto.
In fin dei conti l’aveva già fatto: per chiunque fosse un credente, Hortense aveva tradito i suoi voti, aveva rinunciato ai suoi obblighi. In realtà, lei la vedeva diversamente.
Dio ha un piano per tutti, soleva dirle sua madre e lei amava credere che il piano di Dio contemplasse quella strada, perché quella soltanto aveva potuto dire di sentire giusta.
Restare a pregare? Implorare per pietà? Fingere che nulla fosse accaduto? Nulla di tutto ciò aveva mai scalfito la sua consapevolezza. Non esisteva. No: quando quegli uomini l’avevano violentata, Hortense aveva metodicamente escluso ogni altra cosa che non fosse la pura e semplice vendetta, trasformandosi nel braccio destro della giustizia divina.
In realtà, lei non si sentiva chissà quale angelo vendicatore. Era solo una donna che aveva scelto di reagire. Guardò Christine sapendo che lei capiva. Lei sapeva. Anche lei aveva vissuto cose simili, se non peggiori. Si divisero le armi rapidamente e senza parlare.
C’erano due caricatori per arma. Poco, pochissimo, ma sufficiente.

Hortense prese i caricatori per la sua 1911.
Rientrò nella sua camera. Si spogliò. Guardandosi allo specchio si sorrise. Quella vita randagia le aveva lasciato addosso qualche segno. Cicatrici in alcuni punti. Nessuna eccessiva, però.
Aveva un corpo snello, forse un po’ troppo per gli standard di molti. Non che le importasse.
Lei si piaceva, e non vedeva motivo di spendere tempo ed energie a migliorare qualcosa che effettivamente non le serviva: la bellezza è passeggera, è cosa nota.
Spogliatasi, si osservò meglio. Sfiorò appena con le dita i seni, scendendo piano verso il pube.

Quanto tempo era che non si dava piacere? E quanto tempo era che poteva dire di godere davvero? La verità era che, dopo lo stupro era giunta a considerare il sesso etero come qualcosa di assolutamente privo d’importanza, di trascurabile.
In quel momento, la porta si aprì e qualcuno entrò. Hortense si voltò.
Christine incontrò il suo sguardo, il viso solcato da un sorriso raro ma stupendo.
Come stupendo fu il mutamento nell’espressione di Hortense: sorrise a sua volta, non facendo una singola mossa per coprire le sue nudità. Lungi dal voler spezzare il silenzio, Christine si avvicinò. Si spogliò rapidamente. Nude, una davanti all’altra, si fissavano.
Era già accaduto. Quella notte, dopo essersi vendicata dei suoi stupratori, Hortense aveva alzato parecchio il gomito. Christine non l’aveva fermata, anzi…
Ed erano finite a letto, passando l’intera notte tra le coltri a bramarsi, a darsi piacere, a godere. Solo l’alba aveva interrotto quel piacevolissimo sodalizio.

-Non abbiamo molto tempo.-, mormorò Hortense. Christine si avvicinò di un passo.
-Allora meglio non sprecarne.-, disse. La baciò. La lingua della giovane dardeggiò nella bocca di Hortense che rispose al bacio con altrettanta veemenza. Sentì le mani di Christine sulla schiena. Strinse la ragazza, scendendo sino ai glutei marmorei. Le bocche si cercavano, perdevano, poi esploravano colli, seni capezzoli e petti. Si accarezzarono sfiorandosi con leggerezza, l’una a leccare l’altra e poi viceversa. Il letto le accolse. Si sdraiarono tra le coltri sfatte. Christine scese lungo il corpo di Hortense mentre la giovane ne cercò e vezzeggiò l’intima fessura. Il loro piacere acquisì ritmo e velocità. Leccate, dita, baci, tutto si miscelò in un caleidoscopio estatico di sensi, nella consapevolezza che il futuro era incerto e solo l’attimo contava. Hortense venne con un verso umido che divenne rauco sul finire. Continuò a leccare Christine sino a donarle un orgasmo a sua volta. Poi rimasero immobili, per un lunghissimo istante, ferme a gustare quel momento stupendo, quell’estrema grazia.
-Grazie.-, sussurrò Hortense voltandosi a guardare la sua amante.
-No. Grazie a te.-, replicò Christine. Fu tutto ciò che dissero. Non c’era altro da dire.

Si rivestirono piano.

Jean pregava. Antonio non capiva fino in fondo ma rispettava l’ex prete. Da quando lo conosceva, nei momenti prima di un incarico pericoloso lo vedeva pregare.
Si avvicinò proprio mentre Jean, inginocchiato in un angolo, terminava la sua orazione.
-Preghi per la nostra salvezza?-, chiese. Jean scosse il capo.
-Allora per il perdono?-, chiese ancora Antonio. Ancora cenno negativo.
-Per cosa preghi?-, la domanda era divenuta più di una semplice curiosità.
Il nero sorrise al mulatto con un sorriso mesto. Triste.
-Prego per le anime dei nostri nemici. Perché non sanno ciò che fanno.-, rispose Jean.
-E noi lo sappiamo?-, chiese Antonio. Il prete non rispose, non subito.
-Ci sono tante cose che non capiamo. Ma senza voler entrare in ambito teologico… Penso che alla fine siamo tutti colpevoli. Chi più chi meno.-, ammise infine con aria pensosa.
-E alcuni sono più colpevoli di altri.-, concluse Antonio. Jean annuì solennemente.
-Vado a prepararmi.-, disse Antonio lasciando Jean alle sue meditazioni.

L’ex prete riprese a pregare. La sua mente si quietò. Finì con un segno della croce e si alzò.
Anche lui doveva prepararsi.

 

-Si preparano a colpire.-, disse la voce. Boniface annuì.
-Ottimo. Lascia che lo facciano.-, decretò.
-Non sarà pericoloso?-, chiese la voce.
-No. Perdite trascurabili in ogni caso. Conditio sine qua non, voglio quella Christine Buenariva viva.-, ordinò il gangstar. Silenzio meditabondo dall’altra parte.
-Potrebbe essere difficile.-, si decise a rispondere l’altra persona.

-Ma ci riuscirai. Lo sappiamo tutti e due. Trova il modo di accontentarmi e riceverai quanto pattuito.-, disse Boniface. Altro silenzio, poi una parola.
-Sì.-, infine, Boniface Laffort sorrise.
-Allora non abbiamo altro da dirci.-, disse lui.

Chiuse la chiamata voltandosi verso Lucia. La sorella incestuosa dagli occhi bicolori aspettava, bevendo un calice di vino, avvolta in un tubino che da solo costava più di quanto dieci dei loro impiegati guadagnassero in un anno di duro lavoro.
-Quando sarà nostra prigioniera voglio che tu le strappi ogni singolo brano di informazione. Non ci credo che è da sola a fare questa cosa e non credo neppure che i quattro idioti che si porta dietro siano i soli a conoscenza di ciò che ho in mente.-, disse.
-Sarà un piacere.-, rispose la mambo. Sfiorò le labbra del fratello con un bacio.

 

Marcel sospirò. Avrebbe dovuto andare con loro. Notò che Julie lo stava fissando.
-Che c’è?-, chiese. La giovane sorrise. Lui la guardò. Non capiva. A meno che…
Fu lei ad avvicinarsi e a rompere gli indugi baciandolo. Durò un lungo, magnifico e minuscolo istante. Quando le loro labbra si staccarono lui si scoprì ansimante, bramoso.
-Non è una buona idea…-, iniziò.
-Non me ne frega niente.-, replicò lei. Lui sorrise, suo malgrado.
Sapeva bene che fare sesso con Julie sarebbe stato un errore e gli avrebbe scatenato dentro una voglia implacabile, un bisogno, una febbre rovente.
Ma sapeva anche che gli andava bene: Julie era una ragazza bellissima e lui era parecchio che non aveva occasione di fare sesso. La giovane s’inginocchiò davanti a lui e gli sbottonò i calzoni estraendo un pene già turgido. Lo prese in bocca senza esitazione.
-Oh… Julie…-, sussurrò lui. Non sapeva quanto avrebbe resistito. Lei continuò, imperterrita.
Quando lui le esplose in bocca, tenendole la nuca per spingerla verso di sé, lei inghiottì tutto.
-Spero tu non sia ancora stanco: tu hai goduto, ma ora tocca a me.-, disse mentre si toglieva gli shorts. Marcel comprese che avrebbe dovuto andare di abilità orali, almeno per iniziare. Sorrise. In fin dei conti, almeno avrebbe avuto modo di soddisfare quella voglia proibita che non conosceva requie da quando, anni prima, gli era morta la moglie.

S’inginocchiò di fronte alla giovane e prese a leccare. Dopo un po’ sentì il membro risvegliarsi. Afferrò Julie penetrandola mentre lei si appendeva a lui con un gridolino lieto.

La seconda volta fu più lunga e appagante per entrambi.

 

Il buio calò su Haiti e dalle tenebre uscirono gli spettri.

Christine e Hortense avanzarono sino al muro diroccato. La zona non era più stata ricostruita dal terremoto che aveva travolto Haiti nel 2010. Boniface vi aveva eretto il suo magazzino.

La loro avanzata fu cauta e attenta. Arrivarono in prossimità del muro senza attirare l’attenzione dei tre tizi all’esterno. Tre mal messi, gentaglia, tagliagole a pagamento.
Come tutti in quella zona del mondo.
Christine verificò la situazione: impossibile abbatterli tutti senza allertarli, impossibile farlo senza vanificare l’effetto sorpresa e iniziare un combattimento. 

Julie e Marcel, poco lontani dal muro opposto, si avvicinarono a loro volta.
Marcel raccolse un sasso e lo tirò. Il tizio più vicino sentì il rumore. Impugnò l’arma, una vecchia mitraglietta Thompson. Un residuato bellico antichissimo. Era palese che quei tizi non fossero che carne da cannone a bassissimo costo. Il che avvalorava l’idea che potesse essere una trappola. Boniface avrebbe sicuramente protetto al meglio la sua merce…
Ma Christine era fiduciosa: la trappola era prevista, il piano aveva tenuto conto anche di essa.
Fu Hortense a muoversi: la giovane lanciò un sasso. Il tizio già distratto avanzò ancora, uscendo dalla visuale dei suoi compagni. Christine sorrise. Agì.
Estrasse il pugnale e, arrivata alle spalle dell’uomo tirò indietro il capo e lo sgozzò.

Il morente non emise che pochi flebili gemiti tappati dalla mano della nera mentre questa ne accompagnò piano il corpo a terra. Gli altri due si misero a confabulare, a ridere.
Uno chiamò il morto, ordinandogli di smettere di cazzeggiare. Le ultime parole.
Antonio aprì il fuoco. La mitraglietta Kiparis sgranò una rapida raffica abbattendo i due, un vento rovente che li falciò senza pietà.
-Andiamo.-, disse Christine. Avanzarono, armi pronte, sino alle rovine della chiesa.
Ciò che restava era un mero guscio vuoto, una patetica imitazione di edificio clericale, il vacuo esterno di un luogo di culto. Era crollata e non sarebbe stata ricostruita, non ancora.
Ma andava bene così: quella notte, loro erano lì per colpire un nemico, quel posto era buono come ogni altro, in fin dei conti.

L’interno della chiesa parve eruttare un vento gelido, in contrasto con il caldo della sera.
Antonio avanzò. Jean seguì, poi venivano Marcel e Christine e infine Hortense e Julie.
La mitragliata falciò Antonio e ferì di striscio Jean che sparò a sua volta. Un quarto haitiano crollò all’indietro, crivellato dai proiettili. Poco dietro di lui c’era una botola.
Il loro obiettivo. Christine guardò Marcel. L’uomo portava nello zaino le due bombe.
Ordigni artigianali preparati per poter esplodere facendo il massimo danno in un ambiente ristretto. Antonio le aveva preparate rapidamente e senza badare troppo alla qualità dei materiali, pur assicurando che avrebbero funzionato.
In fin dei conti, già in precedenza aveva assicurato il successo, e non era mai venuto meno alla sua parola. Christine si fidava di lui.
Scesero di sotto, dopo aver aperto la botola tranciandone il lucchetto con dei tronchesi.
Di sotto era buio. Hortense accese una pila. La visione fu d’un tratto chiara.
Pacchi e pacchi di cocaina.
-Con i gentili omaggi di Boniface, presumo.-, sussurrò la nera con la pila in pugno.
-Ce n’è abbastanza da soddisfare tutti i tossici di Miami.-, mormorò Marcel.
-Non esageriamo.-, rispose Jean, -E comunque, va distrutta.-.
-Esatto. Muoversi. Jean, prepara il botto, Hortense, va di sopra, controlla che nessuno ci venga a sorprendere. Jean, seguila. Gli altri perquisiscano in fretta il sotterraneo.-, ordinò Christine Buenariva. Il tono da generalessa non le si addiceva ma tutti obbedirono, a riprova della loro lealtà.
-Qui non c’è più nessuno.-, mormorò Julie. Stringeva una pistola e si faceva luce con una pila.
-Controlla lo stesso.-, ordinò Christine, -Jean, per quanto ne hai?-, chiese.
-Ancora qualche minuto. Avremo dieci minuti per andarcene a partire dal via.-, rispose questi.
-Molto bene.-, disse la nera, -Muoviamoci.-. Uscirono lentamente. Jean fu l’ultimo.
Una volta usciti, presero il corpo di Antonio portandolo fuori, oltre il muro.
Continuarono ad inoltrarsi tra le rovine di quella sorta di villaggio devastato, finché non sentirono l’esplosione. La chiesa parve tremare.
Christine annuì. Antonio era morto e non c’era nulla da dire al riguardo, ma loro ce l’avevano fatta. Ora…

Il filo logico dei suoi pensieri fu interrotto: dalle macerie emersero figure, spettri. Uomini in vesti normali, ma non haitiani. Latinos. Tatuaggi e catene al collo. Gangstar del sudamerica, soldati da cloaca, avanguardie del putridume tossico. Mitragliette e pistole puntate.
Jean tentò di reagire. Si beccò un proiettile in testa dopo una raffica che abbatté uno dei nuovi arrivati. Hortense cercò di ripararsi ma fu centrata da un proiettile. Christine si voltò piano, senza fretta. Guardò dietro di sé. Julie e Marcel avevano le armi puntate. Su di lei.
-Lo sapevi?-, chiese la traditrice.
-Lo immaginavo.-, disse Christine. Nessun’emozione, solo consapevolezza.
-E questo rende tutto più semplice.-, commentò Marcel, con una certa soddisfazione.
-Posso capire Julie, anche se ciò non toglie che la ucciderò, ma tu? Che motivo avevi di farlo?-, chiese la nera mentre i latinos si avvicinavano. Ne contò dieci. Non si mosse. Lasciò che Julie le togliesse la pistola e il machete. 

-Occasioni, mia cara. Non guadagno più come un tempo e, detto francamente, Haiti è una cloaca, con o senza la droga a circolare in questo buco. In più, con i soldi di Laffort, finalmente potrò andarmene.-, disse.
-Boniface Laffort non ti darà proprio niente, Marcel. Sei un venduto, un illuso.-, replicò Christine in tono calmo. Sentì le mani di uno dei gangstar perquisirla indulgendo sull’interno coscia e sul seno. Palpeggiavano e cercavano di umiliarla. Vano. Christine c’era già passata.
-Basta.-, ordinò Julie, -Preparatela.-.
-Vi ritroverò. Vi ucciderò tutti.-, sibilò la nera. Julie sorrise. Prese una siringa dalla mano di uno dei latinos. Arrivò faccia a faccia con Christine. Puntò la siringa controllando l’ago.
Qualcuno immobilizzò la nera con una presa degna di un maestro di Ju-jitsu. Lei emise un ringhio inarticolato. Julie le piantò la siringa nel collo e pigiò lo stantuffo.
-Abbastanza improbabile.-, rispose mentre iniettava il liquido nel corpo della prigioniera.
Il mondo di Christine si dissolse in un deliquio di colori e forme indistinte.
Prima di svenire, riuscì a imporsi l’imperativo fondamentale, una linea da non superare. Non sarebbe crollata. Non importava cosa le avrebbero fatto: lei non sarebbe crollata.
In fin dei conti, la tortura non era nulla di nuovo. Era un baratro noto.

 

L’alba.
-Ce l’abbiamo.-, disse Boniface. Lucia osservò le carte. Ancora la stessa lettura. Si ripeteva come una moviola, un chiaro segno dell’ineluttabilità dell’esistenza. Eppure c’era qualcosa di nuovo ora. Un re di spade.
-La dovrai interrogare tu, lo sai?-, chiese Boniface. Lucia distolse lo sguardo dalle lame disposte sul tavolo. Sorrise ferocemente.
-Lo so. Non ti deluderò. Tempo tre giorni e saprai tutto quello che c’è da sapere su di lei.-.
La sua risposta fece sorridere il fratello che le accarezzò appena la schiena.
-Devi scoprire chi la manda, con chi agisce. So che una volta aveva un’organizzazione nella Repubblica Dominicana ma tutto ciò che rimaneva di essa l’abbiamo sgominato oggi.-, le ingiunse Boniface Laffort. Lucia sorrise.
-Ti ho mai deluso, tesoro?-, chiese protendendosi a baciarlo. Il fratello lasciò che lei dettasse il ritmo di quel bacio. Si staccarono pochi istanti dopo.
-Mai.-, ammise. Lucia riordinò il mazzo di lame e prese a mischiarle piano, con riverenza.
-Christine Buenariva è una bestia rara. Sono in parecchi ad avercela con lei. Tra questi anche i responsabili di una tratta d’armi australiana, furenti per aver perso per mano sua un elemento chiave della loro organizzazione. Potremmo vendergliela. Pagherebbero profumatamente la possibilità di vendicarsi di lei.-, suggerì la donna mentre rimetteva i tarocchi nella loro scatola.
-Ti sei informata.-, disse Boniface.
-Sì.-, ammise lei, -E ti confesso che forse dovremmo preoccuparci. Christine non si spezzerà facilmente. E non riesco a capire alcuni dettagli della sua storia. Era presente in quella Città, dov’è successo quel casino e la polizia è stata massacrata dalla folla…-.
-Uccidila. Una volta che avrà parlato falla fuori.-, ordinò Boniface con veemenza a stento trattenuta. La sorella lo fissò.
-Cosa sai che io non so?-, chiese Lucia, indispettita da quel cambio d’umore.
-Christine non è una bestia rara. È una sopravvissuta, una predatrice del vertice, una cazzo di psicopatica assassina. Ho avuto accesso a qualche informazione riservata su quanto accaduto in quella città. Se quel che mi hanno riferito è vero, non possiamo correre rischi.-, rispose il gangstar. Si mise il soprabito bianco.
-I tuoi elettori ti aspettano.-, disse la sorella con un sorriso, -Dove l’hai situata?-, chiese.
-In un luogo sicuro. In un vecchio monastero in rovina.-, disse Boniface, -Ti ho già inviato le istruzioni.-. L’uomo si voltò piano, raccapricciante lentezza.

-Deve cedere il prima possibile.-, ordinò.
-Cederà.-, promise Lucia.

 

I baratri sono infiniti, profondità imperscrutabili, abissi di oscurità.
Christine li conosce. È da quando quel porco di vescovo l’ha violentata che li conosce.
All’inizio c’è la paura, il terrore, poi la rabbia, e oltre ancora, solo la nuda consapevolezza.
Non c’è più difesa. Non importa quanto si sia forti: l’oscurità ti avvolge, ti penetra.
E il male, quello degli uomini, ti si rivela con agghiacciante chiarezza.
Alla fine, diventi la somma di ciò che ti viene fatto. E rimane un solo imperativo: emergere e sopraffare. Christine aveva scelto di non essere più vittima. Per questo, a ogni nuovo orrore, aveva opposto una volontà via via più forte, implacabile.
Lentamente ma inesorabilmente aveva costruito una fortezza, seppellito le sue emozioni dietro l’odio gelido di chi ha già visitato l’inferno e ne è uscito.
Stupri, botte, persino il cazzo di annegamento simulato. Tutta roba che aveva già visto.
Il segreto era sempre quello: uscire da sé stessi, diventare spettatori esterni delle sofferenze.
Smettere di vedere sé stessi come il corpo e iniziare piuttosto a lasciarsi assorbire dall’ambiente, dissociarsi sino a non provare più niente.
A quel punto, i più gettavano la spugna: gli stupratori continuano finché non godono o non ti spezzano. I torturatori (quelli bravi) capiscono che se muori non puoi più rispondere e i bastardi che ti pestano normalmente si fermano, intimoriti dal fatto che non reagisci.
Il più delle volte, quell’abilità costituiva il modo in cui Christine ribaltava la situazione.
Qualcuno commetteva un errore e lei ne approfittava, oppure arrivavano a salvarla.
La cella odora di vecchio, muffa. L’aria è fresca e da refrigerio. Christine sa di essere nuda. Tenuta in sospensione dalle corde che la legano braccia e gambe al soffitto e alle pareti, è esposta agli sguardi occasionali dei carcerieri, e alle loro battute.
Non le importa: lei non è lì. Lei è la fuga sconnessa tra due piastrelle, è la macchia di muffa nell’angolo, è il lampeggiare timido e intermittente della lampadina.
Lei è altrove. È l’altrove. Così, quando finalmente la porta della cella si apre ed entrano due guardie e una nera dagli occhi bicolori, lei non reagisce.
-Christine Buenariva.-, dice la donna mentre le guardie escono, -Una leggenda. Uno spettro.-.
La fissa, gli occhi che la fissano nei suoi, nessuna reazione per un lungo istante.
-Conoscevi bene Amour Mirabelle, vero?-, chiede retoricamente la donna. Nessuna risposta.
-Sì. La conoscevi, la servivi anche. Poi l’hai tradita. Io e Boniface sappiamo tutto. Sappiamo che eri col Giustiziere, forse lo sei ancora.-, continua la sconosciuta. Il suo sguardo scende lungo il corpo di Christine che non reagisce. Lei non è lì, continua a ripeterselo.
-Molto sgarbata, Christine.-, sibila la donna, -Fossi in te comincerei a parlare.-.
Silenzio, ancora. Christine lascia che la donna parli, lascia che tutto passi.
-Io sono Lucia Laffort, la sorella di Boniface. Sappi che qui non ti troverà nessuno.-, la donna si sposta, vicinissima, Christine sente il fiato caldo di lei all’orecchio.
-E sappi anche che mi implorerai di porre fine.-, sibila. La frase è seguita da un osceno tocco. La lingua di Lucia le sfiora l’orecchio, provocandole un sussulto e un brivido.
-Ho letto che le donne non ti dispiacciono. Chissà se posso convincerti a parlare in questo modo?-, inquisisce Lucia. Sfiora appena il seno di Christine con una mano.
La nera si concentra sull’angolo. La luce traballa. Sì spegne e riaccende. Sbalzi di corrente.
Forse voluti. Le carezze sul seno si accentuano. Il corpo della prigioniera inizia a rispondere.
-Forse dovrei strappartele.-, pondera con noncuranza Lucia. Christine sorride.
Anche questo è un gioco già noto: il bastone e la carota. In una versione oscena e terribile.
Nondimeno non è nulla di nuovo. Il sorriso dura un istante, ma basta.

-Credi di poter resistere?-, la donna sorride, -Vedremo.-.
Il lampo argenteo arriva poco prima del dolore. Un coltello nascosto abilmente e usato con perizia. Il taglio sul petto appare all’improvviso, un bruciore subitaneo che incendia le terminazioni nervose. Christine emette un verso dolente.
-Questa invece la dovresti conoscere.-, dice Lucia. È una foglia, e sì, Christine la conosce.
-Brûlé deux-bords.-, riesce a dire.
-Già. Allora sai che appoggiata sul tuo taglio da questa parte, dà sollievo.-, la appoggia sul petto di Christine, sfiorando provocatoriamente il seno di lei.
-Dall’altro lato invece brucia. Che ne dici di iniziare a dirmi chi ti manda?-, chiese Lucia.
-Fottiti.-, sibila Christine. È questione di un attimo. Poi la foglia viene girata e premuta.
E il grido di dolore di Christine viene spento in malo modo: uno straccio umido le viene gettato sul volto. Il metodo darebbe lo stesso risultato del Waterboarding se non fosse che è almeno due volte peggio. La giovane tenta di respirare. Annaspa e tossisce. Lo straccio viene tolto. La foglia è ancora girata. Il petto le brucia come fosse in fiamme.
-Seconda domanda: cosa sai di mio fratello?-, chiede Lucia. Silenzio, Christine respira a grandi sorsi, consapevole che altro dolore è previsto, è un copione che già conosce.
-Come vuoi.-, Lucia si china. Esamina le gambe della nera con piglio quasi professionale.
Per un istante, Christine si chiede se non voglia tagliarle le grandi labbra o il clitoride.
-Questa sarà… spiacevole.-, la voce di Lucia le giunge distante. Poi sente il bruciore sotto ai piedi. La troia le ha tagliato le piante dei piedi. Tagli poco profondi, roventi solchi di dolore.
-Non è abbastanza da storpiare, ma potrebbe divenire tale.-, Lucia si rialza, Christine emette un verso d’odio. L’altra sorride. Le accarezza il viso, scendendo lungo il collo.
-So che tutto questo non è niente di nuovo. Ti hanno già fatto tutto ciò. Ora quindi chiediti…-, la carezza affonda nella trachea, comprimendola col pollice mentre la mano le ghermisce il collo, per un istante la priva del respiro. Christine ansima, -Fin dove posso arrivare?-, la presa si apre. Aria! La nera inspira. Non gliene frega nulla, nulla! Non cederà!
-Vedi, la scelta è tra il dirmi tutto e la possibilità di salvarti, o il tacere con la consapevolezza che ti farò implorare pietà.-, spiega Lucia. Ancora nessuna risposta.
-Capisco.-, sussurra la sorella di Boniface. Esce dalla cella dopo aver proferito tale frase.
Christine espira e inspira, riporta sotto controllo il suo corpo, lascia che il dolore passi.
È sola, senza aiuti. Quante possibilità ci sono che i suoi alleati la raggiungano? Poche.
Dovrà resistere. Resistere e trovare un modo di fuggire!

 

-Avete fatto un buon lavoro.-, disse Boniface Laffort.
-È stato un piacere.-, rispose Marcel, -Suppongo che ora ci darai quanto pattuito.-.
Il timore che quanto profetizzato da Christine si avverasse aleggiò nell’aria per qualche istante. Julie, seduta accanto a Marcel sorrise nervosamente.
Entrambi sapevano bene che se il gangstar avesse deciso di eliminarli ci sarebbe stato ben poco da fare. Erano disarmati e in una stanza con due guardie armate e l’uomo che aveva il potere di cancellarli dalla faccia della terra. Boniface sorrise, affabilmente.
-Sono un uomo di parola.-, disse. Aprì la ventiquattrore che era rimasta sul tavolo.
-Cinquantamila dollari.-, dichiarò mostrando le banconote.
Gli occhi di Julie s’illanguidirono, un verso di stupore deliziato le uscì di bocca.
Marcel sfiorò appena le banconote. Tutte vere, nessuna contraffazione, almeno stando alla sua esperienza, che comunque poteva garantire l’elevata qualità di un eventuale falso in questo caso. Se quelle banconote erano false, persino un esperto avrebbe avuto difficoltà a dirlo.

-È stato un vero piacere fare affari con voi. Mi sono preso la libertà di riservarvi due biglietti per il Brasile. Vi conviene sparire per un po’, non sia mai che eventuali soci di Christine si facciano vivi…-, il tono di Boniface divenne quasi quello di un ordine. I due annuirono.

 

Christine aveva tentato di dormire. Inutile sforzo, considerando la musica metal sparata da altoparlanti. Metodo da Guantanamo applicato a meraviglia. Massima pressione psicologica. La strega le aveva portato una bottiglia d’acqua. Il sapore era normale, quindi aveva bevuto, decidendo di fregarsene se fosse stata avvelenata o meno. Ma era pressoché sicura che non lo fosse: già era a digiuno e priva di sonno, avvelenarla sarebbe stato un rischio.
-Sei stanca.-, la voce di Lucia le proviene dall’ingresso della cella. Christine riapre gli occhi.
Nessun’idea su quanto tempo sia passato. È un’ennesima dimostrazione della professionalità di quella maledetta e dei suoi soci nell’ambito della persuasione coercitiva applicata.
-Se parlassi potrei considerare l’idea di farti dormire, di più: potresti persino avere cibo. Magari del pollo. Mi pare che ti piacesse, o era prima che quel bastardo ti stuprasse?-, chiede la voce. È derisoria, da un certo lato. Ma soprattutto, Christine si domanda come sia possibile, come quella troia sia riuscita a sapere.
Evidentemente ha avuto accesso a documenti di un certo spessore…
-Ricerche personali di Amour Mirabelle. Era molto metodica nel cercare informazioni e le ha lasciate in modo da poterle consultare, considerando che mio fratello era un suo contatto.-, risponde Lucia con un ghigno fiero e derisorio a un tempo, -Sappiamo tutto di te.-, altri passi.
Ora Christine la sente. È vicina. Dietro di lei. La mano della troia le accarezza la schiena, arriva sino ai glutei, sente le unghie graffiarla appena, un rito perverso, osceno, parodia saffica di violenze già subite, orrore ridestato da baratri di tenebra. Stringe i denti e i pugni sino a sentir dolore i primi e ad affondarsi le unghie nei palmi delle mani.
-So chi è stato. Marcos, il vescovo di quella Città, che tra l’altro hai ucciso. E so chi altri ti ha fatto questo.-, sussurra Lucia. Un dito di lei le esplora piano il solco delle natiche.
Christine cerca di estraniarsi. Ha già avuto un’esperienza simile. E stavolta, sente che sarà anche peggio: la fottuta coreana che l’aveva torturata a quel modo l’aveva fatto per uno scopo ben preciso. Voleva scatenarla. Aveva voluto solo questo.
Ma Lucia… Lei sembra determinata a spezzarla. Il dito invasore accarezza, piano, viola.
-Allora c’è solo una cosa che non sai.-, si permette di dire Christine. La voce è sibillina. Troppo tempo a urlare a causa della cazzo di foglia a doppio bordo, troppe grida dovute al fottuto lavoro di coltello fatto da Lucia sulle sue braccia e sulle sue gambe. Tagli superficiali. Medicati rapidamente, per non correre rischi d’infezioni. Una tortura subita ore fa o forse il giorno prima. E troppo poca acqua. Ma Lucia sente. Lucia ascolta.

-Non sai quanto in là posso andare. Il dolore è un vecchio, vecchissimo, amico.-, riesce a finire.
-Oh, lo so bene! So che ti hanno fatto. Ma tu sei una dura. Il dolore non ti spaventa. Non ti terrorizza. Anzi, forse credi di averlo superato. Sicuramente il tuo corpo sa fronteggiarlo.-, la voce di Lucia diviene un sibilo, un soffio caldo sull’orecchio della prigioniera.
-Ma il piacere? Il sapere che il tuo corpo cede anche se la tua mente non vuole? Come sarebbe?-, chiede la strega accarezzandole il seno piano. Christine ora tace.
Non può, non vuole contemplare una simile ipotesi. Perché l’ultima volta che ha subito una cosa del genere… I ricordi affiorano e spariscono come onde nella risacca della sua mente.
-O forse, dovremmo provare qualcos’altro.-, sussurra Lucia. Prende qualcosa da un carrello in ombra. Lo solleva. Una frusta. Code multiple, cuoio con punte in… cosa? Metallo? Legno?
O qualcosa di peggio? Christine tira un sospiro di sollievo: il dolore lo conosce, lo può arginare, lo può contrastare. È un nemico noto. Ma il sorriso di Lucia cambia tutto. La troia posa la frusta e  si avvicina, troppo. Christine si accorge che, protendendosi potrebbe morderla. Se ne accorge tardi, a causa della stanchezza e del mancato, bramato, riposo.
Il bacio sulle labbra è violento, la nera si oppone, cerca di mordere quelle labbra, di evitare le mani che le indugiano sul seno e tra le cosce, ringhia soffocata da quel bocca a bocca imposto che, in qualunque altra situazione, sarebbe addirittura gradito…
Ma non in quella. Mai in quel frangente. No: lì non ci sono amanti, solo inquisitrici e carnefici.
Rapida, Lucia fa un passo indietro. Christine lotta contro le catene, si sforza di ignorare il languore che si risveglia dentro di lei, destato dall’abile tocco della strega.
-Maledetta puttana!-, esclama, il viso deformato dalla rabbia. Lucia le sorride.
-Posso spalancare la porta dei tuoi incubi, Christine, Posso farti rivivere tutto quanto.-, sussurra mentre alza qualcosa alla luce. Il tremolio della luce è poco e la prigioniera riesce a vedere. Una boccetta di qualcosa.
-Tintura vegetale Hopi. In realtà contiene sostanze psicotrope che, combinate con altri estratti, ha creato questa bellezza. Un tuffo nella tua memoria.-, il sorriso della sorella di Boniface ora è smagliante, spietato, assoluto.
Christine la fissa. Ora la sua tattica di annullarsi non funziona: deve cambiare metodo.
-Il passato è passato. Io sono viva, loro no.-, dice, ostentando spavalderia
-Oh, sicuro. Ma quello che ti hanno fatto?-, chiede Lucia, -Non lo potrai mai dimenticare.-.
-Non ho bisogno di dimenticare. Ho vinto. Non possono più ferirmi.-, replica la nera.
-Già. Ma il ricordo ti turba, vero? Marcel e Julia ci hanno detto parecchie cose interessanti.-, il tono della bastarda ora è divertito e intrigato, -In realtà sappi che nutro una certa stima per te. Per questo ti chiedo di parlare. Chi ti manda, per chi lavori e perché volete colpire Boniface. In cambio te ne potrai andare libera. Forse anche con qualche tangibile ringraziamento da parte nostra, anche se dubito fortemente che ciò t’importi.-. Il silenzio è l’unica risposta.

 

Marcel sospirò. Guardò i soldi e guardò Julie. Una nuova vita. Per tutti e due.
Forse insieme? In fin dei conti è stata lei a parlargliene, tra un amplesso e l’altro, molto prima che la missione iniziasse. Metodica, totale e assoluta scienza del tradimento.
Magistrale. Julie separa una mazzetta dalle altre. La infila in una busta, chiude e mette la busta sulla mensola di casa. Per i genitori, sicuro. Marcel non si pose domande. Non era lì per quello.
Non gli interessava capire. Voleva solo raggiungere l’aeroporto e il Brasile.
Adios a todos los cabrones!
Sorrise al pensiero. Spiagge chilometriche, ricchezza, un nuovo inizio, lontano da quella cloaca emorragica a cielo aperto che era Haiti.
Lontano dell’ossessione sanguinaria e immotivata di Christine Buenariva.
Lontano dagli incubi e dagli abissi.

 

-Vedo che non mi lasci scelta, Christine. Mi spiace.-, il tono di Lucia è veramente dispiaciuto.
Christine non parla, non la guarda. Cerca di concentrarsi su altro, di uscire da sé stessa.
Il ceffone la riporta brutalmente al corpo, solo per un istante, ma più che abbastanza.
Lucia le stringe il viso. Afferra un pugnale. Gli occhi di Christine s’ingrandiscono, comprende. Ma sa che non può evitare il dolore. La sofferenza è inevitabile.
Forse è la sua unica moneta di scambio col Fato. O forse no. Il pugnale viene posato.
Lucia sorride, malevola. Ha capito, ora Christine lo sa, ha compreso.
La prigioniera si prepara, racimola le poche forze rimaste per riuscire a evitare di disperare.
Sa cosa sta per arrivare. Lo sa benissimo. E ne ha paura per ciò che rappresenta.
Ma non solo: sa che dopo quello ci sarà l’ultima tortura, l’estrema agonia. Il memento.
Lucia sorride maleficamente. Si avvicina piano, lentamente. Una leonessa in avvicinamento a una gazzella immobile, paralizzata dal timore…
O almeno così avrebbe amato credere. Christine tuttavia non è terrorizzata.
È solo consapevole, troppo, atrocemente conscia di quanto vicina fosse l’ultima umiliazione.
Crollare era da sempre fuori questione, ma stavolta resistere le costerà tutto.
Ma aveva scelto già da quando era stata catturata. Resistere e fuggire.
Ora deve solo accettare. Riconosce, fare sua quella semplice verità.

Inspira ed espira ancora. Un refolo d’aria per un breve istante soffia, portando refrigerio al suo corpo stanco. Fronteggia la sua inquisitrice con uno sguardo d’acciaio

 

Marcel sorrise, o almeno ci provò. Julie lo vedeva decisamente turbato.
Poteva immaginarne la ragione: l’ordine di Boniface era stato perentorio, una sentenza sebbene certamente fosse a loro favore, piuttosto che un cortese dono avvolto da un suggerimento di cautela. Evidentemente il gangstar non li voleva più intorno, poco male.
Li aspettava una nuova vita in Brasile! Realmente doveva compiangere il fatto di non poter restare ad Haiti? No! Era ricco e felice.
Julie non capiva che diavolo avesse Marcel. Si rilassò mentre l’uomo guidava lungo le strade in direzione dell’aeroporto di Port-au-Prince.

 

Non riposano in pace.
I morti sono lì, attorno. Christine lo sa bene, ne sente la presenza. In quella cella, tutti i maledetti bastardi fantasmi del suo passato sembrano essersi dati convegno per denigrarla.
E Lucia, immobile davanti a lei, sorride. Ride.
-Vedi, io non ti farò del male. So che la sofferenza fisica non ti smuove.-, spiega con voce calma. Beve da una bottiglietta d’acqua. Gonfia le gote sotto un sorso smisuratamente lungo.
E sputa in faccia a Christine Buenariva. La giovane non fa una mossa. Acqua e saliva le grondano dal volto e dai cappelli. Immobile, assolutamente immobile.
-Ma il dolore… ha molte sfaccettature. E posso garantirti che ho i mezzi e il tempo per fartele esplorare tutte quante.-, continua Lucia. Ora c’è un sorriso contorto sui suoi lineamenti. 

Un sorriso bramoso. Sadico. Si avvicina di nuovo. Christine si prepara. Sa che cosa la aspetta.
O almeno lo immagina. Si domanda se gli altri del gruppo stiano cercandola o se invece la diano per morta. Non è così rilevante. Essere sola in mani nemiche è stata una costante della sua vita. Non la spaventa mica. Ma quello… quello che viene dopo, inquieta.
-Esistono baratri noti e meno noti, sorella.-, la voce di Lucia ora è al suo orecchio, il fiato caldo percettibilissimo, oscenamente vicino. Ennesima dimostrazione di oltraggio prossimo.
Christine espira. Inspira, tentando di ignorare l’usta presente nella cella, la consapevolezza della stanchezza, finanche l’odore nient’affatto gradevole dell’angoscia, aleggiante nell’aria.
Null’altro che silenzio avvolge la cella. Persino la musica metal pompata lungo tutta la notte è andata. Christine non sa quanto tempo è passato, più di un giorno, forse anche due.
Il tempo non ha motivo di esistere all’inferno, neppure nell’anticamera dell’abisso.
-E ora, Christine… Perché non ne esploriamo qualcuno? Insieme…-, la voce di Lucia ha ancora quella nota suadente, lasciva, quella promessa oscena che Christine percepisce come un oltraggio prima ancora di qualunque altro, prossimo o presente.
-Dimmi ciò che sai, e i baratri finiranno. Ora. In questo istante. Oppure…-, la voce di Lucia ridiventa un sibilo, refolo di una maligna brezza, -Oppure pregherai di non fare ritorno dai più profondi in cui ti spedirò.-. Christine la guarda. Sa che non sta bluffando. Lei e Boniface hanno paura, timore che lei abbia qualcuno alle spalle. Le info e quella tortura sono solo precauzione, istinto di conservazione al massimo grado, ignaro e incurante delle conseguenze.
Il fantasma di Amour Mirabelle passa davanti agli occhi stanchi di Christine Buenariva.
La nera stringe la mascella, bandisce la disperazione. Scuote il capo. Non sprecherà fiato.
Potrebbe servirle dopo, ad urlare la sua sfida dal fondo dell’ultimo baratro.

Marcel sospirò. Erano partiti. Primo scalo a Rio, poi avrebbero cercato una sistemazione brasiliana. Nessun’estradizione. Fine dell’incubo, almeno per loro.
Julie, accanto a lui, dormiva. Avrebbe dovuto  tentare di farlo anche lui. Ma non ci riusciva.
Le ultime parole di Christine gli aleggiavano ancora in testa, lo tormentavano.
Non poteva fare a meno di pensarci: erano state dette con fredda certzza, senza la rabbia che Marcel si sarebbe aspettato. Troppo, troppo maledettamente fredde per prenderle alla leggera. Cercò di dormire.

 

-Allora?-, la voce è calma, una sola parola, rapida.
-Sì. Ce l’abbiamo.-, l’altra voce è di un uomo.
-Abbiamo il luogo?-, domanda assolutamente calma.
-E anche il tempo. Equazione al completo.-, risponde la voce dell’altro.
-Tempo di muoversi.-, risponde la voce.
-E.T.A. 24 minuti al punto d’imbarco. Sto tracciando.-, risponde l’altro.
Roger that. Ci muoviamo.-.
La comunicazione termina rapidamente.

 

C’è solo tenebra. L’inizio è sempre quello. Oscurità. Lo è da sempre. La luce, quale che sia, arriva dopo. La tenebra è lo status nascendi dell’universo, a tutti i livelli. Di ogni universo.
Anche nella vita di Christine la luce è arrivata solo dopo l’oscurità. Inutile lottare dunque contro tale verità. L’impossibilità di combattere e smentire l’assioma porta ad accettarlo.
Christine sentì le mani e la bocca della sua nemica sondarle il corpo, accarezzarla, risvegliare desideri proibiti e contrari alla sua volontà, eppure innegabili. Si sforzò assolutamente e totalmente di estraniarsi da sé stessa, di sottrarsi a quell’ignobile attacco alla sua dignità.
In realtà, lo sapeva bene, non c’era realmente difesa. Solo coesistenza, accettazione.
Finanche dell’oltraggio definitivo, perfino di quell’ultima umiliazione così orribilmente gradita al suo corpo ma tremendamente vana per la sua mente. La nera sentì le dita della donna accarezzarle la vulva, stuzzicare desiderio, brame. La guardò negli occhi. Lucia sorrise.
Una mano sfiorava piano l’intimità di Christine, l’altra affondava tra le cosce della strega, aperte che gemeva appena toccandosi, gli occhi bicolori socchiusi. Nessuna guardia in vista. Non era uno spettacolo a beneficio dei vari sorveglianti di quel luogo oscuro: era solo per loro due. Un’ultima esibizione di empia e terribile voglia.
Christine suo malgrado sentiva di star godendo. Il suo corpo rispondeva agli stimoli sin troppo sapientemente elargiti dalle dita di Lucia. La troia stava sfiorandole il clitoride, carezzando i seni e le grandi labbra, toccandosi e toccandola. Cercò di evitare, di estraniarsi. Di pensare ad altro. Funzionò solo in parte: il suo corpo la stava tradendo nel peggiore dei modi, e non poteva farci nulla. Ringhiò incoerentemente agitandosi quando sentì un dito di Lucia entrarle dentro mentre un altro le sfiorava ancora il clitoride. Un terzo dito le sfiorò lo sfintere.
-Godi con me, Christine.-, la voce di Lucia aveva una sfumatura roca. Desiderio puro.
Christine Buenariva si odiò per quel momento, il corpo voleva godere, la mente no. Ma non c’era verso di fermare la valanga che la strega aveva messo in moto. Forse aveva messo qualche eccitante nell’acqua? Possibile? Non lo sapeva.
Sapeva solo che stava per venire. Sollecitata dalla sua nemica, dalla sua aguzzina stava per godere come l’ultima delle troie. Era bagnata, sapeva di esserlo. Sebbene cercasse di chiudere le gambe per sbarrare l’accesso al suo fiore, le era impossibile a causa delle catene. Era inerme. Esposta a ogni capriccio della sua torturatrice. La quale, toccandosi e toccandola, a tratti le baciava il seno e i capezzoli, lo stomaco e il ventre. Piano.
Delicata come un’amante e diabolica come un demone.
Un’ultima rotazione del pollice di Lucia sul clitoride, un’ennesima penetrazione da parte del dito medio della strega, che affondò nella sua intimità sino alla nocca, uscì e rientrò due volte.
Christine imprecò. Odiò quel momento, odiò sé stessa. Ma era inutile: il crescendo era prossimo. La stronza dagli occhi diversi ce l’aveva fatta. C’era riuscita.
Christine Buenariva godette con un ringhio che divenne un urlo. Sentì che anche Lucia gemeva, evidentemente godendo a sua volta. Qualcosa di umido lasciò l’interno per l’esterno. Umori, i suoi, espulsi nel godimento. Christine singhiozzò appena, odiando quell’orgasmo, quel languore, il piacere traditore che l’aveva travolta lasciandola appesa alle catene, ansimante, viva ma oltraggiata oltre ogni misura.
Lucia le sorrise. Christine la osservò. Ce l’aveva fatta.
Dopo infinite ordalie, qualcuno c’era riuscito: le era entrata dentro come nessuno stupratore aveva fatto, aveva saputo usare il suo corpo contro di lei. Christine espirò.
Doveva riprendersi! L’orgasmo l’aveva stordita lasciandole solo una parvenza di controllo su sé stessa. Se ora lei avesse osato chiedere, forse… NO!
No! Non avrebbe ceduto. Ma guardando Lucia, la prigioniera si accorse che non era in programma di interrogarla. Non ancora. La strega sorrideva beata.
-Hai goduto parecchio. Bene. Perché adesso…-, si chinò a prendere qualcosa da un carrello in penombra. La luce oscillò, si spense e riaccese. Carenze del quadro elettrico locale.
-Arriva il bello.-, dolore. Un ago piantato nel deltoide. Christine gemette appena.
Poi il suo mondo divenne tenebra e oscurità. In attesa della luce.

 

Boniface sospira. Comizi, riunioni, promesse, elargizioni. Il solito.
L’unico lato positivo sta nel fatto che presto avrà vinto. La presidenza lo aspetta.
E sarà solo l’inizio.
Henry Samson Lincoln l’ha contattato poche ore prima. Un breve accordo. Il gangstar sta arrivando ad Haiti. E dopo di lui arriverà un bel po’ di merce. Droga, da distribuire secondo canali precisi perché raggiunga i consumatori, e anche oltre, in Europa.
E soldi. Fondi per la sua campagna. Per trasformare completamente Haiti.
Da avamposto della desolazione a nuovo stato immagine del centroamerica insulare.
Il fatto che ciò sarebbe stato fatto grazie ai proventi dei traffici di droga non era minimamente un problema: Boniface sa che bisogna sporcarsi le mani.
E questa sua consapevolezza viene dal passato. Da una vita difficile, che l’ha obbligato a divenire ciò che è ora. E sua sorella è sempre stata il suo punto di riferimento.
L’altra metà della sua mela, sin da piccoli. Un’attrazione malsana, irresistibile, da celare.
Un’attrazione che li ha spinti l’una tra le braccia dell’altro, ed entrambi così lontani dalla normalità… Boniface sospira. Tutta la sua vita è stata una lotta. Ma presto la lotta finirà.
E con lui, anche Haiti conoscerà la pace e la ricchezza, il tutto al modico prezzo di diventare un narco-stato legalizzato. Nulla di nuovo, copione già visto in altri stati del mondo.
Tuttavia, sicuramente mai nessuno ha pianificato qualcosa come quello che Boniface sta attuando, ne è sicuro. Sorride.
-È il momento, signore.-, dice la segretaria. Carina, sui venticinque anni.
Boniface annuisce. Il suo pubblico lo reclama. Esce, accolto da applausi scroscianti.

 

Gli occhi si aprono piano. Questa volta nessuna luce. Solo oscurità.
Christine Buenariva si sforza di alzarsi. Fallisce. Sente qualcosa. Le hanno iniettato una flebo.
Soluzione fisiologica? Pentotal? Siero della verità? Droghe psichedeliche? Non lo sa.
Potrebbe anche non essere niente di tutto ciò. O qualcosa molto peggiore.
-Fossi in te non staccherei la flebo.-, voce maschile, accento straniero, un inglese corretto.
Un nuovo torturatore? Christine comprende che la tortura è arrivata a un altro livello.
-Disidratazione, scarso nutrimento… La privazione di cibo, acqua e sonno può sicuramente portare al crollo di un prigioniero ma lo rende anche molto meno ricettivo, al dolore o alle domande. In ultima analisi, lo porta a divenire quasi solo un mero fantoccio di carne, inabile a dare le risposte giuste alle domande fatte.-, la voce dell’uomo ha qualcosa di latino. Brasiliano?
Christine decide. Sente la presenza dell’uomo. È vicina. Si accorge di essere legata alla lettiga.
Nuda? Sì. Ma almeno è sdraiata. Nota anche che le ferite le sono state curate.
-Chi sei?-, chiede. È evidente che Lucia e suo fratello non vogliono che lei muoia senza dare le risposte che cercano. Per questo sono disposti a rimetterla in sesto ogni volta che sarà necessario. Un incubo senza fine.
-Il nome è Lobo. Ma tu puoi chiamarmi Lucas Oviedo Perez.-, dice l’uomo.
-Non sei di Haiti. Brasiliano, vero?-, chiede Christine. L’uomo pare ridere.
-Esatto. Vedo che le voci erano vere. Non sei una pazza squilibrata. E sicuramente hai già provato più dolore di quanto io possa infliggertene.-, passi. L’uomo si sposta. Verso di lei?
No. Più distante. Un click. Luci alogene. Christine chiude gli occhi, abbagliata dalla luce violenta e impietosa. L’uomo emette un fischio.
-Anche una bella ragazza.-, dice. La nera sa, percepisce, che lui la sta osservando, beandosi della sua vista. Lo ignora. Le hanno già fatto tutto. Proprio tutto. Non è rimasto più nulla a sorprenderla. L’ultima sessione di tortura con Lucia l’ha semplicemente umiliata, nulla di più.
-In realtà io sono convinto, assolutamente convinto, che torturarti non servirà a nulla. Come ho avuto modo di capire, ti hanno sottoposta a svariate torture. Non servirebbe farti ripetere roba del genere.-, la voce di Lucas si è avvicinata. Christine finalmente lo vede. Pelle chiara, viso affilato, occhi azzurri e capelli corti. Un militare? Parrebbe. 

-Se pensi che torturarmi non serva a nulla…-, Christine distoglie lo sguardo, cerca di analizzare la scarna cella in cui, salvo la lettiga su cui giace, non vi è nulla, -Perché sono ancora qui?-. In risposta alla domanda, Lucas Oviedo Perez esce dalla cella.
-La domanda è ottima. I miei… clienti, vogliono delle risposte da te. Io sto solo svolgendo un lavoro.-, dice Perez andandosene e spegnendo la luce. Christine sospira.
È sola. E non capisce cosa diavolo abbiano in mente per piegarla. Espira piano, cercando di controllarsi, di mantenere la mente sgombra dall’irrazionale timore.

Nella flebo c’è davvero solo quello? Sali minerali e sostanze nutritive per il suo organismo prostrato? O no? E quel tale Lucas “Lobo” Perez a che gioco sta giocando?
Domande, domande su domande… Christine decide di attendere. Muove piano le dita delle mani e dei piedi. Fitte dalle ferite che Lucia le ha inflitto le rispondono. Bene.
Accetta quel dolore sapendo che le darà la lucidità che le serve.

-Non capisco perché tu abbia scelto di delegare la faccenda a quel tizio.-, la voce di Lucia era un sibilo. Boniface la fissò. Non intimorito, consapevole, conscio.
-Christine Buenariva non si piegherà. Le hai fatto di tutto, e non ha ceduto.-, dichiarò con calma lapidaria mentre accarezzava piano il fianco di Lucia.
-C’erano altri metodi. Ipnosi, elettroshock…-, la nera dagli occhi bicolori sorrise, accolse le carezze che scendevano piano sino al pube. Replicò con una suadente carezza che dal viso arrivò sino al petto del fratello e poi più giù, fino al sesso già eretto a dispetto dell’orgasmo di appena mezz’ora prima avuto con lei.
-Tutti ottimi mezzi, ma potenzialmente pericolosi, lo sai anche tu.-, la voce di Boniface si abbassò appena, mentre la mano che ora accarezzava il pube osava sfiorare l’interno coscia.
Lucia lo fissò, in attesa che continuasse.
-Sebbene quei metodi avrebbero sicuramente funzionato, noi vogliamo che quelle informazioni siano intatte. E magari potremo anche utilizzare Christine in altri modi.-, disse il fratello, chinandosi a baciarla. Il desiderio era nuovamente prossimo a esplodere.
-Tipo?-, chiese Lucia, -Dubito che accetterà di lavorare con noi.-. Boniface le sorrise.
-Ha altri usi, altrettanto proficui, direi.-, sussurrò mentre baciava il collo della sorella.
-Vuoi attirare in trappola i suoi amici?-, chiese Lucia mentre lentamente accarezzava il pene del fratello. Lui sorrise. Era eccezionale a capire ciò che gli frullava in testa.
-Esatto, amore.-, sussurrò lui. Le carezze di Lucia l’avevano eccitato a sufficienza. Sfiorò l’intimità della sorella trovandola bagnata e pronta.
-Scopami, tesoro.-, gli ordinò lei gemendo appena. Lui sorrise. Si mise sopra di lei preparandosi a farla sua.
Mentre la penetrava pensò che nulla poteva andare storto. Un piano a prova di bomba.

Christine Buenariva sarebbe stata tolta di mezzo e con lei chiunque l’avesse inviata.
Il futuro era un’ascesa sicura, verso la gloria e la ricchezza. Affondò nella sorella godendo.

 

Christine era persino riuscita a dormire. Era stato un sonno agitato, funestato da memorie mai veramente divenute tali e da pessimi presentimenti per il futuro. Si svegliò cercando di fare il punto della situazione.
Dovevano aver capito che il dolore non l’avrebbe spezzata, dunque erano passati a un altro metodo. Ma anche quello avrebbe fallito. La domanda era… perché cambiare piano?
E soprattutto perché ora, in modo tanto repentino?
Christine Buenariva riusciva a pensare a una sola risposta mentre osservava la sua nuova cella. Era buio pesto ma gli occhi si erano abituati all’oscurità e ora riusciva a distinguere qualche dettaglio. Innanzi tutto, quella era più grande dell’altra in cui l’avevano rinchiusa.
Secondariamente, quella nuova cella aveva la branda, una flebo e altro.
Il tempo… quanto tempo era passato? Da quanto era prigioniera? Non ne aveva idea.
Erano riusciti a privarla efficacemente del senso del tempo. Condizioni pressoché perfette… se avessero voluto spezzarla. A meno che, ragionò, non fosse mai stato quello il loro obiettivo.
E se invece avessero intuito dell’esistenza di altri suoi complici e la stessero usando come esca? La rivelazione fu seguita dal panico: sicuramente il Giustiziere e i suoi alleati avrebbero potuto ritrovarla, Marco si era rivelato molto abile con i computer, ma come evitare di finire in un’imboscata in piena regola? E soprattutto, come avrebbe potuto lei impedirlo?
Sul momento non poteva fare nulla, e anche se non era più incatenata come prima, l’idea di scappare senza armi né vestiti né uno straccio di piano avrebbe semplicemente implicato una morte, probabilmente rapida e violenta. Avrebbe potuto uccidere una guardia e quel tale Perez, forse anche due o più se fosse stata fortunata, ma tant’era.
Ma così facendo, considerò la giovane, non avrebbero potuto usarla per attirare gli altri suoi compagni in trappola. Scartò l’idea. No. Lei era Christine Buenariva, era sopravvissuta a innumerevoli inferni. Uno in più non avrebbe fatto differenza alcuna. Ne sarebbe uscita viva, come tutto il suo gruppo e per farlo, avrebbe dovuto avere un piano.

Sorrise nell’oscurità: le stavano già venendo alcune idee.

 

Il tizio di guardia non era haitiano. Era un colombiano, si chiamava Delgado.
Il cognome non aveva importanza, non dopo aver abbandonato il suo paese, dopo aver trafugato una discreta somma a un cartello della droga minore ed aver ucciso i quattro sicarios inviati a punirlo.
Sentì i colpi sulla porta da dentro la cella e si avvicinò, pistola in pugno.
-Che vuoi?-, chiese.
-Devo andare al bagno.-, rispose la voce della prigioniera. Delgado non aveva la minima idea di chi fosse o di cos’avesse fatto per finire lì, ma una cosa la sapeva: non ne sarebbe uscita.
-Fattela addosso, puttana.-, replicò lui, -Non posso farti uscire.-.
-E chi credi che dovrà pulire, dopo? Non io di certo.-, ribatté la voce della reclusa.
Imprecando alla volta di quella stronza (che effettivamente non sbagliava: a pulire sarebbe stato lui) e facendo un cenno al suo collega, un haitiano dagli occhi rossi e decisamente poco concentrato, Delgado prese le chiavi della cella. Aprì. La ragazza era davanti a lui, nuda. Un bel bocconcino, con poco grasso e un fisico decisamente apprezzabile.
Delgado ci fece onestamente un pensiero.
-Di qua.-, disse indicandole il corridoio. Lei annuì. Avanzò senza particolare fretta.
Improvvisamente, Delgado sorrise, guardando le natiche sode della nera e tutto quel corpo che gli si offriva. Anche l’haitiano parve improvvisamente interessato.
-Seconda porta a destra.-, disse il colombiano. La ragazza marciò sino a quella porta. Aprì.

La latrina era abbastanza lercia. Una turca per i bisogni della truppa.
-Spicciati: non ho tutto il tempo!-, esclamò lui. Lei emise un ringhio appena percettibile.
No, Delgado lo capì in quel momento: quella ragazza non era piegata, affatto.
La guardò urinare accovacciata alla meglio su quel rudimentale scarico. Si accorse che vederla pisciare non gli dispiaceva per nulla. Sorrise. Gettò un occhio all’haitiano. Prevedibilmente se ne stava fermo tipo stoccafisso. Un idiota come pochi.
Senza smettere di puntare la pistola sulla prigioniera, Delgado se lo tirò fuori. Era già duro.
In fin dei conti che importava? Prese a menarselo davanti alla ragazza. La nera lo fissò senza espressione, senza neppure essere schifata. Delgado le sorrise.
-Sai… potrei renderti le cose più facili se tu fossi un po’ più gentile con me.-, mormorò.
-Mi faresti uscire?-, chiese lei. Lui scosse il capo. Impossibile.
-Non posso. Il capo mi spellerebbe vivo. Ma posso portarti cibo, vestiti, forse anche darti qualcosa…-, si accarezzò il pene con un ghigno lascivo, -Che sicuramente ti manca da un po’.-.
L’espressione della giovane non cambiò, non subito. Poi passò da indifferente a sprezzante.
-Riportami in cella.-, si limitò a dire. Delgado imprecò alla sua volta. La ragazza si alzò.
-Hija de puta madre…-, la rabbia di Delgado esplose furibonda. Afferrò il polso destro della giovane e applicò rapidissimo una leva, costringendola in ginocchio.
-Vediamo se ti piace così, puttana.-, disse piazzandole il pene davanti alla bocca. La pistola fu puntata alla testa della prigioniera.
-Ti apro il cranio se mi mordi, forza!-, esclamò. La prigioniera lo guardò. Ancora nessun timore, nessuna paura. Nessuna pietà. Delgado si accorse che la ragazza non era spaventata, neanche disgustata. Solo indifferente, come una domestica che si accorge della presenza di uno schifoso insetto. Il colombiano sentì la rabbia montare di nuovo.
-Delgado!-, la voce era venuta da fuori. L’haitiano? No. Diversa come voce.
Perez. Il brasiliano. Delgado si paralizzò improvvisamente. L’espressione della prigioniera non cambiò in alcun modo. La giovane si alzò, indifferente alla minaccia posta dalla pistola, uscì dalla latrina. Delgado si sistemò i calzoni e si girò. Il brasiliano lo fissava da dieci metri di distanza, il viso palesemente contratto in una smorfia di rabbia.
-L’ordine è di non molestare la prigioniera, mi sono spiegato, Delgado?-, chiese gelidamente il nuovo arrivato. Il colombiano non rispose. Odiava quel tizio, odiava quella tipa e odiava quell’incarico. Veniva pagato profumatamente però e tanto bastava.
Anche se l’idea di scoparsi quella puttanella gli sarebbe piaciuta non poco. Tanto chi mai l’avrebbe scoperto? Nessuno. E ora, quel brasiliano di merda rompeva il cazzo.
-Assolutamente.-, rispose il colombiano.
-Bene. Pulisci questo cesso.-, ordinò Perez. Delgado digrignò i denti. Era evidentemente una punizione e avrebbe grandemente fatto a meno di doverla subire ma quel bastardo aveva parlato. Andò verso il ripostiglio al piano superiore.

Christine fu condotta a una doccia, una sorta di prefabbricato essenziale auto-sufficiente .  Le fu permesso di lavarsi e persino di asciugarsi. Cosa più importante, la giovane aveva visto che era pomeriggio inoltrato. Non le dava modo di capire quanto tempo fosse passato, ma era un inizio. Ulteriore sorpresa: Perez le elargì anche un asciugamano e un vestito a pezzo unico.
Una grazia dietro l’altra… Ma per cosa? Christine s’impose di capirlo.
Stavano cercando di manipolarla sicuramente. Ma se avesse potuto giocare proprio su questo, avrebbe realisticamente potuto sfruttare la situazione, e magari fuggire.
Poi, contattare gli altri sarebbe stato facile, ma sinceramente lei non intendeva farlo. Non nell’immediato, almeno. Quelli ad Haiti erano conti suoi e suoi soltanto.
-Meglio?-, chiese Perez. Lei annuì. Lui sorrise. 

“Vieni nella mia tana, disse il ragno alla mosca”, pensò la nera. Doveva procurarsi qualcosa da poter usare come arma. Anche se forse non sarebbe stato necessario.
Non nell’immediato almeno. Vide il tizio chiamato Delgado, capelli arruffati e grugno decisamente incazzato marciare verso la latrina con un carrello pieno di roba per pulire.

No: forse non sarebbe servito procurarsi un’arma. Ma sarebbe sicuramente stato meglio.

 

-Obiettivo in vista.-, l’uomo calibra le parole come fossero proiettili.
-Ricevuto. Ostili?-, chiede la voce di un altro uomo.
-Quattro certi. Diversi altri possibili.-, voce di donna, accento appena accennato, -Visuale sul bersaglio.-. Sull’intercom cala un silenzio pregno di aspettativa, attesa di ciò che sarà.
-Ricevuto. Avete il permesso di ingaggiare tutti i nemici accertati, colpi non letali se siete insicuri. Azione chirurgica. Disco verde tra 3… 2… 1…-, la voce dell’uomo ora è calma, priva di emozioni.

Julie Delinès sorrise. La vita era nuovamente stupenda. Quel locale di Rio De Janeiro era alla moda e decisamente piacevole. Lei, nel suo abito nuovo, pareva semplicemente stupenda, vedeva diversi maschi voltarsi a guardarla. Sorrise a uno di loro.
Non sarebbe stato male farselo, o farsene anche più di uno… In fin dei conti erano sotto la protezione di quel socio minore di Boniface, che gestiva quel ritrovo.
C’era gente armata. Bodyguards? No, buttafuori coi ferri, gente pagata per scoraggiare atti di violenza. La polizia, anche più corrotta che ad Haiti, incassava le tangenti e riferiva che là non c’erano traffici di droga o di armi…
Idilliaco sodalizio. Julie pensò che quella vita le piacesse. Molto.
Era giovane, bella e ricca… Cos’altro avrebbe potuto volere?
Si avvicinò al bancone e chiese un cocktail. Il barista le dedicò un sorriso che lei ricambiò solo per convenienza. Quello non era minimamente bello come i machos di poco prima.
Improvvisamente però, l’udito di Julie captò qualcosa. Un suono che all’interno della musica parve totalmente estraneo al presente. L’occhio si mosse nella direzione. Urla. Per cosa?
Non ebbe il tempo di chiederselo. Il lampo bianco a seguire folgorò le sue retine e quelle di tutti i presenti. L’immagine le si impresse a fuoco nel cervello: gente urlante, gente che non capiva e un paio di sicarios che estraevano le pistole, incerti e pericolosi.
Poi, il mondo di Julie esplose.

 

-Azione!-, l’ordine è immediato, l’esecuzione subitanea. Spettri neri escono dalle tenebre.
Jhon Kingsword e Neroko Tsubikome in entrata dalla porta principale. Il bodyguard non è un problema: è legato e imbavagliato in una macchina poco distante. Se avrà fortuna sarà ritenuto sono una vittima innocente. Forse. Comunque poco importa.
L’entrata dei due commando è rapida ed essenziale. Jhon, uomo di punta, apre il fuoco. L’MP5 silenziato erutta piombo a tiro rapido. Rimuove dall’equazione due bersagli che cercano disperatamente di reagire. Colpi letali alla testa e al petto. Neroko, uomo pari per l’irruzione a due, arriva subito dopo.
Colpi altrettanto letali e altrettanto silenziosi: il suo fucile è un HK 416 versione corta da commando. Il barista impugna un revolver, spara due colpi. Manca i bersagli. Una raffica corta lo schianta contro lo scaffale ripieno di bottiglie che finiscono a terra con lui.
Rapidissimi, i due uomini fluiscono all’interno. I civili urlanti (innocenti o meno) scappano urlando o implorano pietà restando fermi, presi dal panico in ambo i casi. Tutti quelli che si muovono e rimangono nel locale sono dunque per definizione, ostili da rimuovere.
La seconda entrata è da un punto diverso: una delle pareti semplicemente esplode.
Esplosivo da irruzione. Roba da forze speciali. Impossibile da ottenere? Non per loro.
L’uomo noto come il Giustiziere fa la sua comparsa attraverso il varco. L’arma nelle sue mani non è molto diversa delle altre. Beretta PMX, utilizzata dall’Italia dal 2018
I tre sicari e la puttana con la pistola assiepati in un angolo si voltano, tentano la reazione.
La raffica è impietosa, li falcia senza alcuna possibilità di salvezza, un vento rovente.
Tuoni, urla, caos. Un tizio con la divisa da poliziotto alza inutilmente una pistola. Si becca un piombo in testa. Nessuno sconto e nessun timore di ripercussioni. Loro non esistono.
Nô Mistutune, giusto dietro al Giustiziere, è altrettanto chirurgica.

Il suo MP9 è compatto ma non ha nulla da invidiare alle armi del resto della squadra. Colpi rapidi e diretti al centro di massa. Un grassone con un’Ingram incassa al petto e cade premendo il grilletto. Raffica al soffitto.
Una donna con un revolver vola all’indietro prima di poter sparare a Neroko. È l’ultima. Il resto degli ostili è a terra. L’azione è durata poco più di venti secondi.

 

Julie credeva in Dio. Ma non avrebbe mai creduto di dover aggiungere ai suoi vari attributi quello di distruttore. È distesa a terra, prona. Si è buttata a terra quando quel lampo l’ha privata della vista. Istinto fondamentale che forse le aveva salvato la vita.
Qualcosa le cola sulla schiena. Il vestito che la avvolge ora è un fottuto straccio lurido di sangue e altre cose. Alcune cose non dovrebbero esserci. Budella… Accanto a lei, a pochissima distanza, un ragazzo vestito di cenci laceri e grondanti piange implorando pietà.
Una donna, in direzione opposta, sembra sussultare. Tra le sue dite c’era ancora una pistola.
Un colpo di tosse appena accennato e la donna smette di muoversi. E la pistola è ancora lì.
Julie si sforza di pensare, di analizzare. L’attacco è stato chirurgico. Quanto tempo è passato?
Un minuto? Due? Gli attaccanti hanno perso qualcuno? Attraverso il temporaneo effetto larsen indotto dalla flash-bang (perché questo doveva essere stata), Julie sente che uno di loro sta dando ordini. Altri colpi di armi silenziate. Gemiti e versi agonici. Il bar ora sembra una provincia dell’inferno. Corpi a terra, sangue sulle pareti, sui corpi, su di lei. Odore da vomito e un silenzio che, in confronto alla cacofonia di poco prima può solo inquietare.
Julie non sa chi siano questi tizi, non ne ha idea. Tutto ciò che sa è che deve restare immobile.
Nota che molta gente manca all’appello. Fuggita? Forse. Allora…
Si permette di sperare. Forse non sono lì per lei. Forse la considereranno un ostaggio.
O magari la lasceranno stare e basta. Possibile? Sicuramente auspicabile.

Forse dovrebbe alzarsi e implorare? Ma che succederebbe se quelli fossero solo dei mercenari con l’ordine di infliggere un colpo a un rivale? Se ne fregherebbero dei danni collaterali, no?
Julie conosce la violenza, la banda di Christine l’ha applicata spesso e volentieri ma mai, mai così. Quel raid è stato preciso, fottutamente chirurgico ed essenziale. Roba da forze speciali.
-King, alla porta.-, ordina quello che sembra il capo. Movimento. Uno degli spettri raggiunge l’ingresso principale. Sembra ascoltare qualcosa, il capo inclinato verso destra. Poi si volta.
-Horst parla di almeno cinquanta elementi in arrivo. Ostili. Siamo in zona calda.-, dice.
-Ricevuto. Evac tra un minuto.-, risponde quello che sembra il capo.
Julie si permette di sperare. Deve solo restare immobile e fingersi morta. Un minuto.
Deve farlo solo per un minuto, poi potrà alzarsi e scappare a gambe levate, pregando di riuscire a tornare alla sua abitazione che condivide con Marcel.
Il come tornare e cosa dire sono problemi lontanissimi. Un minuto. Deve stare immobile…
Passi. Uno degli spettri cammina lungo il bancone. Improvvisamente, Julie è terrorizzata.
Più di prima. Il commando è a pochissima distanza da lei. S’impone di resta immobile.
Morta, lei è morta. Improvvisamente sente del bagnato tra le gambe. Se la sta facendo addosso. Si trattiene. Deve. Cerca di respirare e stare immobile.
-Ricerca negativa. Siamo a venti secondi al time-out. Dobbiamo andare.-, dice la voce di una donna. Timbro strano, accento atipico. Julie non identifica, non sa. Ma accetta e riconosce.
Una di loro è una donna. In quanti sono? Fin qui lei ne ha contati tre. Non osa alzare il capo dal pavimento. Ha qualcosa sui capelli, in faccia e sul corpo. È letteralmente ricoperta di… cosa?
Sangue? Schifezze? Morte? Non lo sa. Non vuole neppure lontanamente cercare di capirlo.
All’improvviso, sfiora qualcosa che si muove. Sussulta maledicendosi per quella reazione.
“Non mi hanno visto. Non mi hanno visto…”, prega silenziosamente tra sé e sé.
Poi uno stivale la gira. Urlando e implorando, Julie alza le mani, sforzo vano.

-Vi prego, no! Io non c’entro! Sono solo una turista…-, supplica. Sa, capisce che non servirà a nulla. È nelle loro mani e la sua vita o la sua morte dipendono solo da quegli esseri usciti dal peggiore dei suoi incubi. Una mano le allontana le braccia. Un’altra le afferra il viso. Le puntano qualcosa in volto. Uno scanner? È nero, persino l’obiettivo anamorfico, così come sono nere le maschere, gli abiti e le divise. Il B.O.P.E.? No. Nessun’insegna, nessuno stemma, niente. Spettri senza nome o passato, venuti in cerca di qualcosa o qualcuno, dall’inferno.
-ID positivo.-, la stessa mano la strattona facendola alzare. Qualcosa di freddo le blocca i polsi. Manette? Merda. Julie realizza. Capisce finalmente che sono venuti per lei.
-Che volete?-, osa chiedere. In risposta uno degli spettri le inietta una siringa nel collo.
Il mondo di Julie Delinés diviene un abisso oscuro senza fondo.

 

-Estraiamo. Horst? Posizione dell’Evac?-, chiede l’uomo mentre Neroko si carica in spalla la prigioniera. Controllano rapidamente munizioni e armi. Caricatori esausti e bossoli a terra. Minimo ingombro. La sortita è riuscita. Ora devono estrarre sé stessi e la ragazza da quel buco merdoso prima che le gang della favela li facciano a pezzi.
-E.T.A. 3 minuti. A cinquanta metri da voi, direzione sud-ovest, un campo di calcio. Muovetevi: vediamo altri irregolari avvicinarsi alla zona.-.
-Ricevuto. Arriviamo, chiudo.-, l’uomo sente. Jhon Kingsword spara.
-Contatto! Pattuglia di cinque uomini, un tango a terra.-, esclama ritirandosi dietro la parete.
Una raffica trapassa lo spazio nel punto in cui era stato fino a un istante fa. L’uomo e Neroko si spostano alla svelta dalla linea di fuoco.
-Evidentemente, Kayke el Matador non ha apprezzato la visita.-, si limita ad osservare il Giustiziere. Nô spara. Raffica di copertura. Poca precisione, ma obbliga i nemici a stare bassi.
Jhon sfrutta il momento e si sposta. Spara due colpi precisi. La testa di uno dei gangstar scatta all’indietro e l’uomo crolla. Uno di meno.
-Altri tre in arrivo!-, esclama Nô. Spara il resto del caricatore in una raffica unica. Uno dei nuovi incassa al torace, gli altri due subiscono ferite leggere ma hanno il buonsenso di stare al coperto.
-Muoviamoci!-, esclama l’uomo, -Io ho la punta, Nô, fianco sinistro, Jhon fianco destro.-.
-In movimento!-, esclama Neroko a sua volta. Lancia qualcosa verso l’esterno del locale. Un fumogeno. Il fumo grigio topo inizia a uscire dalla granata, oscurando in breve tempo la visuale ai nemici.
Gli incursori escono rapidamente dalla breccia creata dall’esplosivo dell’uomo. Il Giustiziere livella la PMX e spara. Un tizio con una mitraglietta vecchia di due guerre urlante ordini incassa al collo. Fuoco in risposta.
-Tango da destra!-, urla Jhon. Risponde ai colpi di un tizio armato di pistola con un double tap da manuale ma incassa al petto. L’antiproiettile lo salva da una ferita potenzialmente letale ma non da un dolore notevole. Barcolla, si riprende, ricomincia a correre.
-Horst?-, chiama l’uomo alla radio.
-Siamo quasi in posizione. Da quassù sembra che abbiate scatenato un bel vespaio!-, esclama l’altro. L’uomo sospira. Se lo immaginava. Ma d’altronde non avevano scelta. Un rapimento in piena Rio sarebbe stato troppo eclatante. Hanno colpito lì anche per quello.
-Due in arrivo da sinistra!-, il tono di Nô è concitato ma la mira è precisa.
I due nuovi arrivati, un ragazzo di vent’anni e una ragazza della stessa età, incassano al centro di massa la raffica. Nô ricarica senza fermarsi.
-Forza!-, esclama l’uomo. Individua un nemico sporgersi da una finestra. Butta la granata frag.
Centro perfetto. Il tizio capisce. Si butta a terra. Esplosione tonante. L’intera baracca rischia di venir giù. Urla e grida. Civili e gangstar. La favela pare un girone dantesco.
-Amico, farete meglio a muovervi!-, la voce di Horst gli tuona in nell’orecchio.
-Situazione?-, chiede l’uomo. Spara due colpi al petto di un tizio che impugna un vecchio fucile a pompa. Il tizio va giù sparando al cielo. Uno dei tanti, dei troppi nemici.
-Noi siamo alla Z.A. Muovetevi: non credo che gradiscano la nostra presenza!-.
-Vi vediamo!-, esclama l’uomo. Il campo da calcio è a poche decine di metri di distanza. L’uomo e i suoi sbucano da una strada secondaria.
-Ne arrivano ancora!-, esclama Jhon. Spara ancora abbattendo un ennesimo nemico. Non ricarica: estrae la pistola. La G18 tuona. Uno degli ostili in corsa sui tetti cade a corpo morto.
Colpi in risposta. Jhon sente un bruciore alla gamba destra. Controlla la ferita. Trascurabile. Colpo di striscio. Risponde gratificando il bastardo di un colpo precisissimo.
L’uomo arriva a ridosso del muretto. Vede il Little Bird fare un primo passaggio.
Qualcuno spara. E diversi nemici cadono a terra. L’uomo non fa domande, non serve.
-Neroko!-, esclama l’uomo. Il giapponese spara tre colpi secchi a due imperterriti tiratori su un tetto adiacente. –Presente!-, esclama sollevando la ragazza. Se la carica in spalla senza complimenti. Trova le scale. L’uomo spara. Click! Caricatore finito. L’uomo estrae la pistola.. Un vecchio revolver 44. Magnum. Un cannone a mano.
L’uomo impugna a due mani.  Lo vede a settanta metri dalla sua posizione. Kayke el Matador, la camicia rosso sangue sotto la giberna e un AK placcato in oro in pugno, ghigno deformato dal furore, blatera sermoni di odio e incitazioni. L’uomo inquadra e spara. La pistola scalcia peggio di un mulo. L’uomo vede volare all’indietro Kayke. Problema risolto. Incertezza improvvisa dai vicini. Nô supplisce al bisogno: spara gli ultimi colpi in singolo, inchiodando tre dei nemici più in vista. Incassa un proiettile al petto che il giubbotto in kevlar blocca. Barcolla ma non cede. Dolore nella cassa toracica. Almeno una costola incrinata. Danno trascurabile…
Neroko raggiunge l’elicottero e sale, deponendovi prima la prigioniera.
-Forza!-, altra voce. Di donna. La Baronessa Antonia DuLac, altro membro del gruppo di incursori, brandeggia il mitra dal portello con particolare bravura. Spara una raffica di copertura. Diversi fra gli ostili ripiegano, sbandano. Non si aspettano una simile ecatombe. L’uomo arriva all’elicottero, spara ancora senza pensare ai risultati, aiuta Jhon a salire e permette a Nô di precederlo. Poi si siede.
-Tutti a bordo! Vai!-, esclama. Una raffica impatta sull’elicottero. Nessun danno, solo bozzi.
Horst decolla alla svelta e senza errori. Sfiora una parabola macilenta facendola ondeggiare.
Antonia sciorina un’ultima raffica di copertura. Smette di sparare dopo poco.
-Missione compiuta. Feriti?-, chiede Horst.
L’uomo osserva i presenti. A parte Jhon nessuno ha ferite di rilievo eccetto forse le conseguenze degli impatti sul kevlar. Un piccolo miracolo considerando la zona operativa.
-Kayke è morto. Sono convinto che la polizia brasiliana ce ne dovrà una.-, dice Jhon. Si libera rapidamente del giubbotto tattico ed esamina la ferita alla gamba. Cosparge di polvere disinfettante e benda. Misura temporanea. Ci penseranno dopo a ricucirlo per bene.
-Portaci alla base.-, si limita a dire l’uomo. Horst annuisce.

 

Il mondo di Julie Delinès riprese colore e forma. Si alzò dal letto lentamente, come una vecchia. Letto? L’intera stanza era arredata in modo minimale. Un letto singolo, un tavolo, due sedie, uno specchio. Nessun’armadio.
Dov’era? Quanto tempo era passato? Ricordava una mattanza in un bar ma…
Si tenne la testa. Era confusa. Notò di essere nuda. Vide su una sedia accanto al letto dei vestiti. Jeans, una maglietta, calze e scarpe. Tutto della sua misura, notò mentre indossava quegli abiti. Ricordava che l’avevano drogata… Si toccò appena il collo. Nessun segno.
Le avevano fatto qualcosa? Vide uno specchio. Si controllò, cercando segni di violenza, di stupro. Niente. Nessun dolore né costrizioni… Più che una prigioniera, si sentiva un’ospite.
L’avevano rapita… perché? Quella era la domanda. Doveva esserci una ragione.
Non capiva, ma aveva un presentimento, un sospetto. Sospettava che fossero lì per lei.
Per quel che aveva fatto? Per l’aver consegnato impunemente Christine Buenariva ai suoi aguzzini? Per averla tradita? Si ricordò le parole di Christine, le ultime prima che la stordissero portandola via. Aveva promesso che li avrebbe ritrovati e uccisi. Tutti loro.

Julie non sapeva chi fossero quei tizi ma la promessa di Christine era un tarlo, una spina conficcata nella coscienza, la consapevolezza dell’errore. Inspirò ed espirò, cercando di calmarsi. Recitò una breve preghiera a Dio, cosa che non faceva da quando aveva dodici anni.
“Non è ancora finita.”, pensò, “Devo solo sopravvivere, in quello sono brava.”.
Barattare, stabilire un prezzo, vendere informazioni o altro. E sopravvivere. Imperativo.
Sospirò. Le sarebbe piaciuto un bicchiere d’acqua, o qualcosa di simile.
-Buongiorno.-, la voce la fece sussultare, un urlo strozzato, inarticolato verso di terrore primordiale le sovvenne alle labbra prima che potesse trattenerlo. Si voltò.
L’uomo che aveva davanti pareva uscito da qualche delirante fantasia comica, o horror.
Camicia fantasia hawaiana, pantaloni jeans e mocassini, il perfetto turista.
Non fosse stato per quel dettaglio: una maschera rappresentante un viso androgino sorridente in modo gioioso. Julie cercò di articolare una domanda.
-Dell’acqua?-, chiese l’uomo porgendole una bottiglietta di Perrier ancora sigillata. Julie annuì.
“Sicuramente ora mi chiederà qualcosa in cambio…”, pensò, domandandosi nel mentre per l’ennesima volta chi fosse quel tizio. Era uno di quelli che l’avevano presa?
Cercò di non pensarci, concentrandosi sulla domanda.
-Sì, grazie.-, mormorò. Con sua somma sorpresa, l’uomo le passò la bottiglia. Julie notò che indossava dei guanti. Aprì la bottiglietta con mani tremanti. Bevve piano. Finì col bere quasi metà bottiglia in pochi sorsi. L’ansia e una leggera disidratazione… E l’uomo parlò.
-Dunque… immagino tu ti faccia diverse domande sul motivo per cui ti abbiamo…-.
-Rapita?-, chiese Julie.
-Preferisco “prelevata”, ma presumo che la sostanza non cambi.-, l’uomo dalla maschera teatrale rise, o qualcosa di simile.
-Suppongo tu abbia ragione, Julie.-, disse. La nera sentì un brivido lungo la schiena. La conosceva. C’era da aspettarselo. Cercò di rilassarsi, di non mostrare di aver paura.
-Tu conosci il mio nome. Suppongo che io non possa conoscere il tuo, giusto?-, chiese a bruciapelo. Si preparò al silenzio, a una reprimenda, a tutto. L’uomo la sorprese ancora.
-Non ho un nome, nel senso comune del termine. Puoi chiamarmi Arlecchino.-, rispose lui. Parla un inglese privo di accento. Julie annuì. Un nome strambo per un tipo strambo.
-Possiamo trovare un accordo, credo…-, alluse lei. Nel farlo si stiracchiò sensualmente, come una pantera. Sapeva di essere bella e concedersi era accettabile. L’uomo ridacchiò di nuovo.
-Sono certo che si possa trovare un compromesso, sì.-, disse. Julie sorrise. Era fatta!
-Christine Buenariva.-.
Quelle due parole congelarono Julie Delinés sul posto. No. Non era fatta. Forse anzi, era appena iniziata. Valutò le alternative. Quanto sapevano? Decise.
-Io non so nulla… Non la conosco…-, iniziò. Arlecchino scosse il capo.
-Ma petité fille…-, sussurrò, -Credo proprio che tu stia mentendo. Vedi, Christine è una mia amica. Mia e di alcuni miei collaboratori.-. La temperatura nella stanza sembrò calare, a picco.
Altro pacato cenno di diniego da parte di Arlecchino. L’uomo parlò con voce monotona, annoiata, tediata per motivi ignoti. Per motivi altrettanto ignoti, quel tono di voce fece capire a Julie che la conversazione aveva preso una nuova e più rischiosa piega.
-Io ci tengo parecchio ai miei amici. E gradirei che tu ci dicessi dov’è Christine. Non temere: se collaborerai non avrai rogne. Evita di mentire: sappiamo che tu, Marcel e altri tre elementi facevate parte del suo gruppo.-. Julie sospirò. Come potevano saperlo?
-Come…?-, chiese.
-Christine ci ha informati.-, rispose Arlecchino, -Quello che conta è che tu sai dov’é.-.
Un silenzio gravido di aspettativa e tensione si distese tra loro.
-E io voglio che tu me lo dica.-.

 

Chrstine Buenariva notò la porta aprirsi. Entrò quel brasiliano, Lucas.
-Ben trovata, presumo tu stia meglio ora.-, disse. Lei annuì, ma senza dare altri segni di cordialità. L’abito, la doccia e tutto erano stati dei modi per alleggerire la tensione, per farle abbassare la guardia, ne era certa. Evidentemente i suoi nemici avevano optato per una nuova strategia. Il bastone e la carota. Attese che Lucas parlasse.
-Christine, io so chi sei e cos’hai passato. So anche di quello che pensi di me e dei miei datori di lavoro.-, Lucas si protese, il volto empaticamente pregno di preoccupazione.
-Sappi che, contrariamente a quello che puoi credere, io non voglio che tu soffra ulteriormente.-, disse. La nera lo fissò. Un’ennesima fase di qualche intricata trappola psicologica o semplicemente la verità? Non sapeva ma sicuramente non si poteva fidare.

-Vedi, Christine, io sono convinto che tu abbia già subito molto. Non serve soffrire ancora.-, ancora silenzio da parte sua. La nera analizzò le possibilità. Capì.
-Vuoi convincermi a collaborare?-, chiese.
-Voglio che tu eviti quello che hanno in mente di farti. Ci sono molti modi per ottenere ciò che vogliono ma quello che hanno in mente…-, Lucas Oviedo Perez la fissa, gli occhi improvvisamente pregni di una consapevolezza terribile, -Ti annienteranno, lo capisci?-.
Non fece una mossa verso di lei, ma Christine capì che le possibilità erano solo due: o era un ottimo attore, oppure quell’uomo aveva davvero una coscienza, a differenza della massa di bastardi che lo aveva reclutato. Lo fissò, seria.
-Pensano davvero che parlerò? Tu credi davvero che lo farò?-, chiese soltanto.
-Non capisci. Non potrai resistere. Ti spezzeranno e tutto ciò che rimarrà di te sarà un guscio vuoto…-, mormorò Lucas. Christine vide, notò di nuovo quell’accenno di compassione.
-Perché mi stai dicendo questo?-, chiese la nera. Non capiva. C’era un dettaglio che le sfuggiva.
Lucas Oviedo Perez sospirò. Un sospiro duro, stanco. Da vecchio.
-Ero un medico, anni fa. Aiutavo il B.O.P.E. a estorcere informazioni. Ma loro…-, sospirò di nuovo, -Ci andavano giù pesante. Annegamento simulato, pinze e altro. Era troppo. Io ero il compassionevole stronzo che cercava di convincere i prigionieri a parlare prima che gli altri si spazientissero.-. Christine annuì, incitandolo a continuare.
-Poi sono uscito dal sistema.-, continuò Lucas, -E ho cominciato a farlo come lavoro. Tu non sai, non hai idea di quanti uomini bramino semplicemente di essere trattati con umanità, di essere rispettati e lasciati in pace… Di non soffrire.-.
-Hai fatto anche a loro questo discorso?-, chiese Christine. Nessuna sfida nella sua voce, solo consapevolezza, risoluta consapevolezza.
-Sì. A ognuno di loro. E molti capivano, cedevano. Ma… molti di loro forse avrebbero meritato quelle torture. Ho lavorato per la C.I.A. in un paio di occasioni e in altre per l’F.B.I. I loro metodi erano disumani. Guantanamo ha dimostrato quanto in basso si potevano spingere per difendere dei diritti che evidentemente credono essere solo i loro.-, rispose Lucas Perez.
Christine restò in silenzio, ponderando, riflettendo. Poteva mentire? Guadagnare tempo?
No. Non in quelle condizioni. Era pressoché sicura che Boniface avrebbe voluto la verità e forse avrebbe saputo intuire una menzogna, inoltre nulla le garantiva che l’avrebbero lasciata andare, anzi era praticamente certa del contrario.
Fissò Lucas Oviedo Perez. L’uomo attendeva la sua risposta. In lui, forse aveva un alleato, per quanto incerto. Poteva realmente portarlo dalla sua?
-Non sei d’accordo con loro. Quanto ti pagano per questa cosa?-, chiese. La prima frase era una sua certezza. Era palese che Lucas fosse ancora un medico, tenuto a salvaguardare la vita.
Il brasiliano non rispose. Christine decise di insistere.
-Posso darti tre volte tanto.-, disse, -Ma ho bisogno del tuo aiuto.-. Evocò nella sua mente i momenti peggiori, quando era stata inerme, totalmente alla mercé della crudeltà umana, senza difese contro la cupidigia dell’essere umano e gli abissali baratri ricolmi di tenebre.
Una lacrima le scese lungo una gota. I ricordi le passarono davanti, reali e terribili. Anche le sensazioni la attraversarono, evocate e mai realmente scomparse. Fu terribile da quel lato.
-Ti prego… Aiutami…-, sussurrò. Di scatto, la sua mano destra afferrò quella di Lucas.
-Non posso…-, disse lui. Era addolorato ma l’aveva detto. Christine si sentì sprofondare. Aveva perso. Aveva veramente, assolutamente perso. Tirò su col naso, rannicchiandosi sulla branda, una bambina spaventata dagli incubi usciti dalle tenebre.
Poi sentì Lucas abbracciarla. S’irrigidì. Durò qualche istante, poi l’uomo si staccò e uscì.

 

Nel buio della cella, Christine respira piano. Sente la porta aprirsi.
-Ho sentito che hai rifiutato la nostra generosa offerta.-, la voce di Lucia è pacata, calma,
-Lucas è stato dispiaciuto. Orribilmente dispiaciuto.-.
-Vedi, il fatto è che noi intendiamo avere quelle informazioni. A qualunque costo.-, dice Lucia.
Ancora silenzio da parte di Christine.
-E le avremo. Puoi star sicura che le avremo.-, la promessa è suggellata dalla porta che si apre e il rumore di passi. Christine è di nuovo sola e al buio.

L’uomo osserva la squadra. Quattro elementi. Frank Horst, Antonia DuLac, Miryam Goldmann e James Crowain. Alle sue spalle è la planimetria. Sala briefing. In realtà un magazzino affittato con fondi neri della Yakuza in Messico, a pochi metri dalla costa del Golfo del Massico.
-Il monastero è abbandonato dal 1600. I monaci ritenevano fosse maledetto.-, esordisce Marco Poretti, l’informatico, -Diversi punti del monastero sono ceduti durante gli anni e i vari terremoti ma il corpo centrale della struttura è ancora integro. Secondo le nostre fonti, Christine è là dentro. Sempre secondo le nostre fonti, ci sono almeno una decina se non più ostili nel perimetro. Composizione mista: disperati raccattati per le strade uniti a ex militari seri e addestrati.-, l’uomo osserva ogni singolo membro del gruppo. Non è un leader. Non ha mai chiesto di esserlo, ma sa, capisce, che deve esserlo ora. Per tutti loro.
-Voglio essere assolutamente chiaro: la nostra fonte ha ceduto senza particolari coercizioni quindi potrebbe averci rifilato un enorme quantitativo di stronzate per attirarci in trappola. Ma io ritengo che non sia così, almeno non per tutto.-, l’uomo si volta verso Marco seduto alla workstation e fa un cenno. Altra foto. Quella di una donna.
-Lucia Laffort. Sorella di Boniface Laffort. O sorellastra. Essenzialmente comunque braccio destro del fratello.-, l’uomo osserva ognuno dei membri del gruppo, -Una donna pericolosa, qualcuno sostiene sia una mambo. Come hobby fa la cartomante e si occupa di opere di carità, a capo di una semi-sconosciuta quanto oscura fondazione benefica a favore dei terremotati.-.
Altro cenno a Marco, altra foto.
-Fondazione nota come Haiti Rebirth. Piccola, discreta e decisamente poco nota. Mai indagata a dispetto di bizzarre notizie reperite nel dark web. Sembra proprio che abbiano una certa copertura da parte di qualche politico. Boniface potrebbe essere sicuramente coinvolto.-.
James Crowain scribacchia qualcosa su un taccuino. L’uomo ordina a Marco di riportare Lucia Laffort in primo piano sullo schermo.
-Obiettivi dell’attacco: accertare la presenza di Christine e liberarla se presente o raccogliere informazioni sulla sua attuale posizione. Catturare viva Lucia Laffort. Sottolineo viva. Eliminare tutte le forze nemiche presenti nell’area. Non temete: là dentro non ci sono innocenti.-, l’uomo osserva i membri della squadra. Dall’azione in Brasile sono passate solo poche ore.
-Prepararsi e pronti alla partenza tra sessanta minuti.-, ordina l’uomo.
Tutti escono dalla sala. Piano e senza fretta. Rimangono solo l’uomo e Marco.
-Sei stanco.-, nota l’informatico. Lui non si da la pena di negare. Lo é. Ma deve tenere duro.
Per Christine, deve farlo. Non capisce fino in fondo il loro legame, ma sa che c’é. E tanto basta.
-Riposerò da morto.-, risponde con un ghigno. Marco gli sorride, incoraggiante.

 

Christine dorme un sonno a dir poco lieve. Ha imparato a reagire al benché minimo rumore.
In questo caso però, a svegliarla è un sogno. Apre gli occhi sul buio. Realizza che è ancora assonnata. Forse un effetto di qualche droga che le hanno messo nella zuppa servitale poche ore prima. E improvvisamente la vede: la porta si apre. Piano.
Il sonno scompare, travolto da un’ondata di adrenalina pura. Christine s’impone l’immobilità.
Deve capire chi è e cosa vuole. Può essere che sia già iniziata la tortura?
-Mi spiace, sai?-, chiede una voce. Lucia. Christine la riconosce. Sente qualcosa pungerla.
Il suo mondo si dissolve nell’oscurità. 

L’uomo osserva. Tutti pronti. Armi corte ed equipaggiamento minimale, adatto al combattimento in ambienti ristretti. Annuisce. S’imbarca con gli altri sul natante. Uno Yacht piccolo ma rapido. Modificato illegalmente, riporta il nome Kagayuku Washi.
Registrato a nome di Neroko Watusume, era ufficialmente al largo di Haiti per villeggiatura. In realtà caricava un gruppo da fuoco letale e preparato.

L’uomo prega di non essere in ritardo. Di non fallire. A malapena sente il rumore dei motori che si avviano.

Neroko Tsubikome, al comando del mezzo, da potenza. E lo Yacht lascia la costa messicana, virando verso la Haiti e verso terra degli incubi mai morti, nati dalla follia dell’uomo.

 

Tempo dopo, nemmeno lei sa quanto, riprende i sensi colta da una secchiata d’acqua fredda. Sussulta, lotta per riprendere il controllo. Vede. La cella è di nuovo quella in cui l’avevano torturata la prima volta. Nuda, legata su una sedia. Vede subito la stronza. Lucia fuma una sigaretta, osservandola con assoluto divertimento, pregustando la sofferenza.
Christine sa cosa l’aspetta. Lo immagina bene.
-Sono delusa, Christine. Molto.-, la voce di Lucia è calma, piatta. Svuotata di ogni emozione.
-Avremmo potuto fare grandi cose, insieme.-, c’è qualcosa sul pavimento della cella. Un aggeggio che la prigioniera identifica. Una batteria collegata a degli spinotti.
Collegata a un pungolo elettrico.
Christine capisce. Improvvisamente sa. Eccola la fine. La tortura finale. Non l’oltraggio, non il dolore, l’annientamento promesso. Ha paura. Sa di averne e sa che il dolore potrebbe distruggerla. Distruggerla ma non ucciderla, lasciare un corpo privo di mente.
Ma parlare sarebbe solo peggio. La sua scelta l’ha fatta. Da parecchio.
-Tipo cosa? Un’orgia con quel pezzo di merda di tuo fratello?-, chiede. Lucia si muove.
Il pugno colpisce Christine alla guancia destra. Il ceffone successivo le rivolta il capo verso sinistra. Sente il labbro spaccarsi. Sputa rossastro. Alza la testa. Un dente le balla in bocca.
-Lieta che ti rimanga dell’umorismo.-, la voce di Lucia è calma mentre qualcuno, il tizio chiamato Delgado, armeggia con il pungolo e le batterie. Passa il pungolo a Lucia.
Christine capisce. Riconosce. Sorprendentemente, accetta. Sputa il dente, quasi per riflesso.
C’è un inizio. E forse c’è anche una fine. È questa la sua? Non lo sa.
La punta del pungolo le centra il seno destro. Dolore. Oltre il descrivibile. Christine s’inarca sulla sedia. Urla. Sente una risata. Quella della stronza.
-Christine… Sei ancora in tempo. Puoi ancora dirci ciò che vogliamo sapere.-, dice Lucia.
-No…-, sussurra lei. Altro colpo. Direzione imprevista. L’arcata mandibolare della prigioniera geme. Dolore. Sangue in bocca. Bizzarramente, il dolore scaccia il tormento della scossa.
-Abbiamo tutto il tempo dell’inferno, e molta più creatività del diavolo in persona.-, ribatté Lucia. Altra folgorazione al fianco destro. Altro dolore accecante, annullante, devastante.
Christine respira affannosamente, quante ne potrà sopportare ancora?
-Io parlerei, fossi in te…-, la verga inattiva le accarezza il ventre. Un fallo per nulla erotico.
-Perché sai… questo era solo l’antipasto.-, la voce di Lucia è un sussurro, ora. Christine la vede e non la vede. Però sente. E sente anche altro. C’è qualcuno lì. I morti che non riposano in pace? No. Quel qualcuno è qualcos’altro. Attraverso le nebbie del dolore, Christine Buenariva sente qualcosa avvenire. Si domanda fugacemente se morire sia questo.
Una secchiata d’acqua la fa tossire convulsamente. Le rende la percezione del reale.
-Allora?-, chiede Lucia. Christine non risponde. Non ha più nulla da dire.
-Come vuoi…-, sussurra la stronza. Alza la verga, pronta a infliggere il colpo. Viene interrotta.
-Signora…-, Delgado. L’uomo. Christine non ricorda con precisione. Non le interessa.
-Che vuoi?-, la voce di Lucia è seccata.
-Permette?-, silenzio. La risposta a quella domanda è solo silenzio.
-Delgado, avvisa gli altri: ci muoveremo tra dieci minuti.-, la voce della donna è calma.
-Sì signora… ma…?-, Delgado esita. Lucia sospira.
-Lascerò che tu ti diverta un po’. Dopo che avrai avvisato gli altri.-.
Poi, senza soluzione di continuità, la verga la pungola. Christine s’inarca di nuovo. Si agita. La sedia si spacca in due. Christine cade a terra, rannicchiandosi in posizione fetale.

 

In uscita dagli abissi, le ombre avanzano. La spiaggia è desolata e quella notte non c’è luna.
La vedetta, un haitiano con una sigaretta in bocca, non ha il tempo di gridare o di fare alcunché: un proiettile maledettamente preciso lo centra in piena testa. Il secondo colpo assicura che non si rialzi da terra.
Le ombre avanzano. Un vento innaturale le avvolge.

 

Lucas si avvicinò. La ragazza era a terra, degli spasmi minimali la scuotevano a tratti. Si avvicinò. Sapeva già che ciò che stava per fare non era solo poco professionale, ma persino rischioso per lui. Eppure… la sua coscienza gli imponeva di aiutare quella giovane.
-Ehi!-, Delgado. Lucas si voltò. Delgado lo fissò.
-Sparisci. Ora la puttanella e io avremo una piccola conversazione.-, disse. L’alito del tizio puzzava di rhum di pessima qualità e tabacco. Gli sventolò davanti una pistola.
Lucas scosse il capo. Non gli avrebbe sparato.
-Allora, te ne vai o no?-, il brasiliano rimase fermo ancora un istante. Guardò Christine.
“Mi spiace…”, pensò. Era un codardo, un maledetto codardo!
Uscì dalla cella.

 

Delgado non degnò di un altro sguardo il brasiliano che si defilava.
Guardò Christine. La giovane era ancora rannicchiata a terra. Viva? Morta? Non importava: Delgado se la sarebbe fatta in ambo i casi.
Tanto avrebbe dovuto ucciderla, no? Lucia non era riuscita a estorcerle nulla. Sorrise.
Se lo tirò fuori. Ce l’aveva già duro. Durissimo. Si avvicinò alla giovane. Le accarezzò piano la gamba, arrivando sino alla coscia. Sentiva il calore della vulva sotto le dita.
-Delgado!-, la voce era di uno dei suoi colleghi. Un portoricano…
-Un attimo!-, esclamò lui. Uscì dalla cella un istante, per sentire meglio il collega.
-Lasciane un po’ per me!-, gli urlò il portoricano. Delgado sorrise. Come no!
-Vai tranquillo!-, gli urlò. Avrebbe dovuto accontentarsi del cadavere…
Si voltò verso la cella. E prese in pieno un calcio nei testicoli. Dolore, accecante.

Christine Buenariva gli piombò addosso. Lo schienale della sedia in legno gli centrò in pieno la faccia. Si allontanò di un passo. Schivò un pugno, cercò di pararne un secondo. La nera era scatenata. Delgado reagì o meglio, ci provò. Non era uno avvezzo al corpo a corpo. Schivò un pugno e riuscì a colpire la giovane al petto e al volto. Lei incassò. Colpì duro. I testicoli di Delgado subirono un ulteriore percussione. Christine gli inflisse un jab ascendente contro il mento. Confusione e dolore, furono a contatto. Delgado cercò di sfruttare la stazza. Sgomitò riuscendo a colpire la giovane un paio di volte. Poi, i denti di Christine lo morsero al collo.
Urlando, come un maiale sgozzato, Delgado sentì qualcosa strapparsi. Sentì qualcosa andarsene per non tornare: la vita. Si accasciò sul pavimento.
Il suo ultimo pensiero fu che tutti i predatori, presto o tardi, divengono prede.

Christine si volta, rapida. L’altro tizio. Il collega di Delgado. Uno stronzo con la camicia a fiori.
Pistola puntata. Su di lei. Lo fissa con odio. Calcola le possibilità. Lottare e continuare a lottare, l’unico imperativo. Anche davanti all’inevitabile. Stira le labbra in un ghigno feroce.
L’altro si prepara a sparare. Christine misura il terreno. Il bastardo è stato furbo. Tra lei e la pistola ci sono grossomodo sette metri. Distanza di sicurezza. Il minimo.
Attaccandolo, Christine sa bene che morirà, restando ferma il suo fato sarà solo peggiore.
Lei sa, da molto, che vivere nella paura non è vita. Si prepara a balzare in avanti.
L’altro sembra capire. La pistola è livellata al suo petto. Christine si prepara all’impatto.
Sa che gli arriverà addosso e che, indipendentemente da quanti colpi la centreranno, dovrà sfruttare ogni energia residua per abbattere quel bastardo.
Thud!


Con un rumore sordo, il tizio in camicia a fiori crollò a terra. Dietro di lui c’era Lucas Perez.
-C’è un inizio.-, disse gettando a terra l’asse di legno con cui aveva tramortito l’uomo, -E ora anche una fine.-. Christine annuì. Recuperò la pistola dell’uomo, una Colt 1911 e un pugnale.
Più che abbastanza. Tolse la maglietta al morto mettendosela. Almeno non sarebbe corsa via nuda. A recuperare del vestiario ci avrebbe pensato dopo.
-Muoviamoci. Non so cosa stia accadendo di sotto ma gli uomini di Lucia sono parecchio agitati.-, la esortò Lucas. Christine annuì. Impugnò la pistola. In quel momento si spensero le luci. E la notte echeggiò di grida e spari.

L’uomo è puro vento, una tempesta consapevole. Per gli haitiani e i seguaci di Boniface non c’è speranza, probabilmente non lo comprendono. La mitraglietta erutta bossoli. Raffiche controllate da tre colpi a centro massa. Due bersagli abbattuti. Il terzo fa per ribattere da dietro un muro. BLAM!
Antonia DuLac dà fiato al suo strumento di sterminio. Il fucile a pompa è uno SPAS-12. Il terzo haitiano si abbatte a terra. Nelle mani della donna l’arma esegue una rotazione. Il calcio va a impattare contro la faccia del mercenario uscito da una stanza. Colpi a vuoto, boati. Colpi a segno. Miryam Goldmann spara con precisione assoluta due colpi di UZI silenziata al petto. Il mercenario viene rispedito nelle tenebre con un verso agonico e uno schizzo cremisi.
I corridoi del monastero erano una visione da incubo. L’incursione era rapidamente divenuta un combattimento a corto raggio. I commandos però avevano un miglior equipaggiamento.
In più, Frank Horst aveva tolto l’elettricità al complesso. Il generatore esterno bruciava insieme ai tre ostili di guardia ad esso.
Nel buio, la reazione dei difensori del complesso è confusionaria. Fuoco amico, falsi allarmi, panico. James Crowain, incursore fino al midollo entra di cattiveria. L’MP5K silenziato falcia due hatiani con una breve raffica. Cambio di magazzino.
-Avanzare e ripulire sino alle scale. Solo colpi non letali su HTV e attenzione a Christine.-, ordina l’uomo. Evita un colpo di machete. Sguaina il Tanto.
Lama contro lama. Volontà contro volontà. Vince il primo che non pensa, che dimentica sé stesso. Un duello è sempre brevissimo L’altro fende. L’uomo evita, entra. Colpisce.
La giugulare dell’haitiano erutta rosso. 

Christine sentì i passi. Reagì in ritardo. Lo shock, la tortura, tutto. Non lo sapeva con esattezza.
Comunque reagì in ritardo. L’uomo a fondo del corridoio alzò la mitraglietta. Sparò.

Lucas Oviedo Perez, il mediatore, forse l’uomo più buono e giusto che Christine Buenariva avesse incontrato, si parò davanti a lei. Incassò al torace. Due, tre, sei colpi. Crollò a terra.
Sorreggendolo, la nera lo fissò. Lui sussultò. Gemette cercando di parlare. Lei scosse il capo.
Non sapeva, davvero non sapeva come dire ciò che sentiva in quel momento.
Alzò la pistola. Sparò urlando. Esaurì il caricatore in una passata. Il tizio incassò a petto, testa e collo. Crollò. Christine corse. Lo raggiunse. Gli strappò la mitraglietta. Una vecchia copia cinese di qualche arma del blocco sovietico. Scarti di scarti di guerre finite da molto. Tornò da Lucas. Gli chiuse pietosamente gli occhi prima di andarsene.
Notò del movimento a destra. Li vide con occhi abituati alle tenebre.
Uomini e una donna. Christine capì. Decise.
I due uomini che scortavano Lucia Laffort la videro arrivare. Il primo riuscì a sparare tre colpi, uno dei quali scavò un tunnel nel fianco della nera. La raffica lo abbatté. Il secondo si parò davanti alla strega per proteggerla. Fu falciato. Clack! Inceppamento! L’ultimo bossolo doveva essersi bloccato nel carrello d’espulsione. Incidenti di percorso.
Lucia cercò di reagire. Puntò il revolver. Sparò un colpo che mancò platealmente Christine che, come sostenuta dagli spiriti dei morti o da una furia ignota a ogni uomo, colpì.
Usò la mitraglietta come una mazza. Colpo ascendente. Lucia evitò al pelo l’impatto. Le sferrò un calcio. Christine bloccò soffrendo a causa del fianco leso. Lasciò cadere l’arma.  Colpì col manico del pugnale. Il viso della troia fu centrato da un sinistro micidiale. Gemendo, Lucia cercò di ribattere. Graffi, pugni, calci. La strega riuscì a riguadagnare la distanza. Alzò la pistola. E fu colpita da qualcosa. Un ago. In piena gola. Lucia crollò esanime tra i corpi.
Christine si voltò, pronta a lottare sino alla fine.
-Siamo noi.-, disse la figura in testa. Spettri in nero, ma spettri noti. Christine sorrise, o ci provò. Non ne era sicura. Non era sicura di molte cose. Sentiva il cuore galoppare in petto.

-Siamo noi.-, disse un’altra figura, una donna. Si strappò il mephisto, esponendo una capigliatura rossa e un viso altero. La figura in testa fece lo stesso.
Christine sospirò. Stanchezza, a ondate. Il nulla, l’oblio, la chiamava incalzante.
Lo spettro col volto del Giustiziere avanzò. Le sfilò delicatamente il coltello con un movimento esperto e calmo. Christine lo fissò. Non riusciva a parlare, neanche a stare in piedi a dire il vero. L’ultima lotta l’aveva stremata, insieme a tutto il resto.
-Lascia andare tutto.-, sussurrò l’uomo. Christine non ebbe difficoltà a obbedire. Gli crollò praticamente addosso, la mente sopraffatta da una stanchezza inenarrabile, bramosa di riposo tanto quanto l’anima e il corpo.

 

L’uomo sospirò. L’estrazione era stata rapida. Assolutamente e totalmente.
Ma ora avevano un problema: Lucia non avrebbe collaborato facilmente. E sicuramente, suo fratello avrebbe sospettato una trappola. La battaglia non era ancora finita, anzi.
Mentre si allontanavano da Haiti alla volta della loro base, rifletteva su come proseguire.
In fin dei conti, non stava davvero a lui. Si recò all’interno della stanza.

 

La ragazza vedeva solo un deserto, un luogo ameno, puro nonostante fosse aspro e privo di vita. Eppure, in quel grande vuoto, cullata dal silenzio, la giovane percepì un senso di pace così profondo da far male. La sensazione di non dover più lottare, di non dover più combattere, di poter finalmente riposare. Sospirò.
-Bello, vero?-, la donna dagli occhi verdi e le braccia tatuate, avvolta in vesti lunghe tremendamente sbagliate nel caldo del paesaggio le era apparsa accanto. La giovane si accorse che era nuda, a differenza della sua improvvisa interlocutrice.
Nessuna delle due parve registrare la stranezza della situazione.
-Sì.-, ammise la giovane, -È pacifico. Non l’ho mai detto a nessuno ma… non credevo esistesse questa pace.-. L’altra donna le sorrise con gentilezza, un gesto così diverso da come lei la ricordava essere stata. La giovane non poté non sorridere di rimando.
-Christine, tu sai bene che questo non è il tuo posto.-, disse.

-È la terra dei morti, vero Amour?-, chiese Christine, -Sono morta?-.
-Dimmelo tu? Ti senti morta? Ti senti in pace? Tutt’uno con questo luogo?-.
La giovane sospirò di nuovo. No. Non si sentiva in pace. Anzi, sentiva qualcos’altro.
-Perché sei qui?-, chiese alla donna dagli occhi verdi, la sua antica signora.
-Perché hai bisogno di una guida. Io sono… adatta al ruolo.-, rispose lei.
-Mi aspettavo il Giustiziere.-, disse.
-I vivi non possono raggiungerti qui.-, disse Amour Mirabellé.
-Quindi sono morta, è questo che intendi?-, chiese ancora la giovane.
-No. Ma devi lasciare questo luogo. O lo sarai tra breve.-, la voce di Amour si mischiò a voci in lontananza. A qualcosa che Christine non riuscì a comprendere.
Echi di esistenza lontanissimi, riverberanti nel cielo limpido e spietato del deserto.
-La mia battaglia non è finita.-, disse la ragazza, -La pace dovrà aspettare. Ancora un po’.-.
Amour annuì si voltò. Prese a camminare. Un tuono rimbombò nel cielo improvvisamente nuvolo. E poi scoppiò il temporale.
La giovane fissò il cielo, il paesaggio dissolversi, la sabbia desertica spazzata dal vento impetuoso e flagellata dalla pioggia sollevarsi in volo. Un tuono rimbombò, lontano e vicino.
Prima che quel cataclisma la inghiottisse, Christine Buenariva urlò.

 

-Christine! Va tutto bene… Va tutto bene. Calmati…-, qualcosa l’abbracciò, bloccandola.
Christine riaprì gli occhi, riprese consapevolezza del presente. Era nuda, avvolta appena da delle coperte. La stanza pareva quella di un ospedale. L’uomo che aveva davanti…
“Lucas?”, si chiese. No: lui era morto. Lo guardò. Era il Giustiziere.
-Hai rischiato di morire. Un collasso dovuto a tutta una serie di fattori, e un’infezione. Arlecchino ti ha ripresa per i capelli.-, disse l’uomo. Non si erano mossi di un millimetro.
-Dove…?-, chiese.
-In Messico. In una casa sicura. Ti abbiamo tirata fuori, ricordi?-, chiese l’uomo.
-Qualcosa…-, sussurrò lei. L’uomo annuì. Bisbigliò qualcosa. Poi la abbracciò.
Christine si lasciò abbracciare. Era viva. Viva! Ma…
Abbracciò l’uomo piangendo piano, conscia che da certi baratri forse non sarebbe dovuta tornare. Forse nemmeno avrebbe voluto dover tornare. Meglio l’oblio che… NO!
-Va tutto bene.-, sussurrò l’uomo. Christine annuì. Finì di piangere. L’uomo la fissò.
-Non va tutto bene: ho ancora qualcosa da fare.-. disse lei. Lui annuì. Si baciarono. Fu appena un istante ma le restituì la sua dimensione. Christine si separò da lui, piano.
-Ho ancora qualcosa da fare.-, ripeté. -I miei vestiti?-, chiese all’uomo.
-Te li porteremo. Non eri esattamente ben vestita quando ti abbiamo trovata. Comunque… ci sono alcune cose che devi sapere, se te la senti.-, il Giustiziere le porse un bicchiere d’acqua. Christine bevve. Sentì lo stomaco ruggire. Fame. Aveva fame.
-Quanto tempo?-, chiese.
-Almeno quattro giorni.-, rispose l’uomo. Pareva desolato, -Ci abbiamo messo qualche tempo.-.
-Non fa nulla. Non mi hanno spezzata. Non mi spezzeranno mai.-, Christine cercò di scendere dal letto. L’uomo la fermò. Aveva una presa di ferro, di acciaio. E lei si sentiva fiacca.
-Dovresti aspettare. Riposare.-, disse l’uomo, -Abbiamo sia Julie che Lucia Laffort.-.
Gli occhi di Christine mutarono. Nel viso della nera fece capolino qualcosa di nuovo, una durezza adamantina che ridusse ogni altra emozione a un ricordo.
-I miei vestiti.-, ripeté. L’uomo sospirò. Si alzò.
-Vado a prenderli. Non fare cazzate.-, disse. La giovane scosse il capo.
-Mi conosci.-, disse. Lui si fermò. Già. Si conoscevano. Troppo bene per ignorare i segnali.
I baratri erano noti, a loro. E ora, Christine Buenariva avrebbe fatto sì che la loro conoscenza raggiungesse anche gli altri. Quelli che non avevano mai osato scrutarvi dentro.

 

Julie Delinés sorrise: il trattamento in quella sorta di suite era degno di una regina.
Uscì dalla doccia asciugandosi piano con un telo. La doccia era stata lunga e rilassante, inclusiva di una breve e fugace indulgenza nell’autoerotismo.
L’unico neo era l’incertezza del futuro. Tornare ad Haiti o nella Repubblica Dominicana non era un’opzione: Boniface aveva indirettamente ordinato di evitare di tornare da quelle parti.
Lentamente, Julie terminò di strofinarsi e prese a rivestirsi. Mutande, reggiseno, calze…
Tutto sommato Boniface però non avrebbe più sentito parlare di lei e, se il suo istinto aveva ragione, avrebbe avuto di che preoccuparsi. Lei invece avrebbe solo dovuto godersi la situazione e valutare eventuali sviluppi. I suoi rapitori si erano rivelati ottimi anfitrioni.
Perché preoccuparsi? Marcel sarebbe sparito in Brasile e lei, a suo tempo, avrebbe potuto riapparire da qualche parte, forse negli Stati Uniti o in qualche altro paese, magari in Francia…
La Francia sarebbe stata un’ottima scelta, così multietnica e piena di bellezze da vivere…
Julie si permise di sognare. Ma per poter avverare quel sogno avrebbe dovuto comprendere cosa volevano fare di lei i suoi rapitori. Possibile che la lasciassero andare?
Il tizio con la maschera, Arlecchino, non aveva detto nulla…
D’altronde tutto sembrava presagire che l’avrebbero lasciata andare, oppure…
Terminando di rivestirsi, Julie si chiese se fosse stato possibile ottenere qualcosa da leggere, se non chiedere di essere lasciata andare. Dalle finestre vedeva che era già sera.
Il sole tramontava piano all’orizzonte. Era un tramonto stupendo.
-Mi hai tradita.-, il sibilo fu una voce che Julie non credeva avrebbe mai avuto modo di risentire. “Da questo lato della tomba, quantomeno”, pensò. Si voltò di scatto, rabbrividendo mentre percepiva la temperatura nella stanza calare in modo anomalo, sfiorando lo zero.
Christine Buenariva la fissava, il viso privo di emozioni, avvolta in dei jeans e una maglietta.
Julie rimase paralizzata. Com’era possibile? Poi capì.
-Sei venuta ad uccidermi…-, sussurrò cercando di non tremare e fallendo, -Me l’avevi detto.-.
Christine non parlò, ma si avvicinò di un passo. Due. Julie retrocedette, cercando disperatamente con gli occhi una via d’uscita e con le mani qualcosa con cui difendersi.
Ma non c’era nulla. I suoi carcerieri erano stati decisamente diligenti.
Avevano preparato quella scena? Era sempre stata quella l’idea?
-Hai ucciso Hortense e tutti gli altri.-, sussurrò Christine. Chiuse la distanza.
Julie portò le mani davanti al viso per proteggersi, anche solo in minima parte.
-Dopo ciò che abbiamo fatto per te, ci hai traditi tutti. Per cosa? Soldi?-, chiese quella Erinni.
-Io… Boniface mi ha fatto un’offerta…-, sussurrò Julie. Nessuna risposta. Christine rimase immobile. Assolutamente e totalmente.
-Mi ha detto che avrebbe potuto darmi soldi, tanti. Tu lo sai… i miei genitori… Loro non se la passano bene… E lui non avrebbe mai accettato un “no” come risposta…-, la voce le tremava rendendole difficile finire le frasi. Julie si accorse che l’espressione dell’altra donna non era cambiata. Rimaneva impassibile, priva di qualsivoglia emozione.

Altro passo. Julie sentì la schiena toccare il muro. Fine della corsa. E delle illusioni.
Comprese. Non c’era altro da dire o da fare. Il tempo delle speranze e dei sogni era finito.
Iniziava quello degli incubi. Sentì la paura attanagliarle le viscere.
Poi, improvviso e subitaneo, arrivò il pugno. Il colpo in sé non fu violentissimo ma la stupì. Il già precario equilibrio che aveva avuto si spezzò. Crollò a terra. Sentì il sapore del sangue in bocca. Cercò di alzare il capo. Christine le torreggiava davanti. Julie sputò bava rossastra.
-Porterai un messaggio a Boniface per primo, e poi a chiunque vorrà ascoltarlo.-, decretò la nera, -Un messaggio semplice. Fallo e, per quel che mi riguarda, i conti saranno chiusi.-.
Julie la guardò. Non aveva scelta. Doveva accettare. Annuì.
-Il messaggio è questo: sto arrivando per voi.-. Dette quelle parole, la virago afferrò un braccio della giovane e la tirò in piedi. Si fissarono per un lungo istante. Niente da dire. Nient’altro.
-Prega di non conoscere ciò che ho dovuto conoscere io.-, ringhiò prima di voltarsi e uscire.

 

Christine cammina con calma. Sa che Julie farà quel che le ha detto.
E sa anche che, probabilmente, Boniface avrà problemi ben più gravi che occuparsi di lei.
Ma soprattutto, sa che non ha ancora finito. La parte peggiore dell’intera faccenda deve ancora iniziare.

 

Lucia Laffort riprese i sensi con lentezza surreale. Si alzò mettendosi a sedere sulla branda.
Cella spoglia, nessun’oggetto o mobile salvo la branda militare, peraltro fissata al suolo e la catena che le blocca il polso sinistro. Le hanno lasciato i vestiti e le scarpe L’avevano presa prigioniera, quindi poteva comprendere che volevano ancora qualcosa da lei. Probabilmente informazioni. Su suo fratello?  Quanto poteva dire per salvarsi senza causare danni irreparabili? Sicuramente avrebbero tentato di farla parlare. Con quali metodi? Uno poteva già essere in atto. L’ansia, l’angoscia e il timore di ciò che sarebbe potuto accadere, delle torture prossime ad avvenire la stavano già logorando. Un ottimo metodo. 

 

Henry Samson Lincoln sorrise. Il panorama di Haiti era sempre desolante. Ma presto tutto ciò sarebbe cambiato. Osservò Boniface Laffort. L’haitiano pareva preoccupato.
-Cosa ti turba?-, chiese. Il nero lo guardò.
-Mia sorella. È sparita da ieri. E ho saputo che una nostra installazione, ha subito un attacco.-.
Henry annuì, comprendeva. Probelmi.
-Dovremmo organizzare la consegna diversamente, forse.-, disse Boniface.
-È tardi per farlo. I nostri finanziatori intendo far arrivare la merce a destinazione in fretta.-, ribatté Henry, -Assolderò qualche uomo in più e raddoppierò le precauzioni ma, come sai, questo trasporto non può essere ritardato o annullato.-, andò faccia a faccia con Boniface.
-Rischiamo molto, è vero. E tua sorella potrebbe essere nei guai. Ma non possiamo, non dobbiamo tirarci indietro.-, disse.
Haiti aveva un ruolo nei piani di Henry Samson Lincoln. E quel ruolo era semplice: punto di spaccio e distribuzione. Boniface lo sapeva bene. E doveva iniziare ad andare liscio sin da subito, lo sapevano entrambi. I produttori della Colombia, dal Messico e dall’Asia con cui Liconln era in contatto contavano proprio su questo. Se qualcosa fosse andato storto…
Non sarebbe finita affatto bene.
-Mia sorella non ne sa molto, ma sa quanto basta. Potrebbe metterci nei guai se parlasse.-, disse Boniface, improvvisamente titubante.
-Sì. Lo so. Ma tu non sai né chi l’abbia presa né tantomeno perché, vero?-, incalzò Henry.
Il nero si fece una tirata di sigaro, senza apparentemente gustarlo.
-No.-, ammise, -Ho dei sospetti ma nulla di certo.-. Henry annuì, accondiscendente.
-Mobiliterò qualche mio informatore. Chiunque l’abbia presa e abbia attaccato quell’avamposto, di certo non è un fantasma…-, disse, -La ritroveremo.-.
Non era necessario che Henry rivelasse a Boniface che sua sorella gli aveva elargito le sue grazie senza riserve di sorta, in ben due diverse occasioni per giunta, così il trafficante si girò verso la sala e, versatosi un bicchiere di Rum, bevve assaporando il liquore.
-Quant’era importante, questa vostra installazione?-, chiese Henry dopo un sorso.
-Non particolarmente.-, rispose Boniface Laffort mentre aspirava, -Ci tenevamo una prigioniera, Christine Buenariva. Se ne stava occupando mia sorella. Non mi ha detto tantissimo…-, si fermò a metà frase sentendo il rumore di un bicchiere che cadeva rompendosi. Si voltò verso Henry. Il trafficante di droga statunitense pareva spaventato.
-Christine Buenariva…-, mormorò. Boniface si accigliò, sorpreso.
-La conosci?-, chiese. Henry Samson Lincoln attraversò la distanza, afferrandolo per il bavero.
-Ora abbiamo molti più motivi di preoccuparci!-, esclamò, decisamente fuori di sé.
-Che vuol dire?-, chiese Boniface, confuso da quello scatto. Henry lo lasciò. Iniziò a spiegare.

 

Lucia sente la porta aprirsi. Vede la figura incorniciata dalla luce. Capisce, con assoluta chiarezza, che ora dovrà giocarsi le proprie carte al meglio.
-Immaginavo che saresti stata tu. Ti hanno liberata, no?-, chiede. Christine non risponde. Entra. Senza neppure chiudere la porta. Resta in piedi a fissarla. Il viso inespressivo, privo di emozioni, quasi inumano nella sua immobilità, come se lei fosse una creatura superiore, una demone o una dea e che quelle parole fossero state indegne della sua attenzione.
Lucia sorride. Sa cosa vuol dire porsi al di sopra degli altri. Lo fa da parecchio.
-Beh, eccomi qui. Direi che ora mi torturerai, vero? Mi estorcerai le informazioni con la forza? O forse lo farai per come ti ho trattata io? Non che importi: sappiamo entrambe come andrà.-, la voce di Lucia Laffort è calma, pacata, priva di rassegnazione. Le risponde il silenzio.
Come se quelle parole non avessero importanza. Come se fossero futili.
O forse, semplicemente, prive di qualsivoglia bisogno di conferma.
-Quindi? Cosa mi farai?-, chiede Lucia. Nessuna paura, proprio nessuna. Apparentemente.
-Nulla.-, la parola lascia le labbra di Christine come un refolo di gelida brezza.
La risposta lascia Lucia basita, la mambo si limita a corrugare il viso in un espressione di somma concentrazione, che preso lascia il posto al dubbio e infine all’incertezza.
-Non ti farò proprio nulla. Perché vedi, noi sappiamo. Molto in verità.-, la nera si avvicina all’altra donna. Occhi negli occhi, quelli di Christine Buenariva sono abissi di tenebrosa ossidiana in cui si riflettono le bicolori pupille di Lucia.
-Volete usarmi come esca…-, sussurra Lucia, comprendendo improvvisamente la verità.
Christine non parla. Non annuisce. Si limita a fissarla.
-Non funzionerà. Boniface sospetterà la trappola.-, scuote il capo, incredula.
-No. Perché gli proporremo uno scambio.-, finalmente, con estrema lentezza, un sorriso crudele fa capolino sul viso della donna che tiene prigioniera la mambo.
-Uno scambio semplicissimo. Henry Samson Lincoln in cambio di sua sorella.-.
Lucia tace. “È orribile!”, pensa. Se Boniface accetterà si condannerà con le sue mani. Ma rifiutandosi, condannerà lei. Non osa dire una parola. In un modo o nell’altro, lei ne uscirà distrutta. Se ne uscirà. Si chiede se effettivamente la sua sopravvivenza sia garantita.
Deve trovare il modo di ribaltare la situazione. A ogni costo.
-Io posso dirvi cosa sta pianificando Lincoln, insieme a mio fratello!-, esclama.
-Già. Potresti. Ma io potrei fidarmi?-, chiede Christine. Si è girata e va verso la porta.
Lucia tace, sta per dire che non ha scelta ma sa che non è vero: quella bastarda dispone di alleati potenti, gente che è stata capace di liberarla con un’azione militare di notevole livello.
Possono probabilmente accedere alle informazioni in merito al trasferimento della merce ad Haiti. Possono persino fermarlo. Il tutto senza il suo contributo.
E questo vuol dire che il suo valore è attualmente pari a 0. Attualmente. Perché lei conosce molte altre cose. E prima o poi, Lucia ne è sicura, verranno a chiedergliele.
Guarda Christine uscire pensando che la partita è rischiosissima. 

Pochi minuti dopo, un tizio biondo le porta del cibo.
-Buon appetito.-, dice con cadenza monocorde. Entra, appoggia il cibo ed esce. Lucia osserva il pastone. Roba schifosa da caserma. Eppure, per ora può cibarsi. Ed è viva.
È già qualcosa. Deve solo capire come reagire.

 

Boniface sedeva da solo in sala. Aveva triplicato la sorveglianza, aumentato il numero di guardie e attivato i suoi informatori, ad Haiti, nella Repubblica Dominicana e su svariate altre isole dell’America Centrale sino a lambire le coste del Messico.
Christine Buenariva e i suoi alleati erano pericolosissimi. Un pericolo con cui lui sapeva bene, avrebbe dovuto fare i conti. Sua sorella era prigioniera di quei bastardi? Sì, pareva molto probabile. Doveva costringerli a fare un errore e approfittarne.

 

Il silenzio è rotto solo da pochi rumori. Vestiti che strusciano, passi, vestiti che cadono.
Un nuovo suono fa capolino: acqua che scorre, che cade, che scroscia.
Christine sorride, una doccia è un lusso che ha deciso di concedersi, la possibilità di stare bene. Di lavare via almeno un aspetto dei baratri. Forse quello più scontato, e magari il peggiore. Regola la temperatura. Sente qualcuno bussare sulla porta.
-Avanti.-, dice. È ancora abbastanza vestita da considerarsi presentabile, ma immagina perfettamente chi sia. L’uomo entra, silenzioso e tranquillo.
-Disturbo?-, chiede. In realtà sa già la risposta. E la nera sa bene che è lì per due motivi.
Uno molto piacevole, l’altro meno. Uno certo, l’altro no.
-Sta succedendo qualcosa in India. Un casino che potrebbe portare alla prossima guerra mondiale.-, spiega l’uomo. È in pantaloncini e maglietta.
-Chi ha deciso?-, chiede Christine.
-Ho chiesto io di andare. Insieme a Crowain. Kingsword e Nô.-, risponde lui, intuendo la domanda. La giovane annuisce. Nulla da dire. Capisce. I baratri chiamano. Sempre.
Il loro è un incessante richiamo.
-Tu hai il tuo inferno, io ho il mio.-, si limita a dire. Toglie la canottiera con un movimento fluido. Abbassa in un colpo pantaloni e mutande. Incurante della nudità offerta, si volta.
-Quindi penso sia più che lecito prenderci un pezzo di paradiso.-, dice l’uomo. Si toglie calzoncini e maglietta. Sotto non c’è altro. Il suo membro è già eretto. Christine sente quel piacevole languore tra le cosce risvegliarsi. Si avvicina. Gli afferra il sesso.
Lo tira verso la doccia come un cane al guinzaglio. L’uomo la lascia fare. Entrano sotto il getto nella cabina che accoglie due persone con discreta facilità. Solo allora l’uomo si ribella.
Christine lo bacia, lui cerca la sua lingua, lei gli morde appena il labbro. La mano di lui va in presa sul seno di lei, tortura il capezzolo turgido, scende lungo lo stomaco, accarezza il pube, vezzeggia piano il clito, prega per un ingresso, perché la nera apra le sue porte. La mano di Christine lavora il pene del Giustiziere, lui geme, le bacia il collo. Morde appena.
Lei gli graffia la schiena con la mano libera. Guida il suo sesso dentro di sé, appoggiando il piede destro su uno scalino. Lui la penetra. Carni roventi, gemiti non trattenuti.
Lui scivola dentro di lei, avanti e indietro, a lenire ferite mai rivelate, a conoscere l’inconoscibile. A permettere di dimenticare i baratri. Per entrambi, quella pausa è una grazia.
Lei geme, mugola. Gode di quell’amplesso. Lui lecca, le dà piacere, come a voler lenire tutto il male. Si sfila. La nera capisce. Si gira, appoggiandosi contro il vetro trasparente della doccia, ora offuscato dalla condensa dovuta al calore. Lui la prende da dietro, affondando ancora dentro di lei.  Christine lo lascia fare. Entrambi sanno che non darebbe una simile libertà a nessun’altro sulla faccia della terra.  Le mani di lui la tengono alle anche. Christine pare artigliare il vetro. Lui si sfila. Avrebbe potuto concludere così, ma non vuole.
E neppure lei, ormai si conoscono troppo per dubitarne.
Christine si appoggia al vetro, l’uomo la solleva, la penetra. La gravità fa il resto. Lei gli morde il lobo dell’orecchio, geme, graffia. Non è quasi neanche sesso, è penitenza, espiazione.
O forse, è solo vivere il momento, nessuno di loro lo capisce. A nessuno di loro importa.
Hanno solo questo momento: domani potrebbero essere morti e lo sanno.
Quando alla fine l’uomo si libera, godendo dentro la sua intimità in caldi fiotti che sembrano non finire mai, Christine ha già conosciuto la pausa. Una delle più lunghe e belle della sua vita.
Il godimento la squassa come un giunco investito dalla tempesta. Sorride. Bacia di nuovo l’uomo. Lui la depone a terra. La lava delicatamente. Lei lava lui. Piano, con una delicatezza pari alla sua. Si baciano di nuovo. Sembrano amanti. Un’idea che provoca quasi un sorriso alla nera. Potrebbero, volendo, aspettare. Potrebbero attendere e farlo di nuovo. Ma i telefoni suonano. Entrambi. Sia quello dell’uomo che quello della giovane. I baratri chiamano ancora. 

 

Lucia Laffort aveva vissuto gran parte della sua vita nella convinzione che i forti vincono e i deboli muoiono. Semplicemente, il mondo andava così. Inutile filosofeggiare o porsi dubbi.
Era così, punto e fine. Lei era tutto, meno che debole. Era ormai un giorno che era lì? Di più? Forse sì. Ma bastava. Christine le aveva fatto capire che sapeva abbastanza da poter agire anche senza di lei, e ciò la rendeva… sacrificabile.
Ma Lucia non era intenzionata a farsi liquidare tanto facilmente. Così, dopo che il tizio biondo le aveva portato un ennesimo ributtante pastone da caserma, aveva agito.
La catena che la legava era roba vecchio stile. Ingombrante e pesante. Ma tutto sommato, si poteva forzare. Cercò delle telecamere. Nessuna. Perfetto!
Agì con attenzione: si portò una mano ai capelli. Sfilò uno spillo dalla chioma. Lo aveva legato ad uno dei nastrini bicolori che si era messa tra i capelli. Uno tra i tanti. Lo spillo non era lunghissimo, giusto qualche tre centimetri. Ma era sufficiente. Iniziò a lavorare sulla serratura.
Con estrema cautela, incominciò ad agire sui meccanismi interni.

 

Christine Buenariva si alza piano sulla sedia anatomica. La dentista ha fatto un bel lavoro. Il dente che aveva perso è come nuovo, al suo posto. Si alza lentamente dalla sedia e ringrazia con un cenno del capo la donna, una specialista statunitense al momento in vacanza in Messico. Verrà pagata e se ne andrà a fare il suo lavoro altrove. Meglio così.
Attraversa la porta e il corridoio seguente. Arriva a un’altra porta e apre.
Marco Poretti è immerso nella semi-oscurità della stanza. Christine lo osserva per un istante.
Si concede di pensare a quel giovane che, nonostante non sia né un soldato né un killer spietato, fondamentalmente sta facendo forse più di tutti quanti loro.
La nera si concede di ammettere che se non fosse per lui gran parte del loro lavoro sarebbe notevolmente complicato, se non apertamente impossibile. Marco e Shaibat erano, a tutti gli effetti, il cervello del gruppo. Erano loro a evidenziare i problemi, i possibili tumulti, i bubboni prossimi ad esplodere. Che poi fossero altri ad agire sul campo era secondario, Christine doveva riconoscerlo: erano loro due a permettere le azioni sul campo.
Ed era lui, Marco, ad aver avuto una notevole parte nel suo salvataggio. Lo sapeva bene.
Era stato lui a rintracciare Julie. Di Marcel nessuna traccia? No. Ce n’erano eccome, Christine ci avrebbe potuto scommettere. Ma al momento, la priorità era un’altra.

Portare a termine la missione. Evitare che Haiti divenisse letteralmente un polo di smercio per la cocaina proveniente dal Sudamerica.
Fa intenzionalmente rumore. Ciò non evita a Marco di sobbalzare. Assorto com’era nel cyberspazio non si era minimamente accorto di lei. Male.
-Dannazione…-, sospira il giovane scoccandole un’occhiata irritata.
-Consapevolezza.-, replica lei, -Immagino tu sia riuscito ad avere tutte le informazioni.-, disse.
-Tutte.-, la voce di Marco assume una professionalità quasi impersonale, quasi, -Le ho passate sul tablet. È sul tavolo.-. Christine raggiunge, accede, analizza superficialmente.
Avrà modo di studiarle meglio dopo, anche se sinceramente, sente di essere come su un binario differente rispetto a Marco. Lei è una donna d’azione, questa la definizione più gentile con cui l’hanno etichettata negli anni. L’idea di doversi impratichire con roba tecnologica è… ridondante, tuttavia sa che conoscere un nemico è importante.

Rimette il tablet nero nella borsa, si sistema il tutto a tracolla.
Shaibat continua a muovere celermente le dita sulla tastiera, apparentemente incurante oppure incredibilmente conscia di tutto quanto sta accadendo. Christine la osserva meglio.
È possibile che quella giovane, braccata da vari criminali in molteplici stati, abbia sviluppato la consapevolezza che anche lei aveva dovuto giocoforza rendere quasi una seconda natura?
Se lo chiede, sospettando che la risposta sia sì.
-Il tuo passaggio è pronto.-, dice Marco. Lei annuisce. Ha ancora una fermata da fare.
Per poi tornare nella terra degli incubi passati, a spalancare nuovi baratri.

 

-Non c’è verso, lo sai vero?-, chiese Shaibat. Aveva già visto il giovane osservare lei e le altre donne del gruppo, il suo interesse verso Christine Buenariva era palese.
Un interesse pericoloso. Alla meglio lo avrebbe ferito, alla peggio…
-Lo so.-, ammise Marco, -Ma un uomo può sempre sognare.-, disse con un sorrisetto.
-Già. Ma il tuo sogno rischia di diventare un incubo. Christine non è una che prenda alla leggera le avances indesiderate.-, Shaibat cliccò alcuni link, cercò, estrapolò dati.
-So badare a me stesso.-, rispose Marco, piccato. La thai annuì. Non c’era molto altro da dire.
-Comunque, io sono ottimista.-, concluse lui mentre inviava un file ai loro alleati.
-Ci credo. Io invece no. È il motivo per cui sono sopravvissuta sino a ora.-, rispose Shaibat.
La giovane si alzò. Doveva fare un po’ di movimento, mangiare qualcosa e andare in bagno.
Lasciò Marco Poretti ai suoi pensieri, pensando che il suo ottimismo avrebbe potuto condannarlo.

 

Frank Horst aprì la porta della cella. Notò che la prigioniera era stesa sulla branda, raggomitolata in posizione fetale. Si avvicinò, posando il vassoio. Stava male?
Si avvicinò con circospezione e attenzione. Lei rimase immobile.
Horst si chiese cosa avesse. Si chinò sulla nera, incerto su come procedere.
Non ebbe tempo di prendere decisioni.

 

Lucia Laffort aveva vissuto nella bambagia, ma questo non le aveva mai impedito di vedere con assoluta chiarezza i pericoli del mondo. A diciassette anni aveva rischiato lo stupro da parte di un missionario decisamente poco ligio ai suoi principi. Aveva piantato un paio di forbici nella mano del bastardo ed era scappata. Suo fratello le aveva presentato Maurice Demat, un giovane insegnante di MMA.
Lucia aveva avuto anche una breve relazione con lui, relazione che le aveva permesso di frequentare la sua palestra e i suoi corsi senza sborsare un soldo.
Poi, le cose erano andate in vacca, Maurice aveva preso a frequentare altre e Lucia non aveva più potuto esimersi dal pagare. Ma per allora, la cosa non aveva più avuto alcuna importanza. Aveva imparato abbastanza.
Il biondo non si aspettò minimamente la sua mossa: la gamba sinistra di Lucia scattò e il piede della donna, specificatamente il tallone lo centrò ai genitali. Doveva essere terribile, a giudicare dalla sua espressione. Sfruttando lo slancio, la nera si alzò con un’agile movimento delle gambe, colpendo il mercenario al viso. Il biondo crollò a terra.
Lucia si alzò. Valutò la situazione. Il bastardo era ancora vivo, ma sicuramente la sua assenza sarebbe stata notata. Inutile ucciderlo. Lo perquisì. Nessun’arma, ma un portafoglio e diversi dollari. Inoltre c’era anche un cellulare. Prese tutto. S’infilò il bottino nelle tasche del vestito.
Passò alle scarpe. Fece pressione sui tacchi, rimuovendoli. Ora calzava due scarpe perfette per quasi qualunque terreno. Quelle calzature erano state una precauzione più che un vezzo.
Tutte cose che tornavano utili. La giovane uscì dalla cella. Si trovò un corridoio. C’erano altre celle. Vuote. A giudicare dalle porte, un tempo quello era stato un magazzino.
Muoversi, sempre: prese a correre cercando di fare meno rumore possibile.
Non aveva la più pallida idea di come cazzo uscire da quel posto, e sapeva che probabilmente i suoi carcerieri e Christine Buenariva non sarebbero stati così benevolenti.
Inoltre doveva calcolare anche il biondo stordito che forse si era già ripreso. Insomma, un sacco di roba da mettere in conto.

Ma sul momento nulla di tutto ciò le importava: Lucia Laffort aveva un solo pensiero in mente.
Ed era fuggire, continuare a muoversi. Svoltò un angolo. Vide altre porte, un paio con le insegne dei gabinetti, e poi altre porte una alla sua destra, distante e una alla sinistra.

 

Shaibat terminò di lavarsi le mani. Si guardò allo specchio. La durezza della vita che aveva scelto non aveva influito sulla sua bellezza. Quando aveva cominciato, l’idea di rubare informazioni e fondi era stata allettante, ma presto si era accorta che il Cyberspazio poteva portare guai tanto quanto il mondo reale, anzi, in misura anche maggiore.
Aveva iniziato presto, quasi per scherzo, poi si era decisa a fare l’hacker di professione. E ora si trovava ricercata da più organizzazioni criminali che aspettavano solo di farle la pelle.
E ora, schierarsi con quell’eterogeneo gruppo di assassini idealisti, le avrebbe solo procurato altri nemici. La giovane sospirò. Tempo di tornare al lavoro.
Si asciugò le mani e aprì la porta. Si trovò davanti il corridoio. Poi, improvvisamente, fu assalita da una furia.

Lucia Laffort non aveva mai sprecato occasioni. Quella non era diversa: quando aveva visto la giovane dai tratti orientali uscire dal bagno aveva capito che avrebbe avuto solo poco tempo.
L’aveva rapidamente colpita con due ceffoni, stordendola. Poi l’aveva afferrata per il collo, stringendola in una morsa. Aveva agito rapidamente, senza pensare.
-Dov’è l’uscita? Parla!-, esclamò la nera. L’altra sciorinò una risposta. Ponderando le alternative, Lucia decise.
Sbatté la testa della giovane contro lo stipite. Due volte. L’orientale cadde a terra esanime. Lucia le sfilò una minuscola pistola da difesa personale.  Corse verso l’uscita.
Sentì la voce di un uomo. Il biondo di prima?
-Ferma!-, urlò la voce. Lei non pensò. Puntò e sparò. Non sentì urla in risposta. Mancato?
Forse. Non poteva fermarsi a combattere, doveva correre, fuggire.
Arrivò a una porta. La aprì. Sbucò in un parcheggio. C’erano diversi veicoli.
Chiavi… dovevano essercene. Doveva trovarle! O arrivare fuori da lì. Ma dov’era il “lì”? La verità era che poteva benissimo trovarsi in una base abbandonata nel deserto o qualcosa di simile. Faceva caldo e questo avvalorava l’ipotesi del deserto. Un mezzo era indispensabile.
Stava facendo quelle considerazioni quando qualcun altro l’aggredì.

 

Antonia DuLac non era perfetta, aveva dei difetti e aveva fatto parecchi errori.
Ma, quando, dopo essere rientrata da una breve perlustrazione della zona esterna (attività che aveva incluso anche l’uccisione di uno spacciatore di medio-grosso calibro facente la spola tra Messico e Stati Uniti), aveva notato una donna di colore entrare nel parcheggio con in mano una pistola, aveva capito che qualcosa non andava. Assecondando l’istinto era uscita dall’auto in massimo silenzio, acquattandosi dietro di essa. Riconosciuta la donna, capì. Decise.
L’attaccò senza preoccuparsi della sua sicurezza. In quei casi, Antonia diventava una furia.
Mise in leva il braccio armato costringendo Lucia Laffort a lasciare la pistola. Un calcio di Antonia spedì la piccola arma sotto un’auto. La nera colpì al viso e allo stomaco con rapidità. Antonia accentuò la leva. Il braccio sinistro di Lucia scricchiolò. La francese sferrò un montante all’altra che incassò male. Non riuscì a concludere del tutto la leva: la nera sgusciò via dalla sua presa. Si beccò una ginocchiata nell’interno coscia. Tentò di contrattaccare. Riuscì a colpire tre volte Antonia. Pugni da poco. Antonia DuLac si era addestrata con gente molto più tosta. I colpi di quella donna erano quasi carezze al confronto di quelli dei suoi istruttori. Ma la donna riuscì a sfilarle il coltello. SOG commando da quindici centimetri. Lo usò subito. Antonia ristabilì la distanza, rotolando all’indietro. Lucia avanzò, il viso teso per il dolore, la rabbia e lo sforzo. Fese ancora. Antonia parò d’istinto. Sul braccio sinistro della francese si dipinse un taglio. Altro fendente. Lucia mirava all’addome. Antonia bloccò. Le due donne lottarono per il possesso del coltello. La nera cercò di morderla, invasata e disperata.
Ma Antonia era scatenata. Strappò la lama dalle mani di Lucia, al prezzo di pochi tagli marginali. Proiettò la nera a terra, fregandosene di quanto soffrisse.
Sentì dei passi. Si voltò. Shaibat arrivò per prima, seguita a ruota da Frank Horst, armato e pronto a sparare. Si rilassarono vedendo la scena. Lucia gemette. Antonia la tirò in piedi senza troppe cerimonie. Passando accanto a Shaibat, la thailandese colpì. Il pugno della giovane non fu potentissimo, ma Lucia si piegò comunque in due quando le arrivò in pieno stomaco.
-Così siamo pari.-, disse l’hacker. Sorrise ad Antonia, che sorrise a sua volta.

Frank Horst fu inflessibile. Perquisì Lucia senza alcuna delicatezza. Decretò poi che sarebbe stata confinata in cella. Poco cibo e acqua. Nessuna uscita dalla cella né tantomeno assistenza medica oltre a quella che già aveva ricevuto dopo essere stata ripresa. Era un trattamento quasi inumano, da Guantanamo, ma la nera si era dimostrata pericolosa e piena di risorse, oltre che abile e nessuno ebbe da ridire.
Horst medicò rapidamente Antonia e controllò che Shaibat stesse bene, poi si preparò.
Sapeva, era sicuro, che presto sarebbe stato chiamato in azione.

 

Boniface e Henry attendevano. Sapevano che il convoglio sarebbe arrivato a destinazione.
Sotto insistenza del trafficante, l’haitiano aveva fatto leva su alcuni suoi contatti per garantire un punto d’approdo ad Haiti, contando anche sulla collaborazione di un reparto dell’ONU abbastanza malleabile in tal senso. Una volta sbarcata la merce, questa sarebbe stata presa in consegna dai suoi uomini. Cosa poteva mai andare storto?
Eppure, Henry non era arrivato dov’era senza essere maledettamente prudente.
Aveva preso alcune contromisure la situazione fosse peggiorata.
Si godeva intanto l’ospitalità nient’affatto spiacevole di Boniface Laffort. Il futuro presidente stava svolgendo il suo ruolo di anfitrione con un’ammirevole abnegazione.
La cameriera entrò, servizievole e silenziosa, deponendo un piatto di frutta fresca sul tavolo. A occhio e croce doveva essere ventenne, valutò l’uomo.
Henry Samson Lincoln pensò che era parecchio che non vedeva una donna e le rotondità di quella donna erano decisamente notevoli e invitanti. Henry si leccò le labbra.
La giovane si volse verso di lui. Il viso non era male. E la veste pareva cucita direttamente addosso a lei. Henry Samson Lincoln sentì un’erezione prepotente farsi strada.
-Serve altro, signore?-, chiese lei in un inglese accettabile. Lui si alzò.
-Sì…-, disse. Prese il polso della giovane. Lei rimase interdetta, indecisa. Con nonchalanche, l’uomo portò la mano della nera giovane tra le sue gambe.
-Ma… signore… io…-, farfugliò lei. Henry sorrise, affabile.
-Ti lascerò un extra… un ottimo extra.-, disse. Intanto aveva preso ad accarezzare il seno della giovane nera, la quale rimaneva immobile, in dubbio probabilmente tra virtù e ricchezza.
L’uomo sorrise: sapeva che probabilmente non guadagnava chissà quanto.
Infatti la giovane lo accarezzò, masturbandolo piano attraverso i calzoni.
-Brava… vedo che ci capiamo.-, disse Henry accarezzandole il viso. La ragazza sorrise, mostrando giusto un accenno di indecisione e disagio. Lui le strinse un seno. Frugò nel decolté, saggiando brutalmente quelle rotondità. La giovane cercò di non lamentarsi.
Henry se ne fregò: immerse le mani tra le cosce della giovane, superando il vestiario.
Le infilò un dito dentro. Non era bagnata. La giovane guaì un lamento.
-Sai cosa mi piacerebbe?-, chiese Henry, affondando e ritraendo il dito.
-Cosa, signore?-, chiese lei con tono servile, nonostante l’evidente fastidio e la  totale mancanza di delicatezza di lui.

-Mi piacerebbe che me lo succhiassi per bene…-, disse Henry. La giovane, evidentemente forzata dal pensiero dei soldi, annuì. Henry si sbottonò i pantaloni. Il membro granitico si erse libero. La giovane lo prese in mano, dubbiosa.
-Io…-, iniziò.
-Niente storie. E ricorda: non voglio sentire i denti.-, disse Henry. La giovane parve esitare.
-Il tuo capo saprà che non sono soddisfatto del tuo servizio.-, minacciò lui senza cambiare tono di voce. Non era neanche seccato. Sapeva già come sarebbe finita.

Infatti la giovane si mise in ginocchio e prese a succhiare, accogliendo il membro di Henry Samson Lincoln nella propria bocca rovente. Henry le affondò il pene sino in gola.
Dettò il ritmo afferrando i capelli della nera sino a farle delle redini. Prolungò quel piacevolissimo andirivieni finché non fu più in grado di resistere. Poi venne copiosamente in bocca, sul viso e sul vestito della giovane, che tossì quando il liquido seminale le andò di traverso. Soddisfatto, Henry estrasse il borsello, contò tre banconote da cinquanta dollari e gliele mise in mano.
-Fattele bastare.-, disse. La ragazza pareva a un passo dalle lacrime, o dall’insultarlo.
Invece fece solo un cenno. Si ripulì alla bell’e meglio, prese le banconote, le infilò nella veste e si dileguò senza una parola. Henry sorrise. Si sentiva la testa vuota. La ragazza non era stata male. Si domandò se avrebbe potuto approfittarne nuovamente prima della fine del suo soggiorno, facendosi l’appunto mentale di farlo.
Sua moglie non ne sapeva niente, ma lui aveva parecchie amanti. Molte erano donne da una botta e via, altre più stabili. Henry considerò che forse quella giovane avrebbe potuto far parte del secondo archetipo.

 

Christine scese dalla nave con assoluta prudenza. Il suo accompagnatore era un ex operatore di qualche forza speciale. Uno apposto che ora arrotondava lo stipendio con lavoretti come quello. Era stato pagato profumatamente per evitare di fare domande.
L’ordine era semplice: prendere quella giovane, arrivare fino ad Haiti alle coordinate che la giovane gli avrebbe dato, sbarcarla e andarsene. Tant’era.
Il mercenario fece tutto come da copione, lasciandola sulla costa.
Christine Buenariva sorrise. Per un minuscolo istante, sorrise davvero.
Era tornata per restare. Era tornata per cacciare.
E non sarebbe mai più stata preda. Caricò lo zaino in spalla e iniziò la sua marcia.

 

Boniface Laffort non aspettava visite. Per questo, quando la sua assistente riferì di una giovane decisamente male in arnese che chiedeva di parlargli, rimase decisamente stupito.
Julie Delinés si presentò davanti a lui. Era decisamente spaventata, forse persino terrorizzata.
Da cosa? Boniface se lo chiese. La osservò con curiosità, mista a un inquietante senso di apprensione per ciò che la giovane avrebbe detto.
-Sta arrivando. Per voi…-, il labbro inferiore della ragazza trema mentre parla.
Boniface sentì una morsa stringergli lo stomaco.
-Ha detto altro? Ricordi dov’era? Dove ti ha portata?-, chiese.
-No… Non era da sola… Io… forse in Sudamerica… non so… Non so niente!-, con quelle parole, Julie scoppiò a piangere. Esplose in un pianto disperato, come una bambina spaventata.
Boniface sospirò. Christine Buenariva non aveva ancora finito con lui.
E in più, aveva con sé sua sorella. L’unica persona al mondo di cui le importasse…
Doveva reagire. E doveva farlo ora. Senza esitare o mostrare debolezze.
Altrimenti, avrebbe perso molto di più di quanto preventivato: Henry Samson Lincoln era un figlio di puttana maledettamente deciso a portare a termine il piano, costasse quel che costasse. Lo stesso non si poteva dire di Boniface: sua sorella non era sacrificabile.
-Hai modo di contattare quella donna?-, chiese. Julié scosse il capo, freneticamente, mentre si asciugava il viso in un fazzoletto che aveva preso dal tavolo.
Si trovavano nello studio della tenuta di Boniface. L’uomo rimase in silenzio, ponderando cosa dire e come agire. Il telefono suonò insistentemente. Lo lasciò squillare.
-Julié, ho bisogno che ti concentri. Ho bisogno che mi aiuti, ok? Christine è pericolosa. Dev’essere abbattuta, come un animale randagio. È così che deve finire, e tu lo sai bene. Ho bisogno che tu mi dica tutto quello che ricordi. Ogni cosa.-, disse, imponendosi la pazienza.

Doveva attendere, ottenere qualcosa che gli permettesse di riprendersi l’iniziativa in quello scontro divenuto sin troppo impari.

 

Fino a qualche giorno prima, arrotondando a una settimana, Julié era una ragazza quasi normale. Le sue frequentazioni includevano Christine Buenariva e il suo gruppo e pochi altri.
Fino a qualche giorno prima, la sola preoccupazione di Julié era cosa fare durante il tempo libero, aiutare i genitori, uscire, fare festa e sesso. Godersi la vita per quel che poteva.
Fino a poco tempo prima, la vita di Julie Delinés era stata assolutamente, totalmente lineare.
Ma ora….
Julié sa, Julié capisce che è finita in qualcosa di grosso, ben più di lei. Christiné ha sicuramente pestato i piedi a un uomo pericoloso, ma si è rivelata altrettanto pericolosa e ben organizzata.
E ora, Julié sa di essere al centro dell’equazione, imprigionata tra due nemici in conflitto.
Tutto ciò che vuole, tutto ciò che brama, come un assetato brama l’acqua, è uscirne.
Al diavolo ciò che sicuramente perderà, i soldi, i vantaggi! Al diavolo! Rivuole la vita semplice, la sua routine quasi noiosa, stritolante ma confortevole…
-Io non so niente…-, mormora con appena un filo di voce. Ha sete. Sente le labbra secche.
Boniface le sorride, improvvisamente amabile. I suoi occhi però, Julié lo vede, non ridono.
-Credo di non aver capito. Forse hai bisogno di un po’ d’acqua.-, dice. Lei annuisce.
Una giovane dell’età di Julié o poco più le porge un bicchiere. La giovane beve a grandi sorsi.
-Dicevamo?-, chiede Boniface.
-Io non so niente… non ho capito nulla… È tutto così confuso…-, sussurra lei.
-Capisco.-, ora il sorriso abbandona definitivamente il viso dell’uomo. Si alza. L’abito formale è decisamente di ottimo taglio, ma l’espressione adirata del portatore ne sminuisce il pregio.
-Sono deluso, Julié. Molto.-, dice, -E penso che tu sappia, ma non voglia parlare.-.
-No… io non…-, improvvisamente le porte si aprono. Due guardie, haitiani in uniformi militari, le bloccano le braccia, la ammanettano.
-Io penso che tu non voglia aiutarmi. Mi dispiace, ma ho bisogno di sapere. E ne ho bisogno ora.-, continua Boniface Laffort, decisamente spietato, -Procedete-, ordina.

Le urla di protesta di Julié rimangono inascoltate mentre viene trascinata via.

 

Christine Buenariva aveva un problema. Il problema era assolutamente banale, semplicissimo.
Eppure, era privo di soluzione.
-Li vedi?-, chiese Marco Poretti. Lei annuì, a sé stessa.
-Sì. Li vedo.-, sibilò. Mal tollerava la presenza dell’informatico in quella sua missione.
Non era una cattiva persona, anzi, ma non aveva neanche qualche particolare motivo per piacerle. Era quel che era. Punto. E in quel momento, era una voce utile ma ininfluente.
Soprattutto, incapace di aiutarla nella risoluzione di quel problema.
Stesa in una macchia di vegetazione e indossando una mimetica di nuova concezione, era perfettamente mimetizzata con l’ambiente. La mimetica era costituita da colorazioni idonee alla giungla o a zone ad alta vegetazione ma, a differenza delle mimetiche normali, questa non presentava un disegno uniforme ma spezzato, quasi caotico. Rimanendo ferma, la nera era pressoché invisibile. Il fucile che impugnava era un arma ben più vecchia e affidabile.
Un mc116M russo. Un’arma che non avrebbe dovuto essere lì, come la giovane che la impugnava. Peccato che neanche quell’arma riuscisse a risolvere il problema.

Il problema era semplicissimo: l’enorme e assoluta disparità di forze.
Lei era da sola e aveva due caricatori per il fucile e tre per la pistola, una Beretta M9 oltre a un paio di granate stordenti e a un coltello Cold Steel forgiato in foggia Tantō  a pezzo unico.
I suoi nemici erano almeno una ventina. Nessuna possibilità di riuscire a farli fuori tutti.

-Situazione?-, chiese la voce dell’hacker.
-Di merda.-, sibilò lei, -Sono in troppi. Non esiste che riesca ad ucciderli tutti. Non esiste.-.
-Già.-, disse Marco, -Ora… ritieni di poter trovare un modo per ovviare al problema?-, chiese.
La giovane osservò ancora il campo da fuoco, valutò variabili e scenari in pochi secondi.
-No.-, rispose infine, -Non senza un miracolo.-.
-I miracoli sono finiti da un pezzo.-, disse l’hacker, -Ma per quanto riguarda le soluzioni…-.

Pausa, uno stasimo voluto, sicuramente, volutamente teatrale.
-Quelle ci sono. Eccome.-, il tono di Poretti pareva persino divertito. Solo lo stupore fermò Christine dall’imprecare e dal chiedere all’italiano che cosa diavolo avesse fatto.
E in quel momento, tutto cambiò.

 

Edgard sospirò bestemmiando. Quella droga di merda pesava tonnellate! Ma sotto sotto era soddisfatto. Il carico era arrivato e l’haitiano sapeva che ora sarebbe stata solo questione di tempo, poi avrebbe ricevuto il pagamento dal capo. Pensò che lo pagavano parecchio per un lavoro da soma. Pensò che avrebbe dovuto mettere i soldi da parte, attendere, non farsi prendere dalla tentazione di comprarsi un’auto nuova.
E pensò che si viveva una volta soltanto. Su quest’ultima asserzione, aveva ragione.
Quando vide gli spettri avanzare, fu tardi.

 

Emersero dalla foresta. Christine li vide. Erano alle sue ore tre, a qualche decina di metri di distanza. Da dove fossero arrivati, non lo sapeva. Ma aveva sospetti.
Poco importava: gli spettri avanzarono. Mimetiche militari, armi tutte uguali. Un commando addestrato. Gesti e mimica, comandi impartiti a gesti dal leader che, curiosamente a Christine parve una donna. Poi li eventi accelerarono.
Le armi aprono il fuoco. Centinaia di proiettili, sparati su bersagli ignari, o impreparati. Tra i narcos qualcuno urla, molti di più cadono. Un paio di colpi in risposta. Troppa disorganizzazione, sorpresa assoluta, nessun margine di reazione, nessuna speranza.
Gli spettri calano. Colpi di grazia alla testa, metodici, passi lievi e cauti, divisione del gruppo, tre a destra tre a sinistra. I nuovi arrivati compiono la manovra senza esitare. Veterani.
Qualcuno dei narcos isolati tenta una reazione. Brandiscono fucili e mitragliette senza esitare, ma anche senza la sorpresa, i commando sono sin troppo preparati.
Copertura uno su uno, movimento a squadre. Colpi a segno da una parte e urla dall’altra. Uno dei nuovi arrivati si becca un colpo nella gamba. Cade a terra, prontamente soccorso.
Christine annuisce. Ha visto abbastanza. Prende la mira e spara centrando il narcos che ha osato reagire. Dead-center al centro di massa. Il corpo cade con lentezza assurda.
Era l’ultimo. Sul campo rimangono solo i narcos morti e gli spettri appena giunti. Christine si alzò, lentamente, arma in pugno. Uscì dalla foresta. Qualcuno la vide. Nessuno puntò l’arma.
In compenso, ora Christine aveva una vaga idea di chi fossero quei tizi.
Le armi erano FAMAS, fucili d’assalto bullpup, le mimetiche non erano americane.
-Lunga vita alla Legione…-, sussurrò la nera, non senza un certo stupore.
-Direi.-, rispose la voce della donna (donna!?) a capo del gruppo, -Vive la France!-.
All’ultima esclamazione fece eco il grido di trionfo dei legionari.
-Vi ha mandati Poretti, vero?-, chiese Christine.
-L’idea è stata sua. Ma ho chiesto personalmente di guidare il gruppo. Mio cugino è due turni dentro la Legione e un paio di suoi amici avevano tempo libero.-, sorrise la donna. Antonia DuLac. La baronessa sorrise, chinandosi sul ferito. Nulla di grave, ma necessitava di cure.
-Immagino siano serviti soldi…-, ipotizzò Christine.
-Non un centesimo. Il colonnello sotto cui servono i nostri baldi giovani ha qualche piccolo segreto. Roba brutta. Una storia di giovani donne e bondage finito male. Diciamo che è bastata una mail.-, Antonia DuLac osservò la droga e diede un ordine. I legionari si mossero.

-Le vie dell’hacking sono infinite.-, ghignò la nera. La rossa sorrise di rimando.
-Poretti ha fatto un gran bel lavoro. Shaibat era presa a indagare su altro.-, rispose.
-Già.-, tagliò corto Christine, -Ora, tu e loro?-, chiese. Uno dei soldati consegnò qualcosa ad Antonia. Lei lo passò all’haitiana. Un clacker, un detonatore.
-Poni fine. Penso debba farlo tu, concordi?-, chiese. Lei annuì. Assolutamente.
-Loro dovranno tornare a Rue de Diable Bleu prima che le cose si complichino. Io… Personalmente potrei restare.-, nessuna supplica né imposizioni nel tono della donna dai capelli ramati. Christine riconobbe la proposta. Prese il detonatore. Poi andò verso i corpi. Li frugò. Trovò ciò che cerca. Si allontanò.
Cinque minuti dopo il boato e il silenzio furono tutto ciò che si udì.

 

-La droga è arrivata?-, chiese Boniface Laffort. Henry non rispose. Fissava l’orizzonte. Non aveva un buon presentimento. Per niente. Laffort si avvicinò, osò mettergli una mano sulla spalla. Henry non reagì. Sentiva, percepiva che qualcosa stava andando male. Molto.
-Sicuro di aver fatto bene a consegnare quella ragazza ai tuoi?-, chiese, cambiando discorso.
-Quella troietta sa qualcosa. E se non lo sa… beh, i ragazzi hanno bisogno di svago.-, tagliò corto Boniface. Henry annuì, pensò che si stesse sbagliando. Julie non sapeva nulla.
E ora, stava patendo le pene dell’inferno per niente. Cose del genere non si dimenticavano mai. Era quel genere di situazione da cui uscivi un rottame o uscivi più forte. In ambo i casi, Boniface stava commettendo un errore di valutazione e bello grosso.
Non il primo. Neanche l’ultimo. Ma sicuramente uno grave. Henry tornò a scrutare il panorama di Haiti davanti a sé.
-Amico mio, che ti succede?-, chiese Boniface.
-Ho un pessimo presentimento.-, rispose il trafficante. Il politico storse il naso.
-Non badarci. Sei nervoso, ma va tutto bene. Uno dei miei ha confermato che la droga stava arrivando. Ci contatteranno a minuti, vedrai.-, disse bonariamente.
Henry sospirò. L’ottimismo dell’haitiano non era contagioso. Ma era inutile inimicarselo.
-Forse sono un po’ nervoso. Tu no? È un colpo bello grosso.-, chiese.
-Già. Il nostro colpo che aprirà nuove possibilità per quest’isola e per noi!-, esclamò Boniface.
Proprio in quel momento il cellulare suonò.
-Pronto?-, chiese Henry senza neppure guardare il numero. Sapeva che era uno dei suoi.
Ma a rispondere fu un’altra voce. Di donna. Una voce che Henry non aveva mai sentito. Dal timbro tipico di Haiti ma senza il calore, anzi, fredda come il ghiaccio.
-Mettimi in vivavoce.-, disse. Henry scosse il capo.
-Chi sei? Come hai avuto questo numero?-, chiese.
-Il nome è Christine Buenariva. E ora mettimi in vivavoce.-, rispose la donna. Henry sospirò. Eseguì. Posò il telefono sul tavolo. Alle prime parole di Christine Buenariva vide il viso di Boniface cambiare radicalmente espressione.
-La vostra preziosa droga è cenere al vento. Sto arrivando per voi.-, disse la voce della donna.
Poi la comunicazione fu chiusa, brutalmente.
Henry rivolse uno sguardo a Boniface. Con sua somma disapprovazione, lo sguardo del nero era rivolto a ben altre latitudini. Lo evitava, conscio della verità insita negli ultimi eventi.

 

Boniface Laffort non guardò Henry. Non guardò proprio nulla. Pensava solo a una cosa.
Sua sorella, la sua amante, la donna della sua vita, in mano di altri.
Tutto si stava sgretolando. Lo sapeva. Ma non riusciva ad arrestare la caduta. Ormai poteva fare solo una cosa. Si voltò verso il trafficante.
-Christine Buenariva morirà presto. Farò mettere una taglia sulla sua testa.-, decise con tono monocorde e privo di enfasi. Henry scosse il capo.
-Con che soldi? Quelli della droga appena andata in fumo?-, chiese. Boniface sorrise. E il suo sorriso fu tutt’altro che piacevole a vedersi. Era un sorriso da predatore e lo sapeva.

-Con i miei soldi. Christine Buenariva è un mio problema. Ed è rimasto tale anche troppo a lungo.-, disse.

 

Nonostante il recente ferimento al braccio ad opera di Lucia, Antonia DuLac non rallentava. Lei e Christine avevano macinato chilometri, raggiungendo l’entroterra, sino a trovare alloggio presso una piantagione, sovvenzionata da qualche multinazionale straniera ma sicuramente gestita da gente avida e decisa a guadagnare.
-Qual’è la prossima mossa?-, chiese Antonia mentre controllava l’equipaggiamento. La nera stava facendo lo stesso, lentamente. Con metodo.
-Manterrò la promessa. Andrò a prenderli.-, i pugni di Christine si serrarono, -Uno ad uno.-.
-Buona idea. Ma come pensi di fare?-, chiese la donna dai capelli ramati. Stappò una bottiglia d’acqua e bevve a garganella. Christine non rispose. Era evidente che non aveva un piano.
Bel problema: mai, mai agire senza pianificare. Indipendentemente da quando la situazione fosse grave o emotivamente difficile, Antonia DuLac ne aveva fatto un dogma.
Mai agire senza un piano.
-Ho qualche idea.-, rispose Christine.
-Sono tutta orecchi.-, disse la ex-baronessa.

 

Julié Delinés mormorò qualcosa di incoerente. Una supplica a qualche dio che pareva irraggiungibile. Le labbra erano screpolate, aveva sete, fame e sentiva male. Ovunque.
L’avevano picchiata, ma con metodo. Ordini di Boniface? Forse. In ogni caso, c’erano andati pesanti ma senza esagerare. Aveva perso conoscenza. Si era ritrovata con un polso ammanettato a un anello nel muro di un casolare in muratura spoglio e afoso.
Non l’avevano violentata? No. Pareva di no.
L’uomo che entrò aveva gli occhiali da sole anti-riflesso tipici del gruppo di miliziani e tagliagole fidato di Boniface Laffort. Viso tondo, carnagione scura e mimetica militare.
Julié notò i gradi. Un ufficiale? Forse. Insieme a lui erano entrati altri due uomini.
La giovane sussultò quando lui le rivolse uno sguardo indecifrabile. L’avrebbe picchiata?
O peggio? E cosa poteva dire? Aveva già detto tutto… Tutta la verità.
-I miei uomini sono stati… ingiusti.-, disse lui. Lei mormorò qualcosa.
-Acqua…-, si sforzò di dire. Sentì la gola roca, gemere di dolore. Una bottiglietta d’acqua le fu porta dall’ufficiale. Julié bevve senza curarsi realmente di quanta le finisse addosso, lordando ulteriormente il vestito che, dopo le percosse e il fango del pavimento di quella baracca, era divenuto uno straccio lurido.
-Io ho bisogno di quelle risposte. E ne ha bisogno anche il capo.-, disse l’ufficiale.
-Lo so… ma… io non so niente…-, sussurrò la nera. Il milite sospirò.
-Julié, pensavo fossi più sveglia di così.-, mormorò con atteggiamento sconsolato.
-Ma io non posso dirvi quel che non so!-, esplose la giovane con rabbia dettata dalla disperazione. Si afflosciò sul pavimento, piangendo. Di nuovo.
-Già. Non puoi dirci niente.-, disse l’ufficiale. Le credeva? Sollevò il capo.
-Ma io devo ottenere delle risposte. Devo, capisci?-, chiese il nero. Si sfilò gli occhiali, mettendo a nudo un viso deturpato da una cicatrice di lama che attraversava il viso dal sopracciglio destro allo zigomo opposto. Il naso era quasi diviso in due da un solco.
-Vuoi che menta?-, chiese Julié. Voleva solo che quell’incubo finisse. Con tutta sé stessa.
-No. Voglio che ricordi. Particolari, frasi, volti. Anche il più piccolo dettaglio.-, disse l’uomo.
Julié emise un rantolo. Incominciò a parlare. Ci mise quindici minuti.
L’uomo la fissò, apparentemente immobile, indecifrabile come quando aveva gli occhiali.
-Sono deluso, Julié. Mi aspettavo ben altro. È evidente che non hai prestato attenzione.-, disse.
-Io…-, iniziò lei. Lui alzò una mano, lei si fermò, congelata, bloccata.

-Tu ora devi solo ricordare. E… io e i miei uomini qui, ti aiuteremo a farlo.-, l’ufficiale si alzò.
Il cuore della giovane aumenta i battiti, improvvisamente l’adrenalina snebbia la mente.
Julié ora nota dei particolari. Ne nota diversi. Per iniziare gli uomini non sono armati.
Secondariamente ognuno di quegli energumeni ha un’espressione che Julié ha imparato a riconoscere. La faccia compiaciuta del maschio che guarda la femmina scelta.
E, terzo dettaglio, Julié nota il turgore dei membri degli uomini, evidente anche attraverso il tessuto mimetico dei calzoni delle divise.
-Siamo tutti più che convinti che ciò che ti serve è proprio questo: essere scopata come la puttana che sei.-, la voce dell’ufficiale non sale oltre la soglia della pacatezza.
-E ti posso garantire che non siamo i soli. Ce ne sono parecchi là fuori. E ti ripasseranno tutti. Come e quanto vorranno. E tu, alla fine ricorderai tutto, ogni singolo istante della tua… prigionia. E ci dirai tutto. Perché sappi che finché non parlerai, noi non ci fermeremo.-, l’ufficiale sorride, un ghigno più che un sorriso, -Chissà… Può anche darsi che ti piaccia…-.
-Vi prego…-, inizia Julié. Ora prova terrore, assoluto. Sa che non può impedire, non può fermare. Che semplicemente non può evitare.
“È come se un baratro oscuro si fosse spalancato e io ci stessi cadendo dentro…”, pensa.
Si domanda fugacemente se tutto questo fosse parte del piano di Christine per punirla, o se invece è tutto un terribile malinteso, un accanimento non necessario…
Oppure, semplicemente, l’universo odia e basta. Semplicemente, l’uomo è animale.
Julié guarda la falange di militi avvicinarsi. Uno si è già tolto i pantaloni esponendo un membro già eretto. L’ufficiale le si avvicina. La nera scuote il capo, disperata. Lui annuisce.
Il ceffone successivo segna l’inizio di un nuovo incubo.

 

-Quest’idea è folle. Semplicemente folle.-, protestò Antonia.
-Sì. E funzionerà per questo.-, rispose Christine, senza la benché minima irritazione.
-Parli di attaccare una posizione con almeno venticinque uomini.-, disse l’altra, -Da sole.-.
-Impossibile?-, c’era un tono di sfida nella voce della nera.
-No. Ma così… senza altro equipaggiamento siamo sicuramente messe male.-, disse Antonia.
-E invece no. Inoltre, quella postazione era già nota prima.-, disse Christine, -Andare a colpire è un passo logico. In più, ho fatto una promessa a Boniface Laffort.-.
-Abbiamo solo le tue armi, le mie e un paio di granate. Non siamo messi bene.-, rispose l’ex nobildonna. Christine annuì.
-Abbiamo l’arma più potente di tutte.-, disse. Gettò qualcosa alla donna dai capelli ramati. Lei prese al volo. Due cellulari. Due cellulari da strada. Straccioni.
-L’improvvisazione.-. E a quel punto, solo a quel punto, Antonia DuLac si concesse di sorridere a sua volta, l’indecisione bandita, rimpiazzata dalla consapevolezza dell’azione imminente.
-Allora andiamo. Quanto dista?-, chiese.
-Qualche chilometro. Ruberemo un’auto. Marco mi ha detto che c’è una taglia sulla mia testa. Boniface ha deciso di fare le cose in grande, quindi…-, Christine mostrò una ciotola, un impasto di roba vegetale. Aveva il colore del cioccolato. L’odore era diverso. Più chimico.
-Dovrò cambiare faccia.-, disse. Aveva intanto tratto una borsa, roba sgraffignata in giro, o forse no.
-È rischiosissimo.-, le fece notare Antonia, tutto sommato però capiva. Non c’era scelta.
Se non reagire, attaccare, colpire con più forza a ogni affondo subito.
La storia delle loro vite. Occhi negli occhi con Christine Buenariva, la donna dai capelli di rame lesse tutto ciò in quello sguardo e molto altro. Annuì, ogni dubbio fugato.
La loro vita era anche quello. Balzare nel buio senza esitare, con la consapevolezza che un giorno o l’altro, il buio le avrebbe ghermite.
Christine si sedette dandole le spalle, si tolse la mimetica e il tank top.
-Quando vuoi.-, disse. Antonia annuì. Eseguì. Ci mise poco. E pochi minuti dopo erano fuori.

 

Julié non piangeva più.
Le lacrime erano finite dopo che il secondo uomo le era venuto dentro. Ora sentiva solo l’ennesimo membro entrare e uscire, brutalmente, con foga, invaderla, ritrarsi e invaderla ancora. Il peggio era che ora la giovane odiava. E odiava sé stessa.
Quanto era stata stupida: fidarsi di Boniface! Ma soprattutto, si odiava per un altro motivo.
Perché in un modo contorto e privo di logica, al suo corpo iniziava a piacere. Essere posseduta così, stuprata a più riprese da quel branco di brutti ceffi…
L’uomo che la stava penetrando si tolse ed eiaculò a grandi fiotti sul suo vestito, strappato e sollevato sino alle anche. Gocce di sperma le piovvero addosso sul pube e sul ventre.
Andarono ad unirsi ad altre gocce, ad altre secrezioni, ad altra lordura.
Julié odiò quell’uomo. Attraverso la nebbia di un dolore indicibile ne distinse il volto. Lo sfregiato ufficiale le sorrise.
-Tornata la memoria?-, chiese. La nera scosse il capo. Non ricordava. Ma, anche ricordando, si accorse improvvisamente che ora non sarebbe riuscita a dire nulla. Mai.
Quei bastardi l’avevano privata dell’ultimo brano di dignità, di speranza rimastole.
E quel che era peggio, le stavano fottendo corpo e mente, facendole quasi desiderare che continuasse, che quello stupro selvaggio proseguisse sino al parossismo.
Come a voler esaudire quel desiderio inconfessabile, un altro uomo venne avanti. Le strizzò una tetta senza alcuna remora. Julié aprì la bocca in un urlo. Un secondo uomo le affondò il membro in gola, tenendole la testa. L’altro cominciò a rovistarle tra le cosce, sondò l’ano.
Julié si ritrovò a pregare che qualcosa impedisse quell’ultima profanazione. Mai, mai a nessuno, aveva concesso il suo orifizio anale…
All’ultimo, quasi per miracolo, l’uomo cambiò idea, affondandole nella vulva già aperta dopo le precedenti invasioni. Il sollievo della giovane durò poco.
L’altro, quello che le aveva preso la testa, aveva iniziato ad affondarle fino alla glottide. La giovane provò un conato, rischiando quasi di soffocare. Emise un gorgoglio.
La massa di quel pene era semplicemente troppa. L’uomo le venne in gola. Rischiando di soffocare, Julié iniziò a tossire. L’altro la colpì. Un ceffone la stordì. Il secondo fu quasi peggio.
In quel momento, l’altro uomo godette. Le venne addosso, anche lui.
L’ufficiale sorrise. Gli uomini si alzarono, sgocciolando smegma dai membri ormai svuotati, eppure ancora decisamente grossi.
-Non ricordi ancora?-, chiese. E fu in quel momento, solo in quello, che Julié comprese.
Christine aveva provato qualcosa di simile? Forse. O forse invece, ciò che aveva passato era stato anche peggio. In ogni caso, la giovane improvvisamente fu travolta da una rabbia, da un odio assoluto, per quegli uomini e per sé stessa. Per la sua debolezza.
“Basta. Basta così!”, pensò. Si sforzò di guardare in faccia l’uomo. L’ufficiale la guardò.
Nessun timore, forse neppure la comprensione di ciò che stava accadendole davvero.
Sotto braci sopite, oltre il dolore e il degrado, al di là della carne offesa, della bellezza lordata, dello stupro e dell’atroce sofferenza inflittale, improvvisamente, Julié Delinés provò qualcosa.
Una furia tale da annichilire tutto il resto, ricacciò nelle tenebre anche il dolore. La nera snudò le fauci in un ghigno di disprezzo che doveva essere animalesco.
-Vaffanculo!-, ringhiò. L’ufficiale sorrise, bonario.
-Allora continueremo. Ancora e ancora e ancora. Se non hai nulla da dire, allora diverrai solo questo: una troia.-, disse. Improvvisamente si fermò, improvvisamente forse, capì.
La nera lo fissò. Era coperta di secrezioni, stanca e sapeva bene che era esposta come l’ultima delle puttane da strada agli sguardi dei maschi. Ma, improvvisamente, non le importava più.
Julié Delinés aveva attraversato il confine, aveva conosciuto il baratro, quello vero.
Speranza? Possibilità di redimersi? Di dimenticare? Follia!
Esisteva solo una cosa. Sopravvivenza. E vendetta. Ora capiva. Lei l’avrebbe ucciso.

L’ufficiale annuì. Fece un cenno. Altri due uomini avanzarono.

 

In macchina, Christine controllò nuovamente l’equipaggiamento. Tutto pronto? Sì.
Il punto era stato localizzato grazie al contributo di Poretti. Il giovane aveva anche avvisato della taglia sulla sua testa, cosa che non aveva fermato Christine neanche per un secondo.
Era ricercata? E allora? Se si fosse fatta fermare dalla paura avrebbe davvero perso.
Antonia guidava come se fosse stata fusa al volante. Superò una biforcazione, dirigendosi verso il punto in questione: una vecchia proprietà rilevata da Boniface. Usata come deposito e per far sparire gente avversa al suo regime, prossimo a imporsi.
Ma laggiù, a detta di Christine e di Marco, c’era anche qualcun altro. Un uomo.
Un giornalista scomodo. Boniface l’aveva rapito perché ucciderlo sarebbe stato problematico e quell’uomo si era rivelato probabilmente più furbo di molti altri paparazzi idealisti privi di cervello e animati solo da nobili ideali di verità e giustizia ma incapaci di comprendere il pericolo che l’haitiano poteva rappresentare per loro se avessero detto quella mezza parola in più. Christine Buenariva sapeva, con assoluta certezza, che quel giornalista poteva essere un alleato per esporre al meglio Boniface, per prepararlo alla parte finale del suo piano.
Contrariamente a quanto detto ad Antonia, lei non aveva solo un piano, aveva molto di più.
Aveva diversi piani. E tutti avevano una cosa in comune.
Finivano tutti quanti con la morte di Boniface Laffort e di Henry Samson Lincoln.

 

Jean-Luc sospirò massaggiandosi l’inguine. Se lo sentiva durissimo. Era un po’ che aspettava il suo turno per fottere quella prigioniera. Esser di vedetta quella sera era uno strazio atroce.
Boniface aveva messo una taglia su quella tipa che era scappata, questo l’haitiano lo sapeva, e ora un’altra tipa non voleva confessare quel che sapeva, così il comandante aveva detto che tutti avrebbero potuto sbattersela. Un piccolo regalo per la truppa, e ci sarebbe mancato vista la paga da fame e la noia. Jean-Luc guardò la mitraglietta che teneva per le mani. Un ferro inutile: nessuno avrebbe attaccato quel posto. Nessuno lo aveva attaccato per mesi, nessuno aveva sollevato obiezioni quando Boniface ne aveva preso possesso, sloggiando una banda rivale a colpi di mitra e machete. Nessuno avrebbe attaccato. Punto e basta.
L’haitiano sospirò, accendendosi un joint. Inspirò una boccata. Meglio? No. Ma tra qualche minuto, forse lo avrebbero chiamato, forse sarebbe toccato a lui! Sperava di sì: da quando aveva visto quella giovane aveva subito fatto il paragone con sua moglie. E quella giovane vinceva a mani basse. Poco lontano da lui, Marc gli sorrise, come indovinando i suoi pensieri. Il poveraccio era di guardia con lui, ed erano buoni amici. Jean si limitò a sorridere di rimando.
Sperava solo che la troia non fosse troppo sporca di sborra altrui. Gli avrebbe fatto un discreto schifo doversela fare mentre era già farcita… Sorrise alla battuta oscena.
Fu solo quando sentì il filo di una lama sul collo, una mano sulla bocca a soffocare il grido di sorpresa e un ginocchio piantato alla base della schiena per impedirgli ogni reazione che capì quanto si era sbagliato. Sentì il suono già ben noto di una lama che affonda nella carne. Un corpo fu adagiato a terra. Quello di Marc.
-Ora tu e io parleremo un po’.-, disse la voce di una donna. Jean-Luc annuì senza parlare, vinto.

 

-Marc! Jean-Luc!-, esclama una voce impastata, -Ora tocca a voi sbattervi la troietta!-.
I due sono un’accoppiata quasi comica: armi tenute in modo dilettantesco, atteggiamento smargiasso, completa noncuranza dell’ambiente circostante, assoluta fiducia nella supremazia sul territorio, senza peraltro averla mai vista messa alla prova. L’abc del morto che cammina.
Antonia DuLac attende, paziente a dispetto del caldo e degli insetti, che i due saltimbanchi escano dalla zona illuminata dai lampioni.

L’avamposto non è un presidio militare: poche baracche rinforzate e nessuna reale opera difensiva, la dimostrazione di come non allestire un avamposto in breve. Nondimeno, il vantaggio numerico dei nemici è qualcosa di cui tener conto.
Per questo, Antonia attende. Ancora un istante. Calcola rapidamente quale dei due abbattere.
Quello davanti distanzia l’altro di qualche passo. È più vicino a lei, e curiosamente è anche quello meno concentrato. Di che cosa stessero parlando, Antonia non ha idea, non le interessa.
Per ora c’è solo lei, il suo fucile, il dito sul ponticello e la consapevolezza che deve fare un lavoro privo di sbavature. Spara.
Il tizio dietro quello che sbraitava, un mingherlino tutto muscoli, sicuramente più consapevole della situazione del suo compare, viene centrato in pieno volto. L’altro si volta. Vede.
L’urlo che sta per emettere viene strappato via, insieme alla parte posteriore del suo cranio, dal proiettile successivo. Due a terra. Antonia si alza, piano, cautamente.
Campo libero. I cortile è sgombro. Christine la raggiunge.
-Parlavano di una troia.-, dice la donna dai capelli ramati.
-Già. So di chi parlano, o almeno credo. Muoviamoci.-, fu la risposta breve della nera.

 

La camerata è occupata da cinque uomini. Nessuno di loro è al suo massimo. Alcuni stanno già schiacciando un pisolino. Due di questi sono svegli e uno è persino lucido.
Nulla di tutto ciò ha importanza: Christine e Antonia irrompono di botto. Nessun’ostaggio in vista e nessuna pietà. Sanno già quel che devono sapere. La donna dai capelli ramati apre il fuoco con il Famas. Fuoco a raffica. I colpi silenziati abbattono i bersagli dalla sua parte. Christine spara con altrettanta rapidità con la pistola. Il silenziatore di fortuna non delude e in poco tempo, gli occupanti della camerata sono morti. Nessuna perquisizione: non serve.
-Restano solo due edifici.-, dice Christine, -Pensiamo prima a quello dove si stanno… divertendo.-, l’ultima parola è ammantata di un autentico odio. Antonia annuisce. Ricarica.
L’aria è ammorbata dall’odore di cordite, di sangue e morte violenta.

 

Julié non piange. Semplicemente non piange più. Odiarsi? Lo fa. Si odia per il suo essere stata debole. Per ogni atto di vigliaccheria. E la sua verità, divenuta così orribilmente palese, ora è tutto ciò che le resta. L’ennesimo uomo le schizza il proprio seme addosso.
Stimoli sensoriali lontani. Gli occhi della giovane sono piantati fissi nell’ufficiale. Questi la guarda, sorridente. Sa che cederà. Ma quello che lui e gli altri non hanno capito, è che lei non ha più nulla, proprio nulla da dire. E quello che quell’uomo non ha capito, soprattutto, è che lei lo ucciderà. Rabbia. Una sfera, un nucleo d’ira immobile ora è dentro di lei, rovente ben più del seme che la lorda, più furioso del battito cardiaco che sente nel petto.
Ora è oltre il suo essere. Non è più lì. È semplicemente volontà, tesa verso uno scopo.
Fargliela pagare. A lui, a loro. Julié non avrebbe mai creduto che un’ira simile potesse esistere.
Ma esiste. E ora, lei ne sente il calore, intenso come quello di un sole. Implorante libertà.
Muove spasmodicamente braccia e gambe, goffamente. Sente il sangue tornare a irrorare ciò che per tempo è stato immoto. Riprende sensibilità, riprende consapevolezza dell’uomo che, sopra di lei, sta entrandole dentro. Lo fa con tanto distacco da esserne sorpresa.
L’uomo sorride. Evidentemente si accorge del fatto che ormai le sue mucose non fanno più resistenza. Il corpo di Julié è talmente abituato a simili assalti ormai da non offrire resistenza.
La giovane non si fa impensierire da quel dettaglio: il corpo l’ha tradita tempo fa. Quanto? Non lo sa, non le importa. Non le piace quel trattamento, ma di fatto al suo corpo non dispiace e quello le fa schifo. Quello e l’essere ridotta a un cazzo di oggetto di piacere per quei bruti.
Improvvisamente, la giovane nota il particolare. La fondina dell’uomo che la sta possedendo è aperta. Deve solo fare alla svelta… In quel preciso momento, la porta della baracca si spalancò.

La distrazione fu un istante. Ma tutto ciò che Julié necessitò. Si mosse, strappò la pistola dalla fondina e sparò al suo stupratore due colpi. La distanza minima rese inutile mirare. Impatti al corpo. L’uomo le si afflosciò addosso. L’ufficiale, intento a tentare una reazione, neanche si accorse della pistola che cambiava direzione. Neanche vide la minaccia.

Julié gli scaricò l’intero caricatore in corpo. Lottò per strapparsi di dosso il corpo che la ingombrava. Sentì il membro del morto assurdamente ancora duro, sgonfiarsi lentamente.

Qualcuno la aiutò. E si trovò a fissare il viso di Christine Buenariva.

 

Christine osservò Julié. L’irruzione era stata metodica e rapida. La giovane a terra, nuda salvo per il vestito sollevato e lurido, la guardava. Senza emozioni, senza neppure piangere, senza rabbia. C’era solo vuoto in quell’espressione, l’assoluto baratro. Il mondo intero fagocitato dall’imperativo di vivere, di sopravvivere, di spegnersi ridendo mentre tutti piangevano, dopo essere rinata piangendo mentre tutti ridevano.
Ora è come me. Ora sa. E se vuole uccidermi… Io non farò nulla per fermarla.
Movimento. Antonia. Christine si mosse a sua volta. Abbassò la canna del mitra. Perentoria.
Era diritto di Julié prendersi quella vendetta. E se l’avesse fatto, Christine lo avrebbe permesso. In un certo senso, sapeva di meritarlo, era stata lei a rispedirla a Boniface. Avrebbe dovuto sapere. Avrebbe dovuto prevederlo. E avrebbe dovuto importargliene.
Invece no. Ciò che contava era la vendetta, era la giustizia. E i traditori dovevano pagare.
Anche se questo significava includere sé stessa nella lista dei meritevoli di una pallottola in testa, Christine sapeva che era semplicemente così. Lo aveva sempre saputo. Sempre.
Sin da quando quel vescovo malvagio e indegno del dio che diceva di servire l’aveva stuprata.
Ora però, di tutto ciò era conscia anche Julié. La guardò, senza espressione.
Poi, con una lentezza atroce, Julié posò la pistola. E iniziò a piangere piano.
Il suo pianto era qualcosa di terribilmente noto. Le ricordò un altro piano, una vita prima.
Christine si chinò, scivolò in ginocchio. Gentilmente ma con forza le tolse le mani dagli occhi.
La costrinse a guardare. Ad accettare.
-Puoi fare due cose ora., Julié-, disse, -Puoi decidere che è troppo e farla finita… O continuare. E vedere dove porta questa strada.-. Parlò con una dolcezza che non ricordava di poter tramutare in parole. Forse perché, in quella giovane sofferente, vedeva sé stessa.
Antonia DuLac, testimone ignara della metamorfosi in atto, o forse realmente più conscia di essa di quanto desse a vedere, piantonava l’ingresso.
-Ma devi scegliere. E dev’essere una scelta per sempre.-, sussurrò Christine. La giovane la guardò. E annuì. Christine le porse la mano. Lei la accettò. Si tirò in piedi. Si tolse l’abito.
La nudità non pareva inquietarla. Trovò i calzoni di uno dei morti. Strinse la cintura al massimo. Indossò la maglia di uno dei morti. Prese la pistola.
-Andrò incontro al domani.-, sussurrò. Christine annuì.
-C’è ancora il quonset centrale. C’è qualcuno lì? Un giornalista?-, chiese Antonia.
-Forse… Io non lo so.-, ammise Julié.
-Scopriamolo.-, disse Antonia.

 

Henry Samson Lincoln non era sopravvissuto tanto a lungo, non era arrivato tanto in là senza una certa quantità di intuito. E il suo intuito gli diceva che la partita si stava mettendo molto, molto male. Christine Buenariva era un’avversaria di diverso tipo da quella che Boniface credeva. Era determinata, e l’idea di avere una taglia sulla testa non l’avrebbe spaventata.
Il trafficante gemette appena. La lingua della giovane che stava ripetendo la gradita prestazione orale già elargita in precedenza e con ben maggior zelo lo stava sollecitando a dovere. Eppure, non riusciva a godersi quel pompino con la dovuta rilassatezza.
La ragazza, beatamente ignara, continuava a succhiare, a leccare. Motivata dai soldi, sembrava veramente tenerci alla sua soddisfazione. In qualunque altro momento, l’avrebbe appagato.
Ma in quel momento, Henry aveva ben altri pensieri.
Boniface Laffort era sicuramente capace di scatenare una caccia all’uomo sul suo territorio, ma, poco ma sicuro, una misura simile non l’avrebbe tenuto al sicuro da Christine in eterno.

Parimenti, chiudersi in difesa non era la soluzione. Avrebbero dovuto cercare di attirare quella giovane in trappola, per poi ucciderla e farne un esempio.
Solo che, trattandosi di Christine, Henry sapeva bene che pensarlo e farlo erano due cose ben distinte, due concetti quasi inavvicinabili.
La giovane cameriera aumentò il ritmo, apparentemente conscia del fatto che l’uomo avesse i suoi pensieri in testa. Henry la fermò. Le premette la testa contro il ventre, costringendola a succhiarlo sino allo scroto. Udì gorgoglii, rantoli, conati?, lasciò la presa. La giovane se lo sfilò di bocca. Lo guardò. Interrogativa, preoccupata. Non capiva.
Henry non disse nulla. Per più di un motivo.
La giovane parve comprendere, capire che la sua presenza non era più necessaria. Si eclissò piano, raccattando le banconote sul tavolo.
Ricompostosi, Henry Samson Lincoln ponderò la situazione, con fredda, analitica, spietata calma. Deciso il corso d’azione, annuì. Ce l’avrebbe fatta. A dispetto di tutto e tutti.

 

L’ultimo dei gangstars di Boniface crollò a terra, il machete piantato nel collo.
Antonia si guardò attorno. Le celle erano poche, cinque. Di quelle cinque, una sola era piena.
La donna dai capelli ramati si guardò attorno. Christine divelse il machete dal collo del morto.
-Il giornalista dovrebbe essere qui dentro.-, disse. Aprì l’ultima cella con le chiavi che Julié aveva recuperato dal corpo dell’ufficiale.
Il giornalista effettivamente c’era. Il viso corrispondeva a quello delle foto. Purtroppo però, il pallore e l’immobilità non lasciavano dubbi e un breve controllo da parte di Antonia confermò i loro sospetti: il poveraccio era morto.
-Pare che abbiamo fatto tutto questo per niente.-, sospirò la donna dai capelli di rame.
-Non è vero…-, mormorò appena Julié, -Non è per niente.-. Antonia annuì, capiva ma rimaneva che Boniface era comunque inattaccabile. Christine estrasse lo smartphone.
-Farò qualche foto al cadavere. Sicuramente la stampa saprà cosa farne.-, disse, -Daremo comunque un po’ di fastidio a Boniface.-. Improvvisamente, lo smartphone suonò.
-Sì?-, chiese Christine una volta pigiata l’icona di risposta. Sapeva già chi fosse.

 

Boniface sospirò. Ancora nessuna notizia. Sperava che la taglia stesse facendo effetto, e si domandava anche se i suoi uomini fossero riusciti a far parlare Julié Delinés.
In ogni caso non intendeva correre rischi. Aveva mandato una pattuglia all’avamposto dov’era rinchiusa la giovane. Era ora di passare alle maniere forti.
In più, aveva anche inviato diversi suoi uomini a perlustrare le zone più isolate di Haiti.
Christine Buenariva aveva i giorni contati, ma Bonfiace Laffort non intendeva concederle alcuna possibilità. Aveva già fatto pressioni sul capo della gendarmeria affinché si unissero a lui nella caccia a quella ragazza. Avrebbe ricevuto risposta a breve. Per ora, poteva rilassarsi.
Ma la verità era che non riusciva a rilassarsi. Non ancora.
Sua sorella continuava a occupare i suoi pensieri. Uccidere Christine non gliel’avrebbe ridata.
Posto che fosse ancora viva. Ma anche in quel caso, forse quella maledetta ragazza sapeva dove fosse stata rinchiusa. Era possibile? Forse. Non poteva escluderlo.
Bevve d’un fiato il gin, pensando che doveva assolutamente stabilire e mantenere le priorità.
Era vicino alle elezioni presidenziali, aveva numerosi appoggi e le proiezioni lo davano vincitore. Doveva assolutamente mostrarsi sicuro di sé, privo di dubbi o tentennamenti.
Doveva essere l’uomo forte che Haiti necessitava da troppo tempo.
Doveva. O tutto sarebbe andato in vacca. Per quanto fosse in pensiero per Lucia, si sforzò di rinchiudere il suo turbamento nelle profondità del suo essere. Nessuno, nessuno doveva vederlo vacillare. Non ora.

 

Defilarsi era stata questione di attimi. Antonia aveva guidato senza averne reale consapevolezza, automatismi affinati in anni di vita sul limite. Christine accanto a lei taceva, zitta. In silenzio quasi religioso. Pareva un’Erinni priva di anima, giunta per il giusto castigo da infliggere ai malvagi.
Dietro, sui sedili posteriori, “Julié” pareva essere crollata. Dormiva accovacciata in una sorta di posizione fetale, i pugni chiusi, il viso corrugato. Gli incubi la stavano probabilmente tormentando anche in sogno.
Antonia non sapeva se fidarsi di lei. Potendo, l’avrebbe lasciata andare per la sua strada. E sicuramente, neppure Christine era tanto idealista da pensare che lasciare che lei stesse con loro fosse un bene.
La sortita era stata un successo, operativamente parlando. Ora dovevano solo decidere la prossima mossa. E avanti sino alla vittoria…
O finché la vittoria non sarebbe più stata possibile. In ogni caso, sino alla fine.
Fece una curva e ponderò attentamente se esprimere i suoi dubbi. Infine decise.
-Sei sicura che sia una buona idea?-, chiese accennando con il capo ai sedili posteriori.
-Sì. Anche perché lasciarla tornare a casa significherebbe riconsegnarla a Boniface, stavolta con qualche informazione in più.-, disse Christine. La nera non si era neppure voltata.
-Ok. Ma rimane che non abbiamo cibo, né armi, né un posto nostro dove riorganizzarci.-, disse Antonia, evidentemente inquieta da quella penuria organizzativa.
-Io ce l’ho.-, disse la voce di Julié. Antonia la guardò, concedendosi di perdere di vista la strada.
“Da quanto tempo è sveglia? Cosa ha sentito? Che tipo di idee si sarà fatta? Ci possiamo fidare?”. Paranoia. Pura e semplice paranoia. Un difetto secondo la società “civile”, ma il salvavita, reale spartiacque tra cadaveri e superstiti nel mondo delle legioni sotterranee.
-C’è un posto… è la casa di un mio cugino. Lui è lontano, in Francia. Per lavoro. Nessuno ci disturberà lì.-, disse Julié.
-Un po’ tanto evidente per chiunque ti cerchi…-, notò la donna dai capelli ramati.
-Già. Ma non abbiamo scelta.-, decretò Christine.
-Siamo quasi a Grande-Saline. Prosegui verso la costa. Poi verso destra per… almeno dieci chilometri oltre il porto.-, disse Julié. La voce era stanca, piatta.
Era evidente che la giovane fosse in uno stato di prostrazione mentale ed emotiva che l’aveva portata a cercare di spersonalizzarsi, di estraniarsi da ciò che le era accaduto.
-Ok.-, disse Antonia, -Grazie.-.

 

Era quasi l’alba. La casa era abbastanza malmessa, ma Christine aveva visto ben di peggio.
Il fatto che fosse impolverata ed evidentemente disabitata da mesi non fermò le tre donne dall’entrare. Antonia aprì la porta con un grimaldello.
L’interno era una pena: una sala comune, una camera da letto, un bagno, fine.
-Ok.-, disse Christine, -Vediamo di organizzarci.-.
-Ho bisogno di una doccia.-, disse Julié. La giovane tremava, ma non per il freddo.
“Shock. Stanchezza. Tutto assieme…”, pensò Christine. Annuì quasi inconsciamente alla volta della ragazza che si diresse verso il bagno.
-Dovrebbero esserci ancora i miei vestiti… Mio cugino mi ha ospitata qui qualche settimana prima di partire…-, disse Julié mentre controllava le riserve idriche. L’acqua era poca.
Ma c’era, ed era già qualcosa.
-Cosa facciamo ora?-, chiese Antonia. Christine non rispose, non subito. Squadrò l’ambiente.
-Si passa alla parte due del piano.-, disse.
-Che sarebbe?-, chiese la donna dai capelli ramati.
-Vedrai.-, si limitò a rispondere la nera. Il rumore della doccia si aggiunse all’altrimenti quasi nullo sottofondo di passi, armadi aperti e altro. Le provviste in casa erano pressoché nulle.

-Siamo comunque in inferiorità e braccate. Penso sia ora che tu mi dica cos’hai in mente.-, disse Antonia senza mezzi termini, -Me lo devi.-. Christine la fissò, senza soggezione.
In realtà concordava con lei. Annuì.
-È vero. Hai corso nel fuoco per me, con me. Sono cose che non dimentico.-, sussurrò. Involontariamente o meno, le due donne erano vicine.
-Sì.-, disse solo Antonia, facendo mezzo passo. La nera poteva sentire il fiato della donna sul viso. Sentiva il cuore battere. Si fissarono e improvvisamente lei parve intravedere qualcosa negli occhi dell’altra. L’universo pareva rallentare. Sentì qualcosa, un languore noto.
Poteva evitarlo? Voleva evitarlo? Sicuramente, non era né il luogo né il momento. Eppure…
Il telefono suonò. Christine interruppe il duello di sguardi con Antonia ed estrasse lo smartphone. Rispose. Ascoltò. Sorrise.

 

Henry aveva preso l’abitudine di dormire poco. All’alba si alzava, faceva colazione dopo una serie di esercizi ginnici volti a mantenere il suo fisico e poi cominciava la sua giornata.
Nel caso del suo soggiorno ad Haiti, l’idea era di tenere anche sott’occhio i quotidiani e il giornaliero flusso di notizie. Soprattutto da quando Christine Buenariva era al largo.
Aveva anche chiamato alcuni dei suoi uomini, gente fidata, tagliagole sudamericani ex di un paio di dittature sudamericane. Un gruppo di cinque di loro era sicuramente più efficace degli “utili idioti” assoldati da Boniface. In realtà, l’apparato del socio haitiano lasciava a desiderare.
Sì: l’esercito probabilmente gli avrebbe obbedito e così anche la polizia, ma né loro né le bande di Haiti che componevano lo zoccolo duro del gruppo di Boniface potevano dirsi all’altezza della situazione. Non si trattava più di uccidere un qualche idiota o di far sparire cadaveri, quella era una vera e propria guerra.
Una guerra che dovevano vincere. Assolutamente. E per sua esperienza, Henry Samson Lincoln sapeva che conveniva non sottovalutare Christine Buenariva e l’uomo che con lei aveva messo fine agli affari del Consiglio dei Sedici.
All’epoca, Henry era solo un pesce piccolo, un socio minore, bassassimo nella gerarchia, mai destinato a risalire i ranghi sino a entrare nella stanza dei bottoni. No: per Henry non ci sarebbe stato alcun salto di grado, alcuna promozione. Poi, il Giustiziere era arrivato. Henry aveva intuito la situazione, messo a tacere i suoi pusher, fermato il suo business, era sparito nel sottobosco statunitense, preferendo un periodo di perdita invece dell’alternativa decisamente peggiore di ritrovarsi la lama di un coltello nella pancia.
Il Giustiziere aveva subito solo un breve scacco, quando Amour Mirabellé l’aveva catturato.
Gli altri membri del Consiglio dei Sedici avevano deciso di continuare i loro affari, impudentemente. Henry no. Prudente e ligio al sorprendentemente buono consiglio del padre, alcolizzato e fallito giocatore di poker, aveva preferito tenere la testa bassa.
Aspettare e vedere. Non era rimasto deluso.
Christine Buenariva aveva cambiato lato, schierandosi col Gisutiziere e con loro anche un’agente sorprendentemente zelante della polizia, un’incorruttibile chiamata Njala Tambossou. Il loro sodalizio e l’alleanza con quella che pareva una sorta di clan malavitoso giapponese aveva rapidamente messo fine alla quasi totalità del Consiglio. La reazione degli alleati nipponici del Consiglio dei Sedici non aveva sortito l’effetto sperato e, tornato in città, il Giustiziere aveva scatenato una sommossa civile che aveva portato a una purga sistematica.
La polizia, pesantemente infiltrata dal Consiglio era stata decimata, i trafficanti, i pusher e i vari furfanti presenti avevano rapidamente pagato il fio dei loro atti.
Adele Kingsword, convinta fino all’ultimo di poter trionfare era morta. Il Consiglio dei Sedici era stato distrutto, i suoi membri uccisi ai quattro angoli del mondo, i loro affari a rotoli.
E qui si era ridestato Henry. Aveva iniziato dal basso. Una frase giusta, una mazzetta, un proiettile nel peggiore dei casi, ed aveva rapidamente preso possesso dei resti dell’infrastruttura  sudamericana del Consiglio, un’accozzaglia di piantagioni, spacciatori e bruti. Poco sfruttata, ma perfetta, quanto perfetta!, per lui. Da lì, era stato semplice. Contatti oltre la frontiera, in Messico. Un cartello minore aveva accettato un’alleanza. Henry aveva colto l’attimo, organizzando una rete che aveva portato il suo prodotto in tutti gli U.S.A.
Poi, era intervenuta Njala. La poliziotta, divenuta procuratrice capo della Città in cui il Giustiziere aveva sterminato il Consiglio aveva fiutato il marcio.
In breve: il Giustiziere, Christine Buenariva e un gruppo rivale avevano fatto tabula rasa del cartello. Njala era balzata agli onori della cronaca per l’aver guidato un’operazione della D.E.A. magistrale, con il beneplacito del compiacente (e compiaciuto) governo messicano.
Henry si era defilato, giustiziando personalmente quelli che avrebbero potuto parlare.
Pericolo scampato: aveva evitato una volta ancora il suo nemico, pur perdendo alcuni canali di distribuzione. Così si era recato ad Haiti, con un offerta per Boniface, offerta che il nero aveva accettato. E ora, di nuovo, rischiava di perdere tutto.
Per questo, teso come la corda di un arco, osservava la TV, deciso ad anticipare la catastrofe per quanto possibile, quale che fosse, da qualunque direzione fosse giunta.
La CNN era in pista, come sempre. Tutto normale. Schifosamente normale. Allarmante.
-E ora, una notizia dall’estero. È stato il reporter Aaron Mildlake a cercare di scoprire la verità sui traffici di droga in Centroamerica. Da diverso tempo non si avevano sue notizie. Oggi la nostra redazione è venuta in possesso di documenti sconcertanti. Prove fotografiche e documentazione, persino un filmato.-, l’anchorman Terry Crane fece un sorriso telegenico che non arrivò alle orecchie per poi ricomporsi, -Aaron era stato dato per disperso, mentre in realtà era detenuto presso un’installazione che non esito a definire criminosa, in spregio ai più elementari diritti umani.-. Henry traccheggiò, sentiva il palato secco, in gola una palla di sale.
-La prigionia e la successiva esecuzione di Aaron Mildlake, nostro collaboratore, sono state abilmente tenute sotto silenzio, sino a quando una fonte anonima non ci ha inviato quanto segue: la documentazione corposa e laboriosamente raccolta a rischio e costo della vita di Aaron stesso. In essa si narra delle nefandezze compiute dal recentemente detto Uomo Forte di Haiti, Boniface Laffort. Cose che hanno dell’incredibile, reati contro la persona e la proprietà, traffico di droga e altro. Procediamo a…-, Henry non rimase ad ascoltare un istante di più.

 

Marco Poretti sorrise nonostante la stanchezza. Scambiò uno sguardo soddisfatto con Shaibat.
Lui e la giovane erano rimasti alzati per ore. Avevano decrittato il codice.
Aaron Mildlake era stato furbo, troppo. Consapevole che avrebbe potuto finir male, aveva scritto sul suo stesso corpo una serie di riferimenti, codici alfanumerici precisi da inserire in un’apparentemente innocua casella di ricerca del suo blog. Tutti i riferimenti erano celati in tatuaggi apparentemente insensati.
Dopo aver visto le foto scattate da Christine, Marco aveva chiamato Shaibat, la quale aveva subito messo all’opera gli algoritmi di decodifica. Avevano atteso per una notte intera, annotando risultato su risultato, cercando corrispondenze con i riferimenti a eventi o alla vita privata di Aaron. Infine ne avevano trovato uno. Si erano trovati davanti 120 Tera di roba.
Il blog di Aaron Mildlake era letteralmente un tesoro di dati. Una cronaca precisa, redatta con certosina pazienza e meticoloso impegno volta a mettere a nudo tutte le nefandezze di Boniface Laffort, sulla cui ascesa e atti criminosi, Mildlake aveva indagato per mesi.
Infine, Boniface l’aveva fatto sparire, credendo di avere vinto. Ma purtroppo per lui, i morti facevano ritorno, in un modo o nell’altro.
La CNN aveva apprezzato alla grande il materiale che Marco aveva inviato. Ora, poteva finalmente andare a letto concedersi qualche ora di sonno, aveva un’ultima cosa da fare: una chiamata. Compose rapidamente il numero, disse poche parole e chiuse la chiamata.
Poi uscì dalla stanza, lasciando il controllo a Shaibat. Almeno la giovane aveva dormito, per un bel po’. Lui ora doveva riposare. Raggiunse una delle camerate e si addormentò appena a letto.

 

Al risveglio, come sempre, Antonia si sente… inquieta. Come se la notte non portasse riposo, da molto. Di fatto, alzarsi, stiracchiarsi, fare brevi esercizi e poi dedicarsi alla pulizia di sé era divenuto mero rito, lo faceva senza pensarci, ma oggi…
Oggi a irrompere nella sua camera a passo di carica è Christine, con lo smartphone che fa girare un video, un tg della CNN. E un sorriso enorme, quanto mai raro.
Per quanto ancora vagamente inebetita dal sonno, Antonia DuLac intuisce. Capisce.
Sorride a sua volta.

Boniface Laffort osservò il TG con un misto di sgomento, rabbia e muta consapevolezza che la situazione stava sfuggendogli di mano. Dopo aver perso sua sorella, ora aveva perso anche la popolarità faticosamente costruita in mesi di attente campagne e apparizioni.
Una catastrofe, che sicuramente avrebbe potuto impedire la sua elezione.
Non importava quanto rapidamente stesse muovendosi per mettere a tacere tutte quelle maledette insinuazioni (peraltro fondatissime), ormai il danno era fatto.
E soprattutto, Henry Samson Lincoln pareva guardarlo con… cosa?
Odio? Disprezzo? Delusione? Il nero si scoprì a sudare freddo. Henry non era uno che amava le mezze misure. L’avrebbe eliminato per coprirsi la fuga?
-Io… Sistemerò tutto, Henry. Non temere: non è che un piccolo inghippo. Eliminata quella stronza, sicuramente potremo aspettare che il… polverone si calmi. E potrò tornare sulla cresta dell’onda.-, riuscì a dire. Quando il trafficante parlò lo fece senza neppure guardarlo.
-Questa catastrofe… ha praticamente rovinato i nostri piani. Quella stronza, come l’hai chiamata tu, è stata abilissima a trovare quelle informazioni. Come hai potuto lasciare che accadesse?-, il tono di Henry vibrava di ira gelida.
-Io… Avevo ordinato di tenere lì il reporter, di non farlo scappare… Ho cercato di farlo parlare ma lo stronzo non ha detto una sillaba. Era un duro.-.
-Già. I tuoi hanno finito con l’ucciderlo di botte. Bel lavoro! E non vi siete sbarazzati del fottuto  corpo!-, l’ira nella voce di Henry ora era atomica, rovente. Non c’erano più sottigliezze.
-Io… la troverò. Ho già messo gli uomini…-, lo sguardo seguente di Henry Samson Lincoln gli tagliò la frase prima che potesse finirla, impedendogli di dire altro.
-No. Tu non hai capito. Tu richiamerai i tuoi fottuti briganti da strada. Li userai per pattugliare i dintorni del palazzo, e per evitare che quella… donna, e qualunque alleato lei abbia, possano raggiungerci.-, la voce di Henry era acciaio temprato al molibdeno, una voce implacabile.
-Io, e io soltanto, manderò i miei uomini a cercare di ucciderla. E intanto studieremo un piano di ripiego. Se desideri farne parte, sappi che da ora in avanti ti conviene riconsiderare con estrema attenzione ogni possibile iniziativa personale tu abbia in mente di intraprendere, perché farti fuori e ricominciare con qualcun altro ormai è ben più facile che tentare di salvare la tua misera pellaccia.-.
Boniface annuì. Capiva. Per Henry ora lui era una passività, un malus a fine estratto di bilancio, un problema. Nel migliore dei casi avrebbe dovuto fare il galoppino e accontentarsi delle briciole, nel peggiore sarebbe stato eliminato, per permettere al trafficante di scomparire. Prese il telefono e, voltandosi, diede gli ordini ai suoi uomini.

 

Julié Delinés assorbì la notizia. La fine pubblica di Boniface, la fine della sua corsa alla presidenza, era già qualcosa. Ma non era tutto. Guardò Christine e la donna, Antonia.
Erano diverse da lei. Molto. Ma ora avevano qualcosa in comune. La conoscenza dei baratri.
-Forse… è ora che io vada via. Sicuramente voi avrete i vostri piani.-, disse. Si era cambiata e lavata. Sapeva che non sarebbe servito a ridarle la serenità.
Antonia non la degnò di uno sguardo. Si consultò invece con Christine.
-Sì. Credo sia meglio se tu te ne vada. Anche noi lo faremo presto.-, disse quest’ultima.
Concluse la colazione finendo di mangiare la papaya che aveva davanti. Julié annuì.

 

Henry non era privo di contatti. Aveva rapidamente escluso le possibilità più ovvie e scontate.
Aveva quindi indirizzato i suoi uomini verso un bersaglio ben preciso: Julié Delinés, (che sapeva essere stata prigioniera nello stesso campo in cui era morto quel giornalista) e qualunque abitazione sfitta o dismessa fosse in suo possesso, o in possesso dei suoi famigliari.
Aveva successivamente iniziato a verificare dove poteva trovarsi. Dopo un breve colloquio con i genitori di Julié, in cui manco a dirlo non era stato neppure necessario ricorrere alla tortura ma solo una mazzetta irrisoria, i sicari di Henry avevano una location.
Henry sorrise. La caccia si apprestava alla fine. I suoi uomini erano gente esperta. Massacratori d’elité, usciti dalle peggiori bolge del continente sudamericano.
Christine Buenariva, alleati o no, sarebbe morta. Molto probabilmente.
Ma per sua esperienza, Henry Samson Lincoln sapeva bene che non si doveva mai vendere la pelle dell’orso prima di averlo abbattuto. Così aveva fatto preparare una comoda via di fuga.
In ogni caso, aveva un piano per salvarsi. Con dispiacere avrebbe dovuto abbandonare la sua ultima… conquista. Nonostante le doti e i pregi della giovane era sin troppo conscio di quanto sarebbe stato difficile sparire da solo. E alla peggio, avrebbe dovuto sacrificare Boniface Laffort e tutto il suo entourage, cosa che avrebbe fatto senza rimorsi.
Era uno squalo. Non poteva portarsi dietro pesci rossi.

 

A dispetto di tutto, Christine fu lieta di vedere Julié andarsene. La giovane aveva già sofferto abbastanza e forse, avrebbe potuto riprendere una vita normale, se avesse voluto.
Per lei non c’era scelta: aveva già deciso la sua strada tempo prima, e avrebbe dovuto continuare a percorrerla, sino alla fine. Ma Julié no, lei poteva ancora uscirne.
In fin dei conti, non era lei a dover decidere per la giovane.
Christine sospirò. Da un certo lato, immaginava benissimo come sarebbe finita.
Julié aveva avuto lo stesso sguardo, la stessa identica consapevolezza che aveva avuto lei.
Quando, finito il suo calvario aveva smesso di essere una vittima, aveva avuto lo stesso identico sguardo Per questo, Christine era certa, totalmente certa, di cos’avrebbe scelto Julié.
Parte di lei si sentiva in colpa: Julié aveva subito violenze anche a causa sua. Era stata lei a rimandarla a Boniface, avrebbe dovuto immaginarlo. Ma sapeva bene che non serviva recriminare inutilmente: non poteva cambiare il passato.
Si rivestì dopo aver finito di lavarsi. Era ora di muoversi. Antonia la guardò.
-La lasci andare così?-, chiese.
-Non ci tradirà.-, rispose Christine, -E poi, è lei che deve scegliere.-.
-Interessante. Sembra che io mi sia fatta l’idea sbagliata su di te.-, disse Antonia. La nera la fissò, suo malgrado curiosa della risposta, e conscia della chimica che pareva crearsi tra loro.
-E che idea ti saresti fatta?-, chiese. Antonia sorrise, sorniona.
-Beh, le voci corrono. E il Giustiziere non mi ha detto molto di te. Così mi sono informata.-.
-Non credere a tutto quel che leggi su internet…-, l’ammonì Christine. Fu appena un sussurro.
Erano vicinissime, fottutamente vicine. Troppo. Come se improvvisamente i loro ventri fossero stati dotati di vita propria, si avvicinarono ancora di più, spingendole a contatto.
Non smisero di fissarsi un istante.
-Dovresti basarti sulla realtà, non su congetture…-, sussurrò Christine. In quel momento sentiva di starsi bagnando. Al diavolo, Antonia era bella, letale e decisamente il suo tipo.
E non sembrava che alla rossa dispiacesse. La donna dai capelli di rame emise un verso a metà tra un ringhio e un gemito. Una dichiarazione esplicita. Più che esplicita.
Christine si scoprì a sorridere. E, improvvisamente, sentì qualcosa. Appena un “crack”.
Anche Antonia smise di sorridere: quel rumore significava una cosa. Una sola: guai.
-Ci hanno trovate.-, sussurrò la donna dai capelli ramati.

 

Simon Suarez maledisse il rumore fatto dal grimaldello. La sorpresa era essenziale. Fortunatamente sapeva che i suoi compagni erano capaci quanto lui. Suarez era colombiano, un ex poliziotto, ex mercenario e attualmente sul libro paga di Henry Samson Lincoln.
Non era un moralista: per la Federal aveva ucciso e torturato gente, minacciato di uccidere famiglie e sottoposto a indicibili ordalie i suoi ex colleghi quando era passato dall’altro lato.
Aveva due mandati di cattura, e almeno altrettante taglie sulla testa da parte di alcuni… conoscenti decisamente scontenti delle sue scelte professionali.
Ma Henry Samson Lincoln pagava bene e aveva già eliminato due suoi… nemici. Quindi finché avrebbe continuato a proteggerlo, Simon avrebbe lavorato per lui.
Si rimise al lavoro. La serratura aveva quasi ceduto.

 

Alvaro Ochoa era messicano. Un sicario. Era una vita che uccideva gente. Il suo primo uomo l’aveva ucciso in un vicolo di Cuidad Juarez, per motivi che neanche ricordava.
La cocaina e una discreta capacità di disinteressarsi scientemente di qualsivoglia argomento al di fuori dell’incarico attuale lo avevano reso un killer spietato, capace e richiesto.
Quello era solo l’ennesimo lavoro. Stinse la presa sulle due mini Ingram, mitragliatrici piccole e compatte che, una volta dentro, avrebbero scatenato un uragano di piombo.

 

Ludmilla Beshira era una solitaria. Lo era da tutta la vita. Lavorare in squadra non le piaceva, per questo era distaccata a cercare un ingresso secondario.
Era una cecena. La sua famiglia si era spostata spesso. Aveva vissuto l’infanzia in bilico tra diverse città russe e poi verso l’Ucraina. Era tutta la vita che si guadagnava da vivere con attività illecite. Il suo battesimo del fuoco era stato tra le strade di Minsk, dove aveva affrontato a coltellate e pistolettate i membri delle bande rivali per il controllo dello spaccio di Crack e metanfetamine. Era stata reclutata dalla Bratwa pochi mesi dopo. Aveva imparato i trucchi del mestiere, ed aveva iniziato la sua ascesa. Non erano più solo furtarelli e sparatorie, ma colpi mirati e assassinii attentamente pianificati e ben pagati. Quando i russi avevano iniziato a vederla come un pericolo a seguito di un colpo a San Pietroburgo, seguiti a ruota dall’interpol, si era data alla macchia. Mai una notte nello stesso posto, mai un rapporto sincero, con nessuno, mai lasciare tracce sulla scena del crimine.
Quello era il suo decalogo, il suo dogma. Aveva fatto di quelle regole uno stile di vita.
E, dopo aver sedotto e ucciso un membro importante di un cartello sudamericano era stata contattata dai suoi rivali. Henry Samson Lincoln le aveva offerto protezione, un lavoro ben pagato, una breve pausa dall’eterno vagare.
E quel lavoro non era nulla di diverso. La bionda dagli occhi neri come pozzi di tenebra si avvicinò alla finestra.

 

Tito Mladen era serbo. Ex militare, ex mercenario era stato assoldato per altre due missioni da Henry Samson Lincoln. Era un uomo capace e sapeva il fatto suo. Non si fidava dei pendagli da forca che Lincoln gli aveva affibbiato come compagni ma se li sarebbe fatti andar bene. Era un lavoro e andava fatto. Tant’era.
Mladen strinse il fucile a pompa AA-12, attendendo il momento per entrare.

 

Mark Kovalzski era stato un membro di una task force D.E.A.
Per questo aveva negoziato con i genitori di Julié. Era l’unico in grado di farlo senza terrorizzarli. Aveva offerto loro dei soldi sapendo bene che la corruzione avrebbe funzionato ben meglio di qualunque altro metodo coercitivo, e senza aggravare la situazione oltre il necessario. Kovalzski aveva tradito la sua task force, aveva ucciso tre dei cinque membri e lasciato l’ultima, una donna colombiana, a dissanguarsi sul confine tra Colombia e Brasile, prima di svanire. Aveva abbattuto due operativi delle Forze Speciali U.S.A. prima di venire soccorso dagli sgherri di Henry. Ed aveva prontamente accettato l’offerta. Sarebbe stato folle fare altrimenti. Ora era lì, a fare quell’ennesimo lavoro. L’ultimo? No. Mark era un drogato di adrenalina. Avrebbe fatto quella cosa gratis se gliel’avessero chiesto.
-Pronti?-, chiese.
-Sì.-, rispose la voce di Ludmilla dalla radio.
-Sì.-, risposero gli altri.
Mark Kovalzski strinse l’MP-9. Era tempo di agire.
-Azione.-, disse. Batté sulla spalla dell’uomo davanti a lui. In fila, il gruppo si mosse.

 

L’irruzione è sempre stata, e sempre sarà, una forma d’arte. Non si entra senza guardarsi attorno e non si entra senza calcolare trappole, imboscate o altro. I Marine fanno così.

E muoiono. Ma le forze speciali no. È cosa nota.
Il gruppo di Kovalzski agì alla svelta, professionalmente. Entrarono controllando ogni angolo, sciamando all’interno con ordine, senza lasciare nulla al caso.
La sala era vuota…
-Se ne sono andate?-, chiese Ochoa. Impugnava le mitragliette con sguardo allucinato.
-No.-, disse Ludmilla, -Non sono uscite.-.
-Roger. Siamo in caccia. Massima attenzione.-.
Fu allora che la situazione si complicò.

 

Antonia DuLac si alza oltre la copertura. Il tavolo è in mogano. Lo ribalta e spara.
È rapida, ma sa che non riuscirà a uccidere ogni membro del commando. In ogni caso spara.
La pistola ruggisce, i due proiettili vanno a bersaglio. Simon Suarez incassa al petto. Il giubbotto antiproiettile non gli evita di morire quando un proiettile gli trapassa il collo.
Antonio Ochoa reagisce. Antonia va giù a tuffo. I proiettili crivellano la parete, i mobili, e le impediscono di mirare oltre.  Gli incursori entrano. Ed entrano alla svelta.
Un proiettile da una direzione diversa centra in pieno capo Ochoa. Il messicano va giù sventagliando a vuoto.
L’attenzione di tutti si polarizza su chi ha sparato. Christine Buenariva, brandisce l’mc116M. Spara senza esitazioni. Mark Kovalzski spara in risposta. Costringe la nera al riparo.
Mladen avanza. L’AA-12 tuona. Il tavolo in mogano va in pezzi. Antonia rotola oltre.
Spara falciando il serbo con due colpi a centro massa.
E si trova esposta. Sa che sta per arrivarle il colpo finale.
Sente Christine sparare. Kovalzski non può colpirla senza esporsi al fuoco.

 

Christine non pensa. Spara, conta i colpi mentalmente. Deve ricaricare. Estrae il caricatore e fa per sostituirlo. In quel momento però, la vede. Un’ombra. Un incubo. Capelli biondi raccolti in una coda. Viso spietato, occhi neri. Un’assassina. Brandisce un machete. È entrata da una finestra, approfittando evidentemente della distrazione fornita dall’irruzione. Il machete cala.
Christine reagisce d’istinto. Interpone l’arma tra lei e la lama. Para. Impatto notevole. Metallo contro metallo. Gira l’arma tra le mani. Colpisce al ginocchio. Manca. L’altra schiva.
Il machete fende. Christine evita di filo. Sente il fiato della morte sul collo. Lascia il fucile dopo il secondo fendente, che quasi le centra la mano. Fa un passo indietro.
Sorride in modo demente: quello è ciò che fa, ciò che é. Non è diversa da lei, non molto, almeno. E capisce che quella è brava. Ignora la lama. Blocca il polso armato dell’altra. Percuote con colpi corti. L’altra reagisce. Botte, da una e dall’altra parte. Dolore e sangue. Tagli superficiali. Un calcio le prende un ginocchio. Dolore, ancora. Perde la presa sull’avversaria.
L’altra alza il machete. Christine indietreggia. Sente il muro dietro la schiena. Fine della corsa.

Mossa dalla disperazione, raggiunge con la mano una bottiglia. La lancia contro l’altra. Centra alla spalla. Guadagna tempo. Si china. Raggiunge il coltello nello stivale. Quindici centimetri di lama forgiata in foggia Tantō. L’altra sorride, apparentemente esaltata.
Altro fendente. Christine evita, cercando di colpire il braccio armato. Il contro-fendente le graffia il polso armato. Stringe la mano. Deve vincere, deve! Il colpo successivo non lo evita.
Lo sfrutta. Entra nella guardia della bionda. Colpisce. Fendente uno, gola.
L’altra gorgoglia, cerca di respirare. Stoccata uno, costato. Pianta il Tantō sino all’elsa.
Fine dei giochi: la bionda cede, sussulta, il machete le cade.
Christine vorrebbe fermarsi, contare graffi e ferite, lividi e dolori, ma non può. Cerca il fucile. Lo trova.

 

Mark Kovalzski evita un calcio. Blocca il pugno e applica una torsione. Stringe. Ora ha un’ostaggio. Si fa scudo con Antonia. La donna dai capelli ramati si divincola come può, tenta di reagire. Inutile: la pistola in pugno a Mark suggerisce di evitare ogni reazione.
-Christine Buenariva! È finita. È te che voglio. La mia missione è uccidere te, non lei. Ma lo farò se mi costringi.-, urlò. Vide la nera fare capolino, arma puntata su di lui.
Mexican standoff con ostaggio. Il peggior esempio di come condurre una missione, ma alla fine, Mark non ha avuto scelta, non con tutti i membri della squadra morti. Non vedendo Ludmilla può pensare che anche lei sia morta e tant’é. Christine è ferita, dolorante, lo vede.
Può farcela. Deve solo ucciderla.
-Pensi di poter rischiare? Chi è lei per te? Un’amica? Un’amata? Una sconosciuta? Pensi di riuscirci, Christine?-, chiese. Collimò la pistola con la nera.
-Io non sono niente.-, sussurrò la donna in ostaggio con un tono tanto basso da essere quasi inudibile. Mark sorrise. Christine era al centro del mirino. Si preparò a sparare. L’altra si divincolò, facendogli perdere un secondo. Poi, Mark sentì qualcosa. Una pistola contro la testa.
-Lascia la donna.-, disse una voce in inglese con pesante accento patois.
-Ok… Non fate scherzi… siete alleati, no?-, chiese Mark. Antonia si divincolò abbastanza da liberarsi dalla presa. La sola risposta fu un colpo di pistola che lo uccise all’istante.

 

Christine Buenariva tenne il fucile puntato mentre guardava l’uomo a capo del drappello di ignoti marciare a centro sala. Mani alzate, un cellulare nella sinistra tenuto con due dita, la guardò. Non era insensibile alla paura, anzi, la nera lo vedeva inquieto.
-Il capo vuole parlare con te.-, disse soltanto.
Il capo? Christine si chiese se il capo in questione non fosse Boniface. Possibile che Laffort avesse deciso di patteggiare? In fin dei conti le andava bene. Entro un certo livello, era proprio ciò che avrebbe voluto accadesse. Eppure sapeva bene che non avrebbe avuto molta scelta.
Insieme all’uomo col cellulare ce n’erano altri due.
-Dì ai tuoi amici di abbassare le armi.-, ordinò Christine. Il mulatto annuì. Abbaiò un ordine.
Le armi si abbassarono. Christine, sempre tenendolo sotto tiro, avanzò e prese il cellulare.
Notò che la chiamata era già partita. Lo appoggiò all’orecchio, notando che Antonia, ricaricata la pistola teneva sott’occhio i nuovi arrivati, senza abbassare l’arma.
-Pronto.-, disse soltanto.
-Christine Buenariva. La situazione è cambiata.-, disse la voce di un uomo, un nero e un haitiano a giudicare da tono e inflessione.
-Non per me, Boniface.-, disse lei, -Ho una missione da compiere.-.
-Eliminare me, n’est pas?-, chiese Boniface.
-Esatto. Tu, il tuo amico e socio Henry Samson Lincoln e tutta la tua cerchia di trafficanti e spacciatori. Haiti non diventerà una cloaca di drogati.-.
-Haiti è già una cloaca.-, replicò Boniface Laffort con un tono pacatissimo, -Per quanto riguarda me, comunque, sappi che non sono un tuo nemico. Ho fatto rimuovere la taglia sulla tua testa. E farò di più: ti consegnerò Henry Lincoln.-, disse.
-In cambio della vita?-, chiese la nera. Non poteva negare che era un’ottima proposta: Henry Samson Lincoln sapeva svanire e sarebbe potuto scomparire senza problemi. Invece, con l’aiuto di Laffort avrebbero potuto chiudere la questione. Rapidamente e senza problemi.

-In cambio di quella e di mia sorella. Viva e incolume. È tutto ciò che ti chiedo. In cambio ti fornirò i dati sulla mia organizzazione, la location di Henry Samson Lincoln, il modo in cui intende lasciare Haiti e le coordinate di partenza e arrivo. Ma voglio una prova di fiducia da parte tua.-, rispose il gangstar.
-Io ne voglio una a mia volta. Voglio il modo in cui Herny lascerà Haiti.-.
-Con un elicottero. Un vecchio ma affidabile elicottero in forze al governo haitiano. Veicolo diplomatico…-, disse Laffort, -Ora tocca a me. Voglio la prova che mia sorella è viva.-.
-Posso fornirtela solo tra qualche minuto.-, disse Christine. Fece cenno ad Antonia di prendere il telefono. La rossa chiamò Shaibat.
Pochi istanti dopo, la voce di Lucia Laffort fu udita da Boniface.
-Hai la tua prova.-, disse Christine, -Consegnaci Lincoln e riavrai tua sorella.-.
-E non cercherai di uccidermi? Ho la tua parola?-, chiese Laffort.
-Sì.-, rispose semplicemente Christine, -Hai la mia parola: non ti ucciderò.-.

 

Lucia Laffort fu svegliata dal rumore della porta che si apriva.
-Vestiti.-, disse l’uomo. Indossava una maschera da clown di qualche tipo, no… da arlecchino. Le mise davanti un vestito, -Le docce sono fuori dalla tua cella, prima porta a destra. Non tentare di andare da altre parti: lo sapremmo e ne saremmo contrariati. Quando avrai fatto ti porteremo da tuo fratello. Non abbiamo più motivo di tenerti qui.-.
Lucia credette di aver udito male. Ma l’altro non si ripeté. La nera si alzò. Miracolosamente notò di non essere più incatenata.
Suo fratello l’aveva liberata? O semplicemente non era più il bersaglio? Oppure…
Decise di non ponderare altri eventuali scenari, concentrandosi solo sulla sopravvivenza.

 

Henry Samson Lincoln sospirò. Aveva già capito come sarebbe finita. Scortato dai suoi pretoriani, si preparava a svanire di nuovo. Boniface Laffort lo raggiunse, il viso sudato e decisamente cupo. Il trafficante si costrinse a non sparargli con la 1911 dal calcio in madreperla che si portava dietro in quasi qualunque situazione.
-Siamo pronti.-, disse Boniface con un sorriso. Henry strinse i pugni sino a sentirli sbiancare.
Si costrinse a rilassarsi. Voltatosi, salì a bordo dell’elicottero. Boniface lo seguì. La falange di pretoriani chiuse la fila. E l’elicottero decollò.

 

Antonia DuLac guidava fusa ai comandi. La macchina pareva volare sulle strade di Haiti.
Inchiodò quando si trovarono davanti al porticciolo custodito da un paio di neri armati. Nessuno mosse un muscolo mentre le due donne si avvicinavano al molo. Gente pagata da Nô Mitsutune per vegliare sul mezzo e ben pagata per dimenticare di essere mai stati là.
La barca, promessa da Shaibat, era un fuoribordo di quelli seri. Il motore era tra i migliori in commercio. Pur essendo a tutti gli effetti un motoscafo civile, era rapido a sufficienza da poter compiere operazioni militari, se necessario, violando di fatto le acque territoriali di stati sovrani.
Come in quel caso. Abbattere un velivolo diplomatico avrebbe causato un problema che neppure tutta l’abilità informatica e la sottigliezza a disposizione del loro gruppo avrebbero potuto risolvere. Avrebbero finito con l’essere braccati, dovendo esercitare ancora più cautela.

Fattibile, ma non accettabile, specie considerando il fatto che quella non era la sola operazione in corso. Così, Christine e Antonia avevano concordato per un altro approccio.
Boniface aveva dato loro un’occasione.  L’avrebbero sfruttata.
La donna dai capelli di rame si mise alla guida del fuoribordo. Christine salì a sua volta.

Diede gas e rapidamente, la barca si allontanò da Haiti sollevando spruzzi.
La terra degli incubi è dietro di loro, ma la follia non conosce confine né risposo.

 

Shaibat osservava la situazione. Aveva tracciato la rotta dell’elicottero, un vecchio modello americano risalente agli anni 90. Afferrò una barretta, la scartò e mangiò senza quasi sentire il sapore. Quella vita era frenetica. Non dormiva da parecchio, ma non poteva neppure pretendere di riposare, non ancora. Marco necessitava di riposo ben più di lei.
Ingollò un sorso di caffè. Italiano, preparato da Arlecchino. A dispetto di tutte le stranezze che poteva mostrare, quel tizio faceva un caffè eccezionale. Pura deformazione professionale.
-Come andiamo, mia soave regina del Cyberspazio?-, chiese la voce di Arlecchino.
Shaibat non sussultò, sebbene nel suo tono di voce fosse palese un certo grado di sorpresa.
Manco l’aveva sentito entrare… Da quanto tempo era rimasto lì?
-Bene. Ho tracciato l’elicottero. È diretto verso il Brasile.-, disse. Arlecchino annuì, il viso coperto dalla maschera comica che, alla luce fioca degli schermi, pareva mostruosa.
-E le nostre valenti guerriere?-, chiese con tono gaio.
-In rotta di arrivo.-, rispose Shaibat, -Lucia Laffort?-, chiese la thailandese.
-Pronta a essere consegnata al suo decisamente incestuoso nonché amorevolissimo fratello.-, ghignò Arlecchino, -E beatamente inconsapevole del finale di questa nostra commedia.-.
-Già.-, rispose Shaibat. Gli occhi si spostarono dalla visuale dello schermo per posarsi su un altro. Un planisfero con alcune zone e stati segnati in rosso e verde.
Lo sguardo di Arlecchino la seguì, ne fu conscia subito.
-Il prossimo punto è l’Italia, eh?-, domandò l’uomo, stranamente serio.
-Sì. Un politico. Tizio abbastanza preoccupante viste le connessioni con i trafficanti di vari generi, ma soprattutto, a capo di un gruppo eversivo. Un facinoroso con il dono del carisma e dei soldi.-, disse lei, -E non so chi inviare. Siamo in pochi. Potrei provare a chiedere a dei contatti esterni…-. La reazione di Arlecchino fu calma, ma tremendamente ferma.
-No, ma cherié. Fidarsi è bene, ma non fidarsi è meglio. Inoltre… Conosco benone l’Italia.-, parlò con un tono calmo, fermo, privo di facezie. Una determinazione emergente che stonava col suo personaggio. Shaibat si voltò a guardarlo negli occhi, unica parte visibile del viso dell’uomo. C’era qualcosa che non capiva, che non inquadrava, e in quegli occhi, qualcosa che capiva ancor meno, ma che riconosceva. Rabbia, o semplice odio? In ogni caso, un emozione nota. -Questioni personali?-, chiese. Non si aspettava risposta.
-Anche.-, ammise il killer. Si ritirò nell’ombra, apparentemente infastidito dallo scambio.
Shaibat sospirò. C’erano cose che non capiva, cose che doveva capire, pur con discrezione.
Si concentrò sul suo compito.

 

-Sono diretti in Brasile.-, dice Christine. Sotto di loro si stende il mare, il fuoribordo è come una lancia che trapassa onde e distanze. Antonia annuisce. Non c’è molto da dire.
-Aspettiamo di avere la location più precisa.-, dice. Christine annuisce.
Dopo diversi minuti, arriva una risposta.
Coordinate, e altro. Antonia imposta il GPS Magellan, verifica, controlla. Annuisce.
Hanno un bersaglio. Ora ce l’hanno davvero.
Possono procedere. Possono andare a colpire il diavolo prima che scompaia di nuovo.
Non indugiano. Il fuoribordo fende le onde in arrivo. La costa non è distante.

 

 

-Benvenuto, Boniface.-, disse Henry. Sorrideva. Boniface Laffort si guardava attorno, decisamente pensieroso, forse persino impressionato. La casa è una vecchia villa probabilmente risalente all’800. Rimodernata solo internamente e completa di un eliscalo. Alcuni uomini armati di AK dei tempi della Guerra Fredda pattugliavano il perimetro.
-Questo è un rifugio, uno dei tanti. Nessuno sa che siamo qui, a parte…-, Henry estrae la pistola e, fulmineo, abbatte il pilota dell’elicottero. L’uomo crollò a terra, morto prima ancora di capire cosa sia accaduto. La pistola fumante del trafficante rimane puntata verso terra.
-Ha svolto la sua funzione.-, commentò Boniface Laffort con un sorriso.
-Oh, sì.-, disse Henry, -Ma si potrebbe dire lo stesso di te.-. Nonostante il tempo fosse bello e il clima caldo, Boniface si scoprì madido di un sudore gelido.
-Tu ora come ora sei una passività. Ma non temere: non farai la fine di questo povero idiota.-, disse Henry. Sorrideva, la pistola improvvisamente doma, rientrata nella fondina alla cintola.
-A differenza sua, hai ancora una certa utilità. Ad Haiti forse non abbiamo più molto da sperare, almeno per ora, ma la tua rete si estende anche oltre, giusto? Repubblica Dominicana, Caraibi, lambisce Cuba e Trinidad…-, disse, -E una simile rete può decisamente essermi utile.-.
Boniface annuì. Forse avrebbe dovuto dirgli del patto con Christine. Sino a lì aveva ritenuto saggio premunirsi in caso di tradimento da parte di Henry, ma ora si rendeva conto che forse una simile eventualità non si sarebbe mai concretizzata. Oppure Henry voleva manovrarlo?
In ogni caso, sua sorella era ancora in mano di Christine e dei suoi. Collaborare significava riaverla. Henry non avrebbe esitato a sacrificarlo, quindi neppure Boniface si sarebbe fatto scrupolo di immolare ai suoi scopi il trafficante.
-La casa è sicura, vieni.-, disse Henry Lincoln.

 

In realtà, Henry stava solo considerando come agire. Boniface era divenuto un peso. La sua rete poteva essere utile, ma solo se fosse stata manovrabile, cosa che attualmente non era.
La verità era che l’haitiano aveva praticamente terminato la sua utilità.
Ponderava come procedere. Un colpo in testa sarebbe stato una soluzione sicura.
Sì. Aveva rimandato a sufficienza. Era ora di sparire di nuovo. Ma prima, avrebbe ottenuto da Boniface tutte le informazioni in merito alla sua rete che, sebbene piccola rispetto a quella dello stesso Henry, avrebbe sicuramente abbisognato di un nuovo capo.
Stava per procedere quando il rumore di una sventagliata di mitra gelò sia Boniface che Henry sul posto, annichilendo qualunque ragionamento.

 

Christine imprecò. Il tizio cui aveva sparato aveva il dito sul grilletto. Un classico idiota.
Purtroppo però l’effetto sorpresa era sfumato. Emergendo dalla vegetazione, le due donne inquadrano rapidamente i bersagli. L’indio con le treccine e l’AK con calcio fisso vola all’indietro. Gli altri sparano. Antonia va giù a tuffo. Christine la segue. Il piombo le costringe a mordere la terra. La rossa lancia qualcosa.
Una granata. L’esplosione è comunque notevole. Un tizio grosso con una vecchia mitragliatrice inglese viene dilaniato dallo shrapnel. Le due si rialzano. Christine inquadra e spara.
Un altro dei guardaspalle di Lincoln si contorce in un sambo insensato, fiottando rosso.
La nera avanza. Getta il fucile scarico. Estrae la pistola. Arriva a lato della casa.
Antonia è appena dietro. Fredda con due colpi precisi un altro nemico. Estrae anche lei la pistola. Entrano da due punti. Christine individua Boniface Laffort. Il nero alza le mani.
Henry Samson Lincoln la punta con la pistola. Arma già pronta? No, ma troppo pronta comunque per poter reagire, almeno per Christine.
Antonia DuLac spara. La mano armata di Herny Samson Lincoln si disgrega, l’arma vola sul pavimento tra pezzi di carne e ossa maciullate. Il bastardo si tiene il moncherino, urlando di dolore. Christine non si ferma. Tiene sotto tiro Boniface. Nota il maggiordomo, o il cuoco. Comunque è armato. Una doppietta. Nessuno scrupolo. Spara. Lo centra in pieno petto.

-Bastarda!-, ingiuria Henry Samson Lincoln, -Maledetta puttana! E scommetto che ci sei arrivata grazie al suo aiuto, eh?-, chiede, riuscendo ad alzare lo sguardo verso la nera.
Christine Buenariva non parla. Non ha nulla da dirgli. Toglie il caricatore. La pistola ha ancora diversi colpi. Improvvisamente ha un’altra idea.
-Antonia.-, fa un cenno con la testa. La donna dai capelli ramati capisce. Annuisce. Fa alzare il trafficante. Lo ammanetta rapidamente. Christine si rivolge a Boniface Laffort. Il nero è una statua di sale. La nera lo osserva senza emozioni.
-Ti ho dato la mia parola.-, dice, -Riavrai tua sorella.-.
-Pazzo bastardo! Ti sei venduto per riavere quella puttana! Hai mandato tutto in vacca…-, Henry continua a berciare, decisamente non domo. Antonia lo gira. Colpisce.
Il pugno tramortisce il trafficante.

 

L’elicottero è ancora in buone condizioni. Riporterà le due donne dove deve.
È sera. Il sole è al tramonto. Christine osserva i prigionieri.
-Pensate di avermela fatta, eh, stronze?-, chiese Henry Samson Linclon, ancora non domo.
-Quanto ti pagano per questa troiata, eh?-, chiese il trafficante rivolto ad Antonia, -Ti offro il quadruplo! Su, dì un prezzo!-. Christine lo osservò, con una freddezza quasi assoluta. Lui se ne accorge. Fissa Christine.
-Pensi che non sarò fuori presto, Christine? Io ti conosco! So chi sei e so con chi lavori. E scoprirò anche chi è la tua amichetta. Vi verrò a cercare. Non riuscirete a tenermi al fresco. Non esiste!-, Henry Samson Lincoln era un fiume in piena. Christine, contro ogni aspettativa, sorrise. E fu questo, più di tutto il resto, più delle minacce, più delle percosse di Antonia, più delle armi, a far tacere il trafficante di droga.
-Pensi veramente che me ne freghi qualcosa?-, chiese la nera, -Tu credi veramente che ora arriverà la D.E.A. o qualche altro ente che sicuramente puoi comprare?-.
C’è qualcosa in mano a Christine, ora Henry lo vede. Qualcosa di affilato. Di anormale.
Un coltello, no, un Tantō, l’arma del Giustiziere.
-Puoi correre, puoi nasconderti, ma non puoi sfuggire. Vedi, Boniface era una questione patria. Personale. Haiti è pur sempre casa mia, anche se è un inferno.-, Christine parla con calma, -Ma tu… oh, il nostro informatico ha fatto un lavoro certosino. Mi ha informata di chi sei, di chi eri. E Njala Tambossou mi ha detto del tuo marginale ruolo negli affari del Consiglio dei Sedici.-.
Gli occhi di Henry si ingrandiscono, l’espressione è di stupore misto a panico. Ora sa.
Ora inizia a capire, inizia a comprendere.
-Njala vorrebbe davvero tanto saperti dietro le sbarre ma, come giustamente hai osservato, non riusciremmo a tenerti al fresco.-, Christine ora è dietro di lui. Henry vorrebbe voltarsi ma non può. La nera lo costringe in ginocchio, gli solleva il capo, esponendo la gola. Una vampira.
-Io…-, sussurra appena lui. Capisce che è finita. Che nessun’offerta o minaccia comprerà la sua sopravvivenza. La lezione finale per lui è quella: non tutti hanno un prezzo.
-Tu morirai qui.-, sibila Christine Buenariva, -Ed è molto più di quanto altri vorrebbero farti.-.
La lama affonda senza resistenza, recide la vita di Henry Samson Lincoln.

 

Il viaggio è breve. Antonia ai comandi dell’elicottero condusse il velivolo sino alla costa del Messico. Atterrò. Ormai il sole aveva abbandonato il mondo, ma Boniface Laffort non badò a questa cosa, né alle altre. Gli interessava solo sua sorella, e capire come trarsi d’impaccio, pur sapendo quanto potrà costargli. Era in mano ai suoi nemici.
Ma sua sorella c’è, ammanettata, scortata da due uomini, un asiatico e un biondo, entrambi armati. Boniface si concesse un sorriso a quella vista.
Ma c’era qualcosa di stonato. Altri uomini. Gente diversa. Americani? O messicani? In ogni caso, pareva gente decisamente tosta, in assetto da guerra. Mitra compatti e giubbotti antiproiettile visibili sotto i vestiti.
-Che significa?-, chiese Boniface. Christine lo guardò.

-Significa che manterremo la nostra promessa.-, rispose Antonia, -Loro sono membri della C.I.A., Dipartimento Attività Speciali. Si occuperanno loro di voi. E forse, ripeto forse, saranno anche clementi.-. Uno dei nuovi arrivati si avvicinò prese Boniface per la spalla, guidandolo verso un’auto. Qualcun altro fece lo stesso con Lucia.
Boniface Laffort sospirò. Sapeva che sarebbe stata dura. Aveva già stabilito una linea d’azione. Collaborare, incriminare Henry Samson Lincoln, patteggiare. Semplice.
Scambiò uno sguardo d’intesa con la sorella. Lucia gli sorrise appena. Ce l’avrebbero fatta.

Fu con quell’ultimo sorriso che Boniface Laffort si rassegnò all’esodo e a ciò che lo aspettava. Non si faceva realmente illusioni: la sua vita era finita. Una cella, qualche decennio per lui e forse una pena più lieve ma non troppo per sua sorella, sempre che Christine, o chi per lei, non avesse già fornito agli yankee tutto il materiale a loro carico. In ogni caso, non importava.

Doveva solo pazientare, aveva molto da dire, ma doveva giocarsela con attenzione, senza concedere troppo. Ce l’avrebbe fatta, anche se sarebbe stata dura, durissima.

 

Era l’alba quando finalmente Antonia poté toccare il letto nella base temporanea del loro gruppo. Dormì giusto qualche ora.
Poi si svegliò e arrivò alla mensa. Non si stupì di trovarvi Christine.
La nera pareva altrettanto affamata. Allungò alla donna dai capelli ramati un piatto. Uova, bacon, la tipica colazione all’americana che Antonia aveva imparato a considerare la norma.
-Non riesci a dormire, eh?-, chiese.
-No. È che abbiamo ancora una cosa da fare. Anzi, le cose sono due.-, disse la nera.
-Sto ascoltando.-, rispose l’altra.

 

Tornare a casa per Julié fu semplice, ma svegliarsi nel cuore della notte urlando, quello fu terribile. Sapeva, sentiva che sarebbe accaduto ancora. Il ricordo di tutto quel che le era successo l’avrebbe accompagnata, sino alla fine dei suoi giorni.
La vendetta l’avrebbe placata? E come? Boniface se n’era andato, l’associazione Haiti Rebirth era finita sotto inchiesta, un nuovo contingente ONU aveva assicurato la stabilità nelle zone in cui l’influenza di Boniface Laffort era stata accertata. Julié Delinés era stata lasciata a sé stessa.
Ai suoi genitori non aveva detto nulla. Non avrebbero capito e non c’era verso che la polizia potesse aiutarla in qualche modo. Era prigioniera di un incubo vendicato solo in minima parte, di un torto che mai avrebbe potuto rettificare appieno.
Non importava quanto tempo sarebbe passato: Boniface Laffort le aveva rubato qualcosa che non sarebbe tornato. Aveva spalancato la porta dei suoi incubi.
Quella mattina, recuperata la posta si accorse di una busta, per lei.
La aprì. C’erano dei biglietti aerei, una serie di nomi e un registratore.
Lo attivò. C’era una sola traccia. La fece partire.
-Ho qualcosa da dirti.-, la voce di Christine Buenariva pareva pregna di promesse di dolore, ma stavolta Julié annuì. Il dolore, lo capiva, non sarebbe stato il suo.
Prese ad ascoltare con attenzione.

 

Un giorno più tardi.

Marcel Basile sorrise. La vita era bella in Brasile. Non aveva più rivisto Julié ma non gli importava. Passava le sue giornate nell’ozio e nel mero soddisfacimento dei bisogni. Aveva iniziato a prendere accordi con un paio di poliziotti non troppo moralisti, come ce n’erano tanti in Brasile. Il duo si era rivelato più che volenteroso ad assecondarlo. Lui aveva detto loro che avrebbe potuto procurare altre armi ai narcotrafficanti che i poliziotti avevano come partner per una serie di traffici illeciti non ancora scoperti dal B.O.P.E. o dai loro superiori.
Quel giorno, a Bahia Blanca, il sole era caldo e, nonostante il crescente timore del Covid e le rassicurazioni dei politici in merito all’effettiva scarsa gravità del morbo, Marcel era in spiaggia, a godersi il caldo. Notò quasi subito la tipa. Era piazzata poco lontano da lui.
Capelli ramati, lunghi, l’età doveva essere verso i quaranta. Fisico tonico, volto volitivo, quasi aristocratico. Nel complesso una magnifica bestia da letto. Marcel sentì un principio di erezione. Quando lei guardò nella sua direzione sorrise. Lei parve sorridere di rimando.
Lui zampettò sino a un bar e decise di offrirle da bere. Lo portò.
Lei si mostrò sorpresa e deliziata. Nessun tatuaggio lungo il corpo fasciato dal due pezzi rosso, qualche cicatrice, ma nulla di che.
Iniziarono a conversare quasi per inerzia, Marcel disse di essere di Santo Domingo, lei invece si chiamava Marié, si rivelò francese, ex poliziotta passata al settore privato. Marcel sorrise.
Interessante combinazione. Poteva considerarla una futura alleata, oltre che una piacevolissima avventura? La donna lo guardò con uno sguardo di fuoco che suscitò una reazione immediata nei bermuda dell’uomo. Impossibile che non se ne fosse accorta.
Ciononostante continuò a parlare, del più e del meno. Poi, improvvisamente Marié prese il cellulare quando questo suonò. Rispose. Poche parole. Passò, quasi distrattamente un biglietto. Quello di un bar. Marcel guardò nome e indirizzo. Lo conosceva. Lei appese. Gli sussurrò all’orecchio che lo avrebbe aspettato nei bagni del bar tra quindici minuti, e che il barista non avrebbe protestato. Purtroppo poi sarebbe dovuta tornare dal marito al suo hotel.
Concluse leccando l’orecchio di Marcel. L’uomo si sentì elettrificato. La voleva, dio quanto la voleva! La sua erezione era evidente e la donna vi passò, rapida quanto maliziosa, un polpastrello sopra attraverso il tessuto. Marcel sospirò. Se avesse continuato così sarebbe esploso subito come un adolescente alla sua prima volta!
Marié invece recuperò tutto ciò che aveva con sé, si vestì e se ne andò facendogli ciao con la mano. Marcel sorrise.

Ci mise pochissimo a rivestirsi e, quindici minuti dopo era lì. Entrò nel bar. Il barista, un espatriato europeo a giudicare dal viso e dai capelli, gli indicò i bagni facendogli l’occhiolino.
Appena entrato in bagno, Marcel si accorse di star per esplodere. Chiuse la porta dietro di sé.
Il bagno era vuoto, c’erano tre loculi e un orinatoio. Era pulito.
-Dove sei?-, sussurrò. Cercò la donna stupenda che aveva visto nei cubicoli ma non la trovò.
Gli aveva dato buca? Poi si accorse che la porta si era aperta. Si voltò. E sbiancò.
Christine Buenariva lo guardò con assoluto disprezzo. Marcel provò a parlare, tentò di spiegare, ma riuscì solo a singhiozzare qualcosa. Poi i due proiettili calibro 9mm lo schiantarono contro i lavandini.
La nera raccolse i bossoli, tolse il caricatore e, espulso il colpo in canna, mise la pistola in borsetta. Uscì dal bagno con calma. L’arma era silenziata e il bar era praticamente privo di clienti. Gettò una mazzetta di dollari al barman.
-Scusa se ho sporcato.-, disse senza sufficiente ironia da farla sembrare una battuta. Lui annuì. Altri due uomini con tutto un campionario di prodotti per pulire si mossero verso i bagni.
-No problema.-, disse l’uomo, -Immagino siano cose che capitano quando si fanno certe cose.-.
-Già.-, rispose laconicamente Christine. Uscì senza voltarsi. 

 

Antonia la aspettava in hotel. Avevano qualche ora prima del volo.
-Fatto?-, chiese. La nera annuì. La rossa posò il libro, un vecchio romanzo di avventura.
Notò che Christine si era presa qualcosa da bere. Una bottiglia di rum?
-Il barista ti ha dato noie?-, chiese. L’altra scosse il capo. Ovvio: era già stato avvertito.
Inoltre, non era la prima volta che qualcuno veniva ucciso in quel bar. Semplicemente ormai il barman sapeva disfarsi dei corpi. Aveva un piccolo accordo con alcuni traffichini per fare sì che il corpo di Marcel Basile sparisse nel nulla. E con quell’ultimo atto, la questione era chiusa.
L’arma era priva di numeri di serie, irrintracciabile, come tutte quelle del gruppo.

Christine si tolse le scarpe, sedendosi sul letto. Senza alcuna soggezione né particolare attenzione allo spazio personale di Antonia. Non erano così vicine da toccarsi, ma la donna dai capelli di fuoco notò che la nera pareva dubbiosa, forse persino turbata.
Attese. Semplicemente attese. Christine aprì la bottiglia. Bevve un sorso, lungo.
Le offrì la bottiglia. Antonia la prese. Bevve, silenziosamente, come a brindare alla vittoria.
-È finita. Io sono viva. Boniface e sua sorella sono finiti dentro.-, la voce di Christine era monocorde. Prese un altro sorso. –Eppure sembra quasi che…-, la voce della nera si spense.
-Che non sia servito?-, chiese Antonia. Conosceva la sensazione, la conosceva bene.
-Non è quello.-, sussurrò Christine, -C’è stato un momento, quando stavo morendo… Avrei voluto non dover tornare.-. L’ammissione fu come una bomba. Silenziò tutto il resto. Antonia annuì. Christine guardò la bottiglia.
-Passi la vita a combattere e poi ti accorgi di non riuscire a fare altro, a concepire altro. Forse alla fine, infliggere tanta morte può ucciderti dentro.-, sussurrò. Antonia la guardò bere di nuovo. Il rum le andò di traverso. Tossì. Parte della sorsata scivolò lungo il collo, lordò la camicetta che la nera indossava. Lei se la tolse con rabbia malcelata e un imprecazione dal tono impastato. Rimase gloriosamente pensosa, con indosso i calzoni e il top che stringeva il seno della giovane.
-Non è che non ci sia altro.-, osservò Antonia.
-No. Ma è che il resto é…-, la nera la fissò negli occhi con uno sguardo penetrante, privo di offuscamenti dovuti all’alcool, -Poco rilevante.-.
-Ok. Ma sta a te riuscire a farlo contare.-, sussurrò Antonia, -Se non puoi farlo, allora hai un problema serio. O non ci hai mai veramente provato?-, chiese. Christine la fissò.
Occhi negli occhi, di nuovo. E ancora, Antonia sentì un brivido. Notò che si stava avvicinando.
Il bacio tra le due donne fu sottile, due predatrici che si riconoscono, che si accettano, che si rispettano, non fu nulla di più e nulla di meno. Christine rimase immobile, come folgorata.
Antonia, fulminea, le strappò di mano la bottiglia. Notò i muscoli del braccio della nera contrarsi, come per un’istintiva reazione. Bevve a garganella. Fuoco in gola. Posò la bottiglia.
Christine la baciò di nuovo. Antonia accolse il bacio, lasciò che la lingua della nera le entrasse in bocca, a cercare la sua che l’aspettava. Sentì le mani di Christine che le toglievano piano la maglietta, sotto la quale non portava nulla. I seni di Antonia DuLac rimasero gloriosamente esposti allo sguardo della sua compagna. Erano dei bei seni: una terza prossima alla quarta misura. Totalmente naturali? No. C’era stato qualche ritocchino.
Christine sorrise. Si tolse il top. I suoi seni erano un po’ più piccoli, ma nulla da vergognarsi.
Sodi, e decisamente presenti, catalizzarono sin da subito l’attenzione di Antonia.
La baronessa DuLac sorrise. Sfiorò appena le tette della nera, decisamente compiaciuta e allo stesso tempo, consapevole di non dover essere invadente. Christine ricambiò, accarezzando piano i capezzoli di Antonia. La rossa gemette appena. Un gemito di puro desiderio.
Era tanto che non faceva sesso, e doveva ammettere che il sesso tra donne le era preferibile a quello con gli uomini, da sempre. In quel momento aveva voglia, una voglia assurda.
Christine la baciò di nuovo, scendendo lungo il collo, tornando alla bocca, cercando la sua lingua. Antonia scese con le mani lungo la schiena. La nera si staccò. La rossa capì.
Si alzò a sua volta, togliendosi i pantaloncini. Sotto aveva le mutande che si tolse con disinvoltura. Christine abbassò i pantaloni e l’intimo quasi con rabbia.
Si guardarono. Nude. Antonia notò le cicatrici di Christine. Non ce n’erano tantissime ma c’erano. Medaglie incise nella carne, segni di sopravvivenza, di vittoria, di giorni strappati all’oblio. Di baratri attraversati.

 

Christine sorrise. Il corpo di Antonia era muscoloso, senza perdere in avvenenza o bellezza.
Una cicatrice lungo la coscia era coperta da un motivo floreale. Il taglio lungo il braccio destro appariva recente e ben medicato. Come a intuire la sua curiosità, la baronessa rispose.

-Uno scambio di cortesie con Lucia Laffort.-, si limitò a dire Antonia, -Ha provato a scappare.-.
Christine annuì. Non c’era altro da dire, in effetti. Di fatto dire altro avrebbe rovinato tutto.
Si avvicinò di un passo. Accarezzò il viso della rossa con dita che sapeva frementi.
Antonia intercettò il movimento. Le afferrò il polso tirando verso di sé. Christine assecondò il movimento. Abbracciò la rossa. I seni si toccavano, i bacini spingevano l’uno verso l’altro, le bocche si cercavano. Le mani delle due donne indugiavano sui corpi, mappando territori ignoti, cercando zone che sapevano essere fonti di brividi e fremiti, carezzando, riconoscendo, coccolando. Due guerriere che, per un brevissimo istante, si concedevano la vulnerabilità, il lusso più prezioso. La mano di Antonia sinistra scese lungo lo stomaco di Christine, sino al pube. Poi più in giù. Lambì la cosce, piano, con delicatezza sopraffina, accarezzando appena, sino a sfiorare il sesso, già bagnato e prossimo a schiudersi, bramoso.
Quella della nera fece lo stesso, trovando una vulva grondante, aperta. La accarezzò dal clito sino allo sfintere. Antonia ansimava, forte e così anche Christine. Le altre mani erano occupate a toccare, carezzare, stringere, sondare. Le natiche della rossa erano sode quanto il resto del corpo. La cellulite pareva bandita dal corpo di quell’amazzone guerriera giunta dall’Europa.
Un dito della nera carezzò lo sfintere dell’altra, provocando una reazione tutt’altri che negativa. Il dito non affondò nell’ano, ma tornò su quell’area a tratti, a ribadire la scoperta.
La mano di Antonia carezzava il clitoride già eretto di Christine, scoprendolo piano, vezzeggiandolo, strappando alla nera gemiti di piacere. Respirare richiedeva la bocca, ormai. Inalavano aria, esalandola in versi di lussuria ancora da soddisfare. Christine infilò un dito nella vulva di Antonia. Non dovette fare molto: l’umidore dell’intimità della rossa era tale da rendere superflua quasi qualsiasi pressione. Il dito scivolò dentro, fino alla nocca.
-Oh… oui…-, mormorò la baronessa. Christine sentì una mano stringerle una natica, l’altra, accomodata tra le sue gambe stava facendola godere. Colava miele e lo sapeva.
Antonia strappò la mano dalla sua intimità portandosela alla bocca. La succhiò con voluttà provocatrice. Christine fece lo stesso, come in trance. Il sapore della rossa era dolce, ma non stomachevole. C’era un retrogusto amarognolo.
Sorrise. Si leccò le labbra con un atteggiamento volto a ribadire qualcosa di inesprimibile a parole. Ansimavano entrambe. Fu la nera a prendere l’iniziativa: afferrò il polso dell’altra e la proiettò sul letto con una mossa semplice ma efficace. Antonia non oppose resistenza. Christine sorrise, vogliosa. Si sfiorò freneticamente. Si avvicinò alla rossa e, inginocchiatasi tra le sue cosce, prese a leccarla. Trovò il clito, vezzeggiandolo con rapidi e sapienti colpi di lingua. Sentì le cosce di Antonia stringersi su di lei, la mano della baronessa spingerla contro la vulva rorida e fremente, le imprecazioni in francese inframmezzate da gemiti sempre più frequenti, il bacino che spingeva verso la sua bocca quell’area così sensibile.
D’improvviso, Antonia godette con un urlo secco. Christine la sentì sgorgare qualche goccia di smegma. Leccò. Si alzò dalla vulva, osservando la donna ancora ansimante. Con atteggiamento volutamente altezzoso si alzò in piedi sul letto, scese con il sesso sul viso della rossa.
-Lecca. Ora tocca a me.-, disse, troppo infoiata per pensare ad altro. Antonia sorrise. Eseguì.
E lo fece magistralmente: Christine il sesso saffico lo conosceva, ma la rossa sapeva bene che punti toccare e come. Si sfiorò i seni, una mano che guidava il moto della testa di Antonia.
-Ah… Ah… sì!-, l’esclamazione le uscì spontanea, non la fermò. Si stava concedendo di fare e di essere qualcosa che era stata pochissime altre volte. Con pochissimi altri.
Il Giustiziere era uno dei pochissimi eletti ad aver potuto intravedere quell’aspetto di Christine Buenariva, una sorta di sancta sanctorum comportamentale, precluso ai più.

 

Antonia leccava, stringeva le natiche di Christine, suggendo, ingoiando. La nera colava miele.
Christine aveva un sapore ferale, tipico delle nere, non era spiacevole, ma parlava di qualcosa di primordiale, di arcaico, un atavico legame con qualcosa di celato nell’animo e nel DNA umano. Scopare con una nera, o con un nero, portava chiunque a rivivere quel qualcosa.

Era una grazia, ma ovviamente, pur volendo fermarsi a ragionarci, Antonia non si sarebbe voluta fermare, non in quel momento. Categorizzare ed esplorare quel fenomeno era meno importante che vivere il momento. Continuò a leccare. Un gemito modulato, lungo e protratto l’avvertì che l’orgasmo della sua compagna era prossimo. Piano, infilò un dito tra le grandi labbra, lasciando che la nera lo accogliesse. Lo tolse, leccò e rimise un paio di volte.
-Godi, godi!-, esclamò Antonia. Christine sorrise.
-Fammi godere!-, ringhiò la nera. Le sbatté la figa in faccia. Antonia non si fece pregare.
Continuò a leccare sino a sentire Christine godere piano, e un fiotto di succhi vaginali lordarle il viso. La nera si tolse, sdraiandosi accanto a lei.

Passò un lungo, lunghissimo istante in cui si toccarono piano, mai sazie, mai veramente sazie.
-Facciamo il secondo round?-, sussurrò Antonia. Aveva ancora voglia. E anche Christine sembrava. Ma qualcosa suonò. Un orologio.
-Merda. Il volo…-, sussurrò la nera.
-Già. Andiamo.-, disse Antonia. Evidentemente il secondo round avrebbe dovuto essere rinviato. Si rivestirono dopo una brevissima doccia. Abiti nuovi. Lasciarono gli altri vestiti nelle valige. Si affrettarono a uscire, pagare. Christine lasciò la pistola in un cestino e il caricatore in un altro. I colpi in un cestino differente.
Chiamarono un taxi.

 

La nuova base del gruppo era negli Stati Uniti, specificatamente nel Maryland.
Era stata la sede di una vecchia azienda, la copertura era ancora quella.
Christine entrò nella sala. Marco stava vagliando dati su internet.
Alla fine non c’era stato un secondo round: Antonia era dovuta partire alla volta dell’Italia e abbastanza in fretta. Si erano date un bacio d’addio che Christine sperava non fosse stato ripreso dalle telecamere di sorveglianza.
-Marco.-, disse. Lui si voltò, aveva trasalito appena un istante. Migliorava.
-Christine…-, disse, -Io… non mi aspettavo… E cos’è la borsa?-.
La luce fioca delle lampade permetteva al giovane di vedere una borsa da viaggio minimal accanto alla nera, avvolta in pantaloni jeans e maglia.
-Un viaggio. Ho bisogno di fare alcune cose. Di scoprire alcune cose su di me.-, ammise lei.
-Tornerai?-, chiese Marco. Christine notò il rossore delle guance anche alla fioca luce delle lampade al neon. Sorrise. Palese che quello si fosse preso una cotta per lei.
-Sì. Ma non so né quando, né come sarò quando tornerò.-, disse.
-È per via delle torture di Lucia? Posso far chiamare uno psichiatra…-, iniziò Marco.
-No. Non servirà. Gli strizzacervelli li lascio ad altri.-, la risposta della nera fu gentile, per i suoi standard, ma ferma. Marco annuì.
-Hai fatto tanto, per tutti noi. E sappi che lo so. E so che mi hai messo addosso un tracciante.-.
La frase parve bloccare sul nascere qualunque possibile altro dialogo.
Marco esitò, conscio che l’ira di Christine poteva essere terribile. Comprendeva.
Ma Christine sorrise.
-La dentista, vero?-, chiese. Lui annuì. Lei si avvicinò. Un passo, due, flessuosa come una pantera, e altrettanto letale. Il suo sorriso fu… qualcosa di imprevisto per Marco. Quel ragazzo era leggibile come un cartellone pubblicitario. Emozioni contrastanti sul viso del giovane ne svelarono il reale sentimento nei suoi confronti. Non che ci volesse un genio.
-È stato grazie a quel tracciante che hai mandato Antonia e i suoi, eh?-, chiese.
-Sì.-, disse lui. Ora non c’era più paura, solo conscia, consapevole, assoluta calma.
-Mi hai salvata due volte. La prima quando hai permesso agli altri di trovare Julié e me. Sapevi che mi aveva tradita, vero?-, chiese.
-C’era un accredito. Un bonifico a suo nome. Conti bancari cifrati. Ho solo fatto due più due.-.
Ora nella voce di Marco Poretti c’era persino orgoglio. Il ragazzo era pallido, carnagione bianco latte dovuta al lavoro al chiuso e la barba pareva necessitare di un barbiere.

-La seconda volta è stata quando hai mandato Antonia e i Legionari. Non ce l’avrei fatta senza di loro.-, disse. Lui annuì. Christine era vicina, vicinissima.
-So che ti piaccio.-, disse. Era impacciata anche lei: per tutta la vita, o gran parte di essa, aveva visto il sesso come un mero bisogno e le relazioni attorno ad esso come debolezze, spesso e volentieri odiandosi per esse. Marco la venerava, ma non avrebbe mai osato dirglielo.
Così, ora lei avrebbe messo le carte in tavola. Glielo doveva. E in fin dei conti, era uno del team.
-Io…-, sussurrò Marco. Lei sorrise. La mano arrivò al viso del giovane. Lo sfiorò appena. Lui gemette. Lei sorrise ancora, divertita, persino intenerita dalla reazione.
-Rilassati.-, sussurrò, -Non ti farò del male.-.
-Dio…-, sussurrò lui. Christine sorrideva ancora. Immaginava il giovane prossimo ad esplodere. Gli mise una mano sul sesso attraverso i vestiti. Durissimo. Non enorme ma decisamente pronto a fare il suo dovere. Christine non smise di sorridere.
-Non sono il tipo da storie romantiche. E non sono… come le altre.-, disse.
-Lo so…-, mormorò in un soffio il giovane. Lei annuì. Lo baciò. Lui fece tutto con la fretta degli inesperti: cercò di imitare gli attori di qualche film, o forse no. Ma fu dilettantistico. Christine lo lasciò fare. Sentì la mano di lui, esitante, spaventata, che le accarezzava il capo.
Si staccò. Non poteva andare avanti? No, avrebbe potuto. Avrebbe anche voluto.
Di certo sarebbe stato interessante, per entrambi, ma Marco non era un oggetto, né apparteneva alla categoria dei suoi amanti, era di un’altra pasta. Era uno di loro e farci sesso come avrebbe fatto con il Giustiziere o con Antonia sarebbe stato ingiusto, lo avrebbe svilito.
Forse lo avrebbe danneggiato, illudendolo di poter essere ciò che non era, portandolo su sentieri oscuri. Non era ciò che meritava. Lo guardò negli occhi. Lui fece per parlare.
-Christine, io…-, lei mise un dito davanti alle sue labbra. Gettò le trecce dei dreadlocks alle spalle. Sorrise di nuovo. Non era male sorridere, e in quel momento sentiva di poterlo fare.
Parte del cambiamento.
-Marco. Grazie. Di tutto.-, sussurrò. Si fece seria.
-Ci sono telecamere?-, chiese. Lui scosse il capo. Lei si rilassò.
-Ascolta, devo dirti alcune cose.-, disse.

Dieci minuti dopo, Christine uscì dalla stanza.
Lasciò lo stabile e chiamò un taxi, dirigendosi all’aeroporto più vicino. Aveva con sé due carte Visa con 20’000 dollari di fondo credito l’una oltre ai fondi cartacei. Aveva preparato i suoi vestiti. Aveva alcune cose da fare, da capire, da scoprire, riguardanti sé stessa.
E curiosamente, per la prima volta dopo molto tempo, nessuna di esse aveva a che fare con l’atto di uccidere o ferire altri esseri.

 

Marco Poretti espirò. Aveva capito. Sorrise. Se Shaibat avesse saputo. Sospirò: anche quella sera avrebbe dovuto navigare su qualche sito porno, ma non importava. Poteva riposare.
L’operazione di Christine era stata un successo. La rete di Boniface era in totale disfacimento, minata dalle confessioni dell’haitiano. Horst aveva riferito di ingenti conti bancari pignorati dal governo haitiano. Fine dei giochi.
La rete di Henry Samson Lincoln aveva accusato il colpo. Sicuramente, il Sudamerica sarebbe divenuto un posto molto agitato e scomodo, Marco non aveva dubbi al riguardo.
Boniface si era rivelato cooperativo, e i suoi avvocati avevano abilmente scaricato la colpa su Henry Samson Lincoln e altri soci. Un codazzo di legisti aveva vagliato le prove.
Il processo a Boniface Laffort era e sarebbe stato lungo, lungo e arduo.
Sicuramente la giustizia U.S.A. avrebbe attivato un procedimento volto a sbatterlo dentro, ma purtroppo era sorto un inghippo, uno sgradevole contrattempo.
Boniface Laffort era cittadino francese. Aveva acquisito la cittadinanza durante gli studi in Europa. E di fatto, la Francia aveva protestato con gli U.S.A. per poter avere il diritto di processare Boniface in patria. I diplomatici si scornavano. Nel mentre, anche Haiti faceva valere il suo (scarso) peso politico, richiedendo che Boniface fosse processato sul suolo patrio.
Un autentico incubo diplomatico. Marco sospirò. Sapeva come sarebbe potuta finire.
Boniface avrebbe potuto uscirne, non prosciolto ma sicuramente il potere del dio denaro l’avrebbe avvolto come un sudario, proteggendolo dalla pena più che meritata.
Eppure, Marco sapeva che c’era un modo. Doveva esserci.
Indipendentemente da chi avrebbe processato Boniface, la giustizia sarebbe scesa in secondo piano davanti ai soldi che quest’ultimo o la sua organizzazione (la parte a lui ancora leale) avrebbero tirato fuori. Era sempre così. Ma stavolta, forse c’era un modo…
Prese il telefono.

 

Boniface Laffort sospirò. La prigione era piccola, e lui era guardato a vista da alcuni secondini.
Ne sarebbe uscito. Sapeva che ne sarebbe uscito. I suoi avvocati avevano già iniziato a ungere gli ingranaggi dove possibile, per smussare la pena, o addirittura evitare la condanna, se possibile. Sua sorella aveva scelto di cooperare, la sua pena era ridotta rispetto a quella di lui. Ma per ovvie ragioni: nei suoi piani, Lucia aveva avuto un ruolo marginale. Nulla di eccessivo, anche se la sentenza non sarebbe stata indifferente.
Il carcere non era misto ma parte del personale era femminile. Parte del programma di integrazione degli States. Non si stupì quando una ragazza nera gli portò il rancio. Minestra di verdure. Mangiò. Di gusto. Un’ottima cena. Giusto un po’ più speziata del dovuto.
Mezz’ora dopo, dovette andare al bagno. Fu ritrovato cadavere nel loculo dei sanitari.
Avvelenamento. Si cercò di risalire all’identità della giovane che aveva portato il pranzo, ma pareva essere sparita, dalle telecamere, dagli archivi e dalla memoria del personale.
Come un fantasma.

 

Julié Delinés osservava il mare. Blu, paradisiaco.
Si sentiva meglio? Sì. La vendetta era servita? Forse. Era finita? No.
Ma poteva ricominciare. Ispirò, espirò. Inspirò di nuovo. Lanciò un grido inarcando la schiena, il viso contratto in una smorfia lieta, di gioia feroce. Era libera. Gli incubi c’erano, ma erano un nemico da nulla.
Poi tornò verso l’entroterra, verso la vita. La sua. L’unica che voleva.
I baratri c’erano, ma ora erano noti, per quanto oscuri.

Leave a Reply