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Gli uomini di Alma – Capitolo 12

By 20 Settembre 2020Ottobre 17th, 2020No Comments
Caro Diario,
so che sei curioso di sapere tutto fin nei minimi particolari.
Mi devo sforzare di  mettere insieme i vari tasselli di questo grande affresco; ci proverò. Andiamo con ordine, altrimenti non ci capisci niente. Veramente, alla fine, non posso dire di averci capito molto neanche io. Sono confusa; da dove cominciare? Mi sforzerò. Valuta tu se sono chiara nella esposizione.
 
Ti dissi che avevamo deciso di incontrarci per il fine settimana. Lucia, tanto per incasinare le cose, propose di vederci tutti in maschera. Carnevale era agli sgoccioli e quindi cascava a meraviglia. Per rincarare la dose proposi che ciascuno si presentasse con il volto coperto da una maschera che rappresentasse il volto di una donna, di un uomo, di un animale o di chiunque altro essere vivente o di fantasia, senza comunicarlo agli altri, in maniera da confondere le acque. Marcella propose che solo il volto fosse mascherato, ma che tutti fossero forniti di mantello col cappuccio.
 
Solo io, la Regina, auto-nominatami, dovevo apparire vestita da Dama di cuori con diritto a dettare legge. Il personaggio mi calzava a pennello e avevo delle idee grandiose. Immaginavo ordini imperiosi, cavalcate possenti e sfinimenti continui. Tutti i partecipanti, interrogati singolarmente, furono d’accordo, alcuni, addirittura, entusiasti. Mi raccomandai, però, di attenersi al dettato: non parlare mai! Consentito solo qualche sussurro che non infastidisse gli altri. Ciascuno si sarebbe sentito più libero delle proprie azioni e più propositivo.
 
Concordai con Lucia che ciascuno avrebbe trovato nella sua stanza un braccialetto da polso in tessuto con chiusura a strappo per indicare la propria preferenza, e cioè: blu per bisessualità, nero per etero e rosa per omosessuale; arcobaleno per indicare la propria versatilità.
 
Per non scoprire il gioco, concordammo che ogni macchina, al massimo con due occupanti, sarebbe entrata nel “nido d’Amore” in orari differenziati e all’insaputa degli altri, parcheggiando ognuna dietro delle alte siepi disposte in modo che nessuno avrebbe potuto vedere l’auto di chi era già arrivato. Una volta aperto il cancello elettronico, una luce si sarebbe accesa per segnalare il posto libero. Lucia e il marito avrebbero organizzato e curato l’accesso delle auto col videocitofono senza mai apparire.
 
Al lato di un tavolo in pietra, al termine del pergolato, gli invitati, giunti alla spicciolata, avrebbero trovato un piccolo tornello adatto a far passare una chiave adagiata su di un panno verde. Uno alla volta, separatamente, avrebbero avuto l’accesso all’ingresso ovale della villa; avrebbero trovato molti battenti chiusi che si affacciavano sulla hall, ma ciascuno avrebbe raggiunto la  propria stanza guidati dalla luce dell’unica porta  aperta nella sala, curando di chiuderla a chiave alle spalle. Nessuno avrebbe potuto sapere chi occupasse i vari budoire.
 
All’interno di ogni stanza, su di una dormeause, era predisposto un mantello con cappuccio di colore rosso o nero. Ci si doveva spogliare dei propri abiti, restando solo con l’abbigliamento intimo (che era raccomandato in raso, per gli uomini, o in pizzo rosso o nero, per le donne o assimilate ) e indossare sul volto la mascherina scelta da ciascuno, ricoprendosi con il mantello e con il cappuccio. A quel punto, solo la mascherina sarebbe stata visibile. Il resto del corpo sarebbe stato scoperto secondo il volere della regina.
 
Questo compito mi gratificava e, contemporaneamente, mi metteva in ansia. Ce l’avrei fatta ad avere polso e inventiva da accontentare tutti i partecipanti? Meglio non pensarci e andare avanti nei preparativi. Per farla breve, alle 20 io e Marcella eravamo pronte. Ognuna di noi nascondeva all’altra la mascherina acquistata, perché doveva restare un segreto. Solo io avrei portato sul capo una coroncina dorata per sottolineare la mia autorità. In silenzio entrammo nell’Audi. Marcella guidava. Non dicemmo una parola, tanto l’ansia e il desiderio ci attanagliavano la gola.
 
Alle 20,30 eravamo davanti al cancello che si aprì subito. Una luce in fondo, l’unica l’ungo il viale, ci guidò al parcheggio, sepolto dietro un’alta e fitta siepe di ligustro. Ero un po’ intimorita. In fretta andammo al pergolato. Presa la chiave entrai da sola, al buio, nell’atrio ovale. La tremula fiamma di una torcia mi accolse, ondeggiando su di una parete. In fondo, la luce di una stanza disegnava un rettangolo sul pavimento di marmo grigio.
 
Corsi verso quel segno di vita e richiusi la porta alle spalle. La chiave girò silenziosa nella serratura. Il mantello era lì ad attendermi. Era rosso, di un colore cupo. Mi spogliai, restando in lingerie. Una parure in pizzo nero bondage coordinato con mutandina ouvert. Il pube ben rasato di fresco appariva in tutto il suo turgido fulgore.
 
Sì, ero eccitata! Le guance, purpuree, attestavano che il sangue stava girando a mille. Le tempie sembravano due timpani scossi dai percussori imbottiti dal feltro. Cionf cionf cionf cionf; il rumore rimbombava in ogni angolo del mio corpo. Mi misi nuda davanti allo specchio antichizzato che mi guardava, opaco, sulla parete opposta tra una cornice di foglie dorate. La luce  diffusa da un abat-jour liberty stile pastorale in vetro macchiato a colori floreali, alto su di un tavolino ovale con base e colonna in ghisa sabbiata, posto affianco allo specchio, era tutta l’illuminazione della stanza. Gli spicchi del vetro colorato davano lucentezza alla mia pelle diafana.
 
Per non cedere alla tentazione di concedermi il piacere da sola, ricoprii tutto con i pizzi dell’intimo, mentre il suono soffuso di una campanella si avvertì di lontano. Infilai il mantello, la maschera dorata enigmatica che mi copriva il volto, il cappuccio, tirandolo in modo che mi coprisse fino alla fronte e il braccialetto arcobaleno. Aspettai.
 
Dal lato della stanza opposto a quello da cui ero entrata, uno scomparto nella parete si aprì, rivelando il vano di una una porta molto più piccola della precedente. Una livida luce illuminava un corridoio Passai veloce e mi trovai su di un piano leggermente inclinato che girava dopo una curva a gomito, scendendo ancora. Mi trovai in una sala enorme illuminata appena da piccole applique perimetrali.
 
Il rosso cupo la faceva da padrone alle pareti dove si susseguivano scene di caccia al cinghiale da parte di Artemide attorniata da stuoli di cacciatrici dal seno e dalle gambe nude fino all’inguine. L’allusione era esplicita. Sull’altra parete si susseguivano scene d’amore lubrico che pareva d’essere nella casa del lupanare a Pompei. Erano rappresentate torme di uomini e donne che si davano reciproco piacere, alternandosi nel gioco di prendersi e donarsi.
 
La terza parete, priva di applique, era occupata per il cinquanta per cento dalle vivide fiamme di un imponente camino schermato in vetro ceramica che pareva invadere la stanza con l’ondeggiare inquieto del suo ardere. Tutt’intorno morbidi cuscini e folti tappeti in stile orientale ornavano il pavimento in padouk.
 
Al centro, il gruppo degli ospiti incappucciati e stretti nei loro mantelli rossi o neri era contrapposto in due file ai lati del tappeto rosso che si stendeva fino a una pedana dove troneggiava una poltrona dorata in stile rococò. Evidentemente attendevano me: la regina. Avanzai con fare dignitoso e lentamente mi diressi alla poltrona. Su di essa era poggiata la corona che avrei dovuto indossare. Mi rivolsi verso il mio pubblico, mentre due personaggi, l’uno col mantello rosso e l’altro in nero, ai due lati, sollevarono il diadema deponendolo sul mio capo. Guardai la sala e i convenuti.
 
Un’alta figura incappucciata si staccò dal fondo del gruppo dei miei sudditi e si avvicinò silenziosa, avanzando sulla passatoia felpata. Portava un cuscino di raso rosso e, al centro, era deposto una forma allungata: uno scettro, immaginai. Man mano che si avvicinava mi accorsi che, invece, era un grosso, lungo fallo turgido e venoso, adagiato sul fianco, sull’imbottitura di raso.
Eburneo, sembrava pulsante e molto realistico con le sue venature azzurrine. Iniziativa di quella strega di Lucia!
 
Si fermò ai miei piedi e alzò il cuscino verso di me perché ne prendessi possesso. Con delicatezza, allungai la mano e impugnai lo “scettro” dal centro. Per quanto distendessi il palmo della mano, le dita non si chiusero sulla rotondità del fallo, lasciando aperta l’impugnatura. Avvertii il vigore che quell’attrezzo mi trasmetteva e aumentò il mio desiderio di disporre dei corpi dei miei sudditi.
 
Sollevai lo scettro priapesco e ordinai con il gesto di mettere giù i cappucci.
Caddero di colpo tutti i copricapo. Maschere a forma di teste di caprone, di toro, di cervo, di diavolo, di satiro, di asino, di principe, uscirono allo scoperto; e c’era anche un jocker. Tutti gridarono in coro: “Ordina Titania, nostra Regina, e noi ubbidiremo!”, alzando verso il soffitto qualcosa che, nella penombra delle fiamme del cammino e delle luci ovattate intorno alla sala sembravano delle corte lame. Che cacchio aveva combinato Lucia senza avvisarmi!
 
Mi tremarono le gambe, lusingata dal ruolo di Regina delle Fate, ricordandomi di Shakespeare, e, nello stesso tempo, impressionata dall’inaspettato coro entusiasta. Mi investiva di un compito insolito che faceva tremare i polsi: la guida di corpi e menti votati al sesso. Tutto era affidato alla mia fantasia. Intanto, aleggiava una canzone che faceva da sottofondo alla riunione. Mi pareva: “You don’t own me” di Grace. Dovevano esserci dei diffusori in ogni angolo della sala, ma il suono era ovattato.
 
Tutti iniziarono a ballare, ondeggiando e seguendo il ritmo. A quel punto deposi lo scettro sulla poltrona e, in piedi, battetti le mani per attrarre l’attenzione dei miei sudditi. Aprii il mantello, invitando a fare altrettanto con il gesto, e lo slacciai lentamente, lasciando che cadesse, scivolando ai miei piedi. Un faretto si accese sopra di me, evidenziando l’epidermide diafana. Le mie forme balzarono fuori prepotentemente, ornate di pizzi al seno e all’inguine, le gambe fasciate nelle autoreggenti trapuntate. 
 
Scivolarono a terra i “domino” rossi e neri, lasciando liberi i corpi quasi nudi. Così, continuando a ballare, le distanze diminuirono, arrivando quasi a toccarci l’un l’altro. Strano però! Eravamo cinque donne e quattro maschi. Riconobbi subito dal fisico Marcella, ce l’avevo in casa! Aveva la maschera da diavolo. Guardai meglio e mi sembrò fosse accompagnata da un uomo, sicuramente Charles, con la testa di montone. La dimensione di due metri era inconfondibile. Affianco, a ridosso di Marcella, c’era un bel corpo femminile con la testa coperta dalle sembianze di un asino che non riconobbi. Poi c’era Teo, il mio Principe, che si avvicinò per prendermi. Poco discosti un uomo e una donna con maschera di toro e caprone e lì presso un’altra coppia, un cervo e un satiro, forse Lucia e il marito, si agitavano nel ballo che ora era diventato un motivo di bachata, molto sensuale.
 
Chi era l’asino? Avevo notato che tutti indossavano il braccialetto arcobaleno. Dimostrava una apertura mentale notevole. Restai un po’ delusa per Teo che, anche lui, aveva al braccio l’arcobaleno. Ma d’altronde non potevo esserne gelosa perché anch’io avevo optato per quella scelta. Evidentemente, dopo l’incontro con Marcella, era rimasto ben impressionato e ci aveva preso gusto.
 
Montone, toro e diavoletta iniziarono ad appartarsi, buttandosi su di una pila di cuscini alla rinfusa in un angolo della sala. Erano seguiti a ruota dall’asinella. Caprone, cervo e satiro si disposero dall’altro lato della stanza. Io curavo e lisciavo il mio bel Principe e, seduta sulla poltrona me lo limonavo ben bene, ma non perdevo d’occhio la sala, quando potevo. Teo mi faceva vedere le stelle, mentre  mordicchiava, succhiava e stirava i miei capezzoli che erano diventati sensibilissimi. Una vera, piacevole tortura! (continua)
Nina Dorotea

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