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Asta

By 14 Giugno 2016Dicembre 16th, 2019No Comments

ASTA

Mi avvicinai con cautela.
Era la prima volta che andavo in un posto del genere.
Cio&egrave, ne conoscevo l’esistenza, avevo anche visto dei programmi in televisione, certo, ma non avevo mai voluto averci niente a che fare.
Non era nel mio stile, non era compatibile con la mia cultura, la mia etica, i miei valori.
Insomma, era la prima volta che andavo ad un’asta di schiavi.

Chissà cosa mi aspettavo, ma alla fine mi trovai all’ingresso di un edificio anonimo, grigio, con una porta a vetri scuri.
Un citofono, con la targhetta ‘auctions’, aste.
Mi fermai, esitando, senza schiacciare il pulsante.
All’improvviso qualcuno si avvicinò da dietro, mi disse ‘scusi’, schiacciò il pulsante e guardò fisso nella telecamera.
Dopo un secondo, con un ‘clack’ la porta si aprì.
La persona che aveva suonato aprì la porta, entrò e si girò verso di me, tenendo la porta aperta – entra? ‘ mi chiese

Io rimasi fermo un momento, poi sorrisi e mossi un passo, entrando ‘ sì, grazie. Molto gentile –

Mentre la porta si chiudeva dietro di me, mi guardai attorno.
Un ingresso ampio, illuminato da lampade sul soffitto alto.
In terra pietre chiare, lucide, e su un lato un bancone con dietro tre o quattro persone vestite con una specie di divisa.

Mi avvicinai, e sorrisi.
– posso aiutarla? ‘ mi chiese cortese una signora sui cinquanta, con una giacca blu scuro, una camicetta bianca e un foulard al collo, la stessa divisa che indossavano le tre persone accanto a lei dietro al bancone.
Sul taschino della giacca, il simbolo del Ministero.

– sì, grazie’. Ecco’ non so bene dove’ –
– &egrave la prima volta? ‘ mi chiese lei, senza alzare gli occhi dallo schermo del computer
– sì, infatti ‘
– si &egrave già registrato on line, giusto? ‘
– sì, e ho stampato il pass’ – dissi tirando fuori dalla tasca il documento che avevo stampato a casa dopo aver completato la procedura di registrazione
– mi faccia vedere’ – disse lei, e prese il mio pass, scannerizzando il codice a barre stampato sul pass, su cui non compariva né il mio nome né altri dati.
– sì’ – disse lei, leggendo qualcosa sullo schermo ‘ sì’ &egrave tutto a posto’ ha accettato le condizioni di asta’ il Ministero le ha conferito il diritto di acquistare e possedere un numero di schiavi non superiore a cinque’ non ha ancora l’autorizzazione a rivenderli privatamente’ quindi se volesse rivenderli lo sa, no? Deve riportali qui da noi ‘

– sì’ – sussurrai imbarazzato, arrossendo, temendo che qualcuno ascoltasse la nostra conversazione ‘ sì ma tanto’ cio&egrave’ –
– qui c’&egrave l’elenco delle aste di oggi ‘ mi interruppe lei, consegnandomi una specie di rivista ‘ di là ‘ indicò una porta ‘ c’&egrave la sala delle aste, mentre al piano di sopra c’&egrave il bar ‘ aggiunse indicando una scala
– se comprasse qualcosa ‘ ‘qualcuno’, stavo per correggerla, ma mi morsi la lingua in tempo – – le consegneranno dei documenti’ li porti qui, da me o da una mia collega subito dopo aver firmato, e procederemo alle formalità’ mi raccomando, venga subito dopo ogni acquisto, che se aspetta la fine delle aste si trova davanti una coda e noi alle sei chiudiamo, e se non ha fatto in tempo deve tornare domani ‘
– no no, certo’ grazie ‘ dissi, e mi allontanai

Guardai la porta scura, che dava alla sala delle aste.
Mentre parlavo con la signora, la sala si era affollata: almeno trenta o quaranta persone erano entrate alla spicciolata, molti formavano dei piccoli gruppi e chiacchieravano tranquilli.
Sembravano tutti normali uomini d’affari.
Non c’era nessun pazzo, violento, tatuato e selvaggio, con la bava alla bocca o con lo sguardo assassino, come normalmente venivano dipinti coloro che partecipavano alle aste di schiavi dai media progressisti e dagli attivisti dei diritti civili.

Ciononostante, tenni la testa bassa, cercando di non essere notato da nessuno.
Salii le scale e arrivai al bar, ordinai un caff&egrave americano, trovai un tavolino e mi sedetti dando le spalle alla sala.
Finalmente mi rilassai, e presi in mano il giornaletto che mi aveva dato la signora alla reception.

Era grande più o meno come una rivista, con la copertina spessa.
In alto, dopo il simbolo del Ministero, una scritta in caratteri giallo oro riportava la data di oggi e ‘Asta di schiavi e schiave’, su sfondo nero, senza nessuna foto.

Appena aperto il catalogo, la prima pagina riportava, scritto fitto e in caratteri molto piccoli, tutto il testo di quella che ormai era conosciuta come la ‘Legge Schiavi’, che aveva reintrodotto alcuni anni prima la schiavitù nel paese.
In poche parole, chi non riusciva a mantenersi, o aveva debiti troppi ingenti, poteva essere venduto come schiavo: con le somme pagate per l’acquisto dello schiavo, il Ministero pagava i debiti dello schiavo.
Dopo le prima proteste, la maggior parte della popolazione si era convinta che il sistema aveva molti lati positivi.
Gli schiavi, invece di finire in galera venivano venduti, e chi li comprava si faceva carico delle spese del loro mantenimento.
Col tempo, addirittura, alcune persone decisero di ‘vendersi’ di propria volontà, magari per un periodo di tempo limitato a qualche anno, mettendo da parte i soldi incassati con la vendita, per iniziare una nuova vita dopo la fine del periodo di schiavitù.

E la legge era anche molto precisa nel definire diritti e doveri sia dello schiavo, sia del ‘titolare’: in poche parole, lo schiavo &egrave tenuto a obbedire a tutti gli ordini del titolare, che a sua volta &egrave obbligato a mantenere in salute lo schiavo.
Il titolare può anche punire lo schiavo che non ubbidisce, ma anche in questo caso ci sono limiti precisi, cio&egrave senza che la punizione causi traumi o conseguenze irrimediabili, o metta a rischio la vita o la salute dello schiavo.

Scorsi molto velocemente il testo della legge, che avevo già letto e riletto molte volte, nelle scorse settimane, preparandomi a questa giornata.
Avevo anche studiato decine di articoli di giornale, e insomma ero praticamente diventato un esperto sulla Legge Schiavi, la sua applicazione e le sue criticità.

Quindi girai pagina.
Nelle pagine successive, ogni pagina aveva due foto.
Le foto ritraevano a figura intera una persona, uomo o donna, di fronte.
Nella prima foto la persona era vestita con una specie di tuta grigia, e nella seconda era in mutande (o mutande e reggiseno per le donne) sempre grigie.

Sotto ogni foto, una breve descrizione:

– Nome:
– Cognome:
– Data di nascita:
– Altezza:
– Peso:
– Misure di fianchi, torace, spalle:
– Studi (eventuali):
– Professioni precedenti (eventuali):
– Precedenti proprietari (eventuali):
– Motivo di riduzione in schiavitù (se più di un motivo, specificare i diversi motivi):
– Prezzo base d’asta:

Mi trovai a sfogliare le pagine una dopo l’altra.
C’erano più uomini che donne, circa due uomini per ogni donna.
L’età media era intorno ai trent’anni, la formazione culturale di solito medio bassa, i precedenti lavori erano spesso lavori di basso profilo in fabbriche o aziende che avevano chiuso.
Il motivo di riduzione in schiavitù era quasi sempre debiti, tranne due o tre giovani maschi che si erano messi volontariamente in vendita per un periodo di tre o cinque anni.
Sfogliavo le pagine, quasi ipnotizzato dalle fotografie, e mi concentravo non tanto sui corpi ma sui volti, sugli occhi, che erano fissi, privi di goni espressione, come se fossero delle statue, o dei manichini: probabilmente, pensai, gli dicono di fare così.

E poi girai una pagina ed eccola lì.
Era lei.
Mi sentii in imbarazzo a guardare le foto, soprattutto quella in intimo, e quindi mi concentrai sui dati.

– Nome: Francesca
– Cognome: ‘
– Data di nascita: ‘
– Altezza: 172cm
– Peso: 53 kg
– Misure di fianchi, torace, spalle: ‘
– Studi (eventuali): laurea in architettura, master in design di interni
– Professioni precedenti (eventuali): titolare dello studio di architettura XXX
– Precedenti proprietari (eventuali): nessuno
– Motivo di riduzione in schiavitù (se più di un motivo, specificare i diversi motivi): bancarotta
– Prezzo base d’asta: 52.000,00.

Era davvero lei, il nome, il cognome, gli studi, il suo studio di design, anche altezza e peso erano quelli.
E anche la bancarotta, di cui avevo letto per caso mesi fa in un trafiletto in una rivista abbandonata su una panchina in stazione, dove si diceva che per Francesca c’era il rischio dell’applicazione della Legge Schiavi.
Da allora su internet avevo seguito passo passo la vicenda di Francesca.
I tentativi infruttuosi di trovare i soldi, le false speranze, il processo, l’avvocato che abbandona la difesa perché Francesca non era più in gradi di pagare le parcelle, l’avvocato d’ufficio che combina un disastro dopo l’altro, fino alla condanna alla schiavitù per 10 anni.

Era stato allora che avevo per la prima volta pensato davvero di farlo.
Perché a me Francesca era rimasta dentro.
Da quando tre anni prima avevamo avuto una breve relazione che si era limitata a una scopata di una sera, quando avevamo bevuto un po’ troppo e di cui non ricordavo praticamente nulla, e poi due o tre giorni di (mio) corteggiamento e (suo) distacco, fino a che non mi disse che non mi considerava ‘al suo livello’ né dal punto di vista economico né da quello sociale, tagliandomi fuori dalla sua vita.

Mi era rimasta dentro, non ero riuscito a dimenticarla.
Mi ero innamorato? Bho, forse in un certo modo all’inizio sì, ma col tempo l’innamoramento si era fuso con il risentimento per come mi aveva trattato e il desiderio fisico, che si era fatto sempre più forte, e un desiderio di rivalsa e vendetta che pian pianoaveva inglobato tutto.

E quando avevo letto della sentenza di condanna alla schiavitù, per una settimana non avevo dormito la notte.
Mi ero girato e rigirato nel letto, avevo letto tutto quello che potevo su internet, e alla fine avevo deciso.
Avevi deciso che sarei venuto qui, oggi, e poi’ e poi niente, non ero nemmeno riuscito a immaginare cosa avrei fatto quando fosse iniziata l’asta.

Chiusi il catalogo, mi appoggiai allo schienale e chiusi gli occhi.
In quel momento suonò un campanella e una voce registrata disse ‘si avvisano gli interessati che l’asta avrà inizio tra cinque minuti’.

Intorno a me sentii diverse sedie muoversi, e aprii gli occhi in tempo per vedere che tutti quelli che erano al bar, seduti o in piedi, finivano di bere quello che avevano davanti e si portavano alle scale.

Mi alzai senza rendermene conto e li seguii.
Avevo un nodo allo stomaco.
Prima della porta scura c’era una fila, in attesa che un addetto controllasse i pass e facesse entrare.

Mentre aspettavo il mio turno, un uomo mi prese per il braccio ‘cumpà’ mi disse, con marcato accento meridionale ‘&egrave la prima volta che stai qua?’
– sì – risposi
– le conosci le regole, sì? –
– sì, grazie, ho studiato e’ –
– no, non quelle regole lì’le regole nostre ‘ mi disse sottovoce, e fece un piccolo gesto circolare, indicandomi le persone in fila.
Alcune di loro si girarono appena, e fecero un piccolo cenno di assenso, come dire ‘sappiamo cosa vi state dicendo’.

– allora no. Che regole sono? ‘ chiesi io, sottovoce
– cumpà ‘ mi disse l’uomo, sempre a bassa voce ‘ qua siamo tutta gente che fa questo di mestiere, e normalmente cerchiamo di non farci del male a vicenda’ –

Posso avere molti difetti, ma sono certamente intelligente e sveglio.
Capii subito cosa il mio amico mi stava dicendo: prima delle aste, gli operatori si confrontavano e decidevano chi avrebbe comprato cosa, in modo da non spendere troppo: quando c’erano uno o più soggetti interessati, si trovava l’accordo: oggi lo prendo io, alla prossima volta sarai tu a vincere.
Quindi annuii, per fargli capire che avevo capito.

– ebbravo l’amico mio ‘ mi sorrise ‘ ci siamo capiti’ mo’, cumpà, a cosa stai interessato? –
– questo ‘ dissi, mostrandogli la pagina con Francesca
– mmmmh ‘ rispose lui ‘ interessante, ma oggi c’&egrave di meglio’ gente più forte, più giovane, che possono lavorare molto e bene ‘ aggiunse, sfogliando il catalogo
– no ‘lo interruppi subito ‘ non mi interessa nient’altro ‘
– vabbuò’ non costa nemmeno troppo’ 52.000′ a quanto potresti arrivare? ‘
– ma io’ diciamo’ avrei fino a cento’ –
– allora facciamo accussì cumpà: tu la compri a sessantamila, e poi metti quindicimila qua fuori per me e gli amici miei’ così a settantacinque stai tranquillo’ però non rompi il cazzo in nessuna altra offerta’ te ne stai buono buono fino al momento tu’ vabbuò? ‘

Io annuii.
Lui si allontanò, disse qualche parola a cinque o sei persone in fila, e tutti mi guardarono e annuirono.

Ecco, mi resi conto, adesso non posso nemmeno più tirarmi indietro, o andarmene.
Adesso devo andare fino in fondo.

Arrivò il mio turno, il mio pass superò il controllo ed entrai.
La sala era come un piccolo teatro, una ventina di file di poltroncine imbottite, un piccolo palco con una specie di podio.
Mi sedetti in una poltroncina verso il fondo, e presi in mano la paletta che era appoggiata sulla poltrona, con il numero di posto.

La sala era piena per due terzi, quando entrò il banditore, un giovane in giacca e cravatta.
L’asta iniziò subito.
Non so cosa mi aspettassi, schiavi incatenati trascinati sul palco mentre si ribellano e urlano, commenti volgari, pianti e grida disperate, probabilmente.

Ma non successe nulla di tutto ciò.
Semplicemente, sullo schermo dietro al banditore vennero proiettate le immagini del catalogo, e il banditore gestì le offerte.
Finch&egrave arrivò il momento.

– Lotto numero 25 ‘ lesse il banditore, elencando i dati che erano sul catalogo ‘ base d’asta cinquantaduemila’ c’&egrave qualche offerta? –
Silenzio.
– qualche offerta? ‘ ripet&egrave il banditore

Ero bloccato.
Stringevo in mano la paletta, ma non riuscivo a muovermi.

– cinquantacinque ‘ disse il bandire, indicando il mio amico di prima in fila, che aveva alzato la paletta e mi guardava
– sessanta ‘ disse il banditore, indicando me.
Avevo alzato la paletta, senza nemmeno accorgermene.

– qualche offerta? Qualcuno offre sessanta cinque? –
Silenzio
– Sessanta e uno’sessanta e due’ sessanta e tre! Aggiudicato il lotto 25 per sessantamila! Passiamo ora al lotto ventisei’ –

La testa mi girava.
Non feci nemmeno in tempo a calmarmi che venni raggiunto da una ragazza in tailleur che mi fece alzare e seguirla.
Come un automa la seguii, a un piccolo banco firmai un mucchio di carte senza nemmeno rendermi conto di cosa facessi, firmai l’assegno da sessantamila, strinsi la mano che lei mi porgeva, misi via le mie copie dei documenti e uscii.
Sulla porta mi avvicinò il mio amico.
MI trascinò al bar, dove senza pensare né parlare firmai un altro assegno per quindicimila, strinsi anche la sua mano e lo guardai tornare dentro.

Poi mi avvicinai alla signora alla reception, quella seduta dietro il banco.
– dia a me ‘ mi disse prendendo i documenti
Inserì diversi dati nel computer, mi fece firmare altri documenti e alla fine mi sorrise
– complimenti. Quando vuole ritirarla? –
– cosa’ io’ –
– quando vuole ritirare la sua schiava? Adesso? O vuole che gliela teniamo noi fino a domani? Le costa duecento, ma può venire con comodo, domani, all’ora che ci dirà’ –
– domani’ domani’ grazie ‘ risposi ‘ alle’ alle’ Dieci. Dieci. Del mattino’ –
– benissimo ‘ disse lei, allungandomi l’ennesimo pezzo di carta ‘ mi raccomando, porti questo domani per il ritiro, e per cortesia cerchi di non arrivare tardi ‘
– no’ sarò’ puntuale. A domani ‘

Alle nove e mezza mi trovai già davanti alla porta.
La sera e la notte erano passate in un lampo, tra dubbi, decisioni improvvise (‘non ci vado’), ripensamenti (‘e poi cosa dico a chi mi conosce’) e momenti di fredda lucidità (‘cazzo, settantacinquemila’).

Suonai, mi aprirono.
Non c’era la signora di ieri.
Un’altra signora, appena più giovane, meno gentile.
– venga ‘ mi dice, e la seguo a un ascensore che ieri non avevo notato, e scendiamo al piano interrato.
Lì ci accoglie una specie di guardia, in divisa, anfibi, cinturone con manette e altre cose che non riesco a capire bene a cosa servano.
La signora consegnò i documenti alla guardia e mi salutò, tornando nell’ascensore.

– lotto 25 ‘ disse la guardia leggendo i documenti
– lo ritira adesso? ‘
– sì ‘ risposi, sperando che la mia voce non tremi troppo
– &egrave in macchina? ‘
– sì’ ce l’ho qui fuori’ –
– allora esca da qui ‘ mi indicò una porta ‘ ed entri dal portone dietro l’ingresso ‘

La guardia mi aprì un portone, ed entrai con la macchina in una specie di deposito.
– ecco qui ‘ disse la guardia, spingendo un carrello su cui c’erano quattro scatoloni di cartone
– cos’&egrave? ‘
– le cose che il tribunale ha lasciato al lotto numero 25’ – rispose la guardia, guardando in una cartelletta ‘ vestiti’ scarpe’ articoli da bagno’ –
– va bene va bene ‘ taglia corto, caricando gli scatoloni nel bagagliaio

– la vuole con o senza cappuccio? Manette? ‘ mi chiese la guardia
– scusi? ‘
– la schiava’ – spiegò la guardia ‘ vedo che ha una macchina normale’ a volte gli schiavi hanno delle reazioni improvvise, cercano di scappare, o di aggredire il titolare’ quindi in questi casi consigliamo di tenere gli schiavi con un cappuccio nero intesta fino alla destinazione, e magari le manette’ –
– sì sì ‘ risposi ‘ manette e cappuccio, certo’ –
– e qui ‘ disse la guardia, porgendomi una scatola con sopra il simbolo del ministero in rilievo ‘ c’&egrave il collare, con il telecomando e tutto il resto’ firmi qui’ grazie’ sa usarlo, vero? ‘
– sì’ per avere il pass per l’asta ho dovuto superare l’esame online del ministero’ –
– bene’ mi raccomando, metta il collare appena arrivate a destinazione, prima di togliere le manette e il cappuccio, non si sa mai’ –
– certo, grazie ‘
– bene, vado a prenderla ‘ disse, e si allontanò per un corridoio

Io rimasi lì.
Fermo, in piedi, accanto alla mia macchina.
Il tempo sembrava non passare mai.
Poi finalmente dei rumori di passi.
La guardia uscì dal corridoio, accompagnando una figura infagottata nella tuta grigia che avevo visto nel catalogo.
La guardia stringeva il braccio della figura, che camminava lentamente perché le caviglie erano legate tra loro con una corta catena, e le scarpe grigie senza lacci rendevano difficile camminare normalmente.
Le mani erano dietro la schiena, ammanettate, e uno spesso cappuccio nero copriva la testa e cadeva fino oltre le spalle della figura.

– eccola ‘ mi disse la guardia ‘ la metto dentro io? –
Io annuii, non volendo che lei sentisse la mia voce.
– vieni ‘ disse la guardia, e la accompagnò facendola sedere sul sedile di dietro ‘ ha bloccato le portiere? ‘ mi chiese poi
io annuii di nuovo, e lui chiuse la portiera della macchina
– un’ultima firma’ – mi disse, porgendomi la cartellina di plastica che aveva in mano
Firmai.
Mi diede una copia del documento
Mi strinse la mano.
– arrivederci, buona giornata –

Io salii in macchina, acceso il motore e lentamente imboccai la rampa d’uscita.
Entrai nel traffico, abbagliato dal sole.
Erano le undici, avevo passato là dentro quasi un’ora e mezza.
Mi fermai a un semaforo rosso.
Guardai nello specchietto.
Vidi la figura coperta dal cappuccio nero.

La mia schiava, pensai.

Scattò il verde, misi la prima e partii.
Arrivammo a casa in pochi minuti, o almeno così mi sembrò.
Francesca rimase zitta e ferma per tutto il tragitto.
Ogni tanto alzavo gli occhi sullo specchietto e la guardavo, ma sotto il cappuccio nero non si muoveva nulla.
Solo, quando c’era qualche curva un po’ brusca, si piegava appena di lato, per non cadere.

Avrei voluto dire qualcosa, ma non avevo idea di cosa, quindi accesi la radio, alzando la musica.
Ma la spensi subito, sentendomi in imbarazzo.
Poi mi dissi che ero stupido a sentirmi in imbarazzo, feci per accendere di nuovo la radio, mi vergognai e lasciai perdere.

Abito in una piccola villetta in una zona tranquilla, di periferia.
Ho spesso pensato di trasferirmi, magari in un appartamento in una zona centrale o più elegante, più comoda, ma alla fine sono un po’ pigro e affezionato alle mie cose, e ho sempre rimandato.
Ecco, quel giorno ero davvero contento ‘ anzi no, sollevato ‘ di non dover condividere il luogo in cui vivo con vicini o condomini.

Appena arrivammo aprii il cancello con il telecomando, poi il garage, entrai e spensi la macchina.
Rimasi fermo, e nel silenzio si sentiva solo il ticchettio del motore che si raffreddava.
Alzai gli occhi e nello specchietto vidi Francesca, sempre ferma, immobile.
Finalmente aprii lo sportello e scesi.

Feci un respiro profondo.

Mi allungai sul sedile del passeggero e presi la scatola del collare, la appoggiai sul cofano e la aprii.
Buttai un’occhiata dentro la macchina: Francesca era sempre immobile, ma proprio la sua rigida immobilità tradiva una grande tensione; immaginai che stesse ascoltando e cercando di intrepretare ogni rumore che sentiva.

Aprii la scatola del collare.

Sapevo cosa avrei trovato: per poter accedere all’asta &egrave necessario superare un corso on line su diversi aspetti della gestione degli schiavi, e uno dei principali argomenti riguarda proprio il collare.

Ciononostante, era la prima volta che ne prendevo uno in mano, e lo tirai fuori dal piccolo sacchetto di plastica che lo conteneva con una certa apprensione.
Prima di tutto, era più leggero di quanto pensassi.
Scuro, grigio scuro più che nero.
Alto circa due centimetri, molto sottile, piuttosto rigido.
Il sistema di chiusura, con il punto in cui le due estremità si fissano.
Tre piccoli anelli sul lato esterno, sempre nello stesso materiale scuro.

E poi il controller, come lo chiamano sul sito del Ministero.
Nero, uno schermo touch tipo quello di uno smartphone, una rotellina graduata su un lato, tre lucine.

Presi il collare e il controller.
Mi avvicinai alla portiera della macchina e la aprii.
Francesca si irrigidì, alzando istintivamente le mani, ammanettate, sul petto, in un gesto di autodifesa.
Io rimasi in silenzio, mi abbassai ed entrai in auto, inginocchiandomi sul sedile, accanto a lei.

Rimasi in silenzio: ero talmente teso e nervoso che anche volendo non sarei riuscito a dire una sola parola.
Lei respirava intensamente, ora, lo vedevo dal movimento delle sue spalle.

Nella mano destra tenevo il collare.
Con la sinistra, lentamente, presi il cappuccio nero dietro il suo collo e lo sollevai, piano piano.
Lei si irrigidì, ma rimase ferma e zitta.
Alzai ancora il cappuccio, appoggiandolo sulla sua nuca.

Ora Francesca aveva il cappuccio che le copriva il volto e le ricadeva sul petto, mentre le spalle e la parte posteriore del suo collo erano scoperte.

Lentamente, con la destra alzai il collare, appoggiandolo dietro, sul suo collo.
Francesca fece per alzare la testa, ma le appoggiai la mia mano la sinistra sulla testa e feci una piccola pressione, e lei abbassò di nuovo la testa.

Nessuno aveva detto nulla, né emesso un suono.
Il suo respiro era adesso affannoso, rapido.
Il mio cuore batteva così forte che dovetti chiudere e aprire più volte gli occhi, per schiarirmi la vista, e impormi di calmarmi.

Presi le due estremità del collare, e le portai dietro il suo collo.
Infilai la parte più sottile nella piccola asola, come avevo visto nei video esplicativi del Ministero.
Una minuscola lucina rossa si accese proprio sopra il punto in cui le due estremità si infilavano una nell’altra, e il collare emise un piccolo suono, una specie di ‘bip’.

Il telecomando, che avevo appoggiato sul sedile, emise un altro ‘bip’ e si accese.
Lo schermo mi chiese di inserire il codice a dieci cifre che avevo indicato al momento dell’iscrizione nel sistema del Ministero.

Poi lo schermo mi chiese se volessi inzializzare il sistema e chiudere il collare.
Con il dito tremante, schiacciai ‘sì’.
Lo schermo mi chiese nuovamente se volessi chiudere il collare, avvisandomi che il processo sarebbe stato irreversibile.

Sapevo perché.
Avevo studiato.
Il collare, per quanto sembrasse piccolo e semplice, era dotato di una tecnologia molto sofisticata.
Prima di tutto, conteneva una batteria con dieci anni di durata, senza necessità di alcuna ricarica.
Era dotato di segnalatore satellitare, che indicava la posizione anche se il collare (o meglio, colui che lo indossava) si trovava a trenta metri sottoterra o cinquanta sott’acqua.
Era indistruttibile: nel file del Ministero c’erano filmati nei quali si provava a rompere un collare con una sega elettrica, un saldatore, un fucile, una pressa industriale e addirittura una piccola carica esplosiva: ebbene, il collare non solo non si rompeva, ma continuava a funzionare.
Il collare inoltre si chiudeva automaticamente, trovando la giusta tensione sul collo dello schiavo, e non poteva più essere aperto, nemmeno dal Titolare: questo per evitare che uno schiavo trovasse il modo per obbligare il Titolare a togliergli il collare.
L’unico modo per togliere un collare era portare lo schiavo direttamente al Ministero.

Il collare inoltre era in grado di emettere delle cosiddette ‘scariche’.
Non erano però delle semplici scariche elettriche: il collare infatti, con dei microsensori, entrava in contatto diretto con i nervi del collo del soggetto, e attraverso questi accedeva praticamente all’intero sistema nervoso dello schiavo.
I pulsanti sul controller facevano emettere tre differenti tipi di scariche: ‘block’, che bloccava lo schiavo impedendogli qualsiasi movimento, tranne la respirazione e il funzionamento degli altri muscoli involontari; ‘sleep’, che faceva cadere lo schiavo in una leggera forma di incoscienza; e ‘break’, che trasmetteva allo schiavo come delle ‘onde di dolore’.
Alla funzione ‘break’ era collegata la rotellina sul fianco del controller: girando la rotellina, si potevano controllare l’intensità del dolore e la frequenza delle ‘onde’.

Insomma, con il collare un Titolare aveva l’assoluto controllo su uno schiavo.

Tenevo in mano il controller, che mi chiedeva se fossi davvero sicuro di attivare il collare.
Francesca era ferma, rigida e tesa.
Agli schiavi veniva fatto una breve lezione, prima di essere messi all’asta, sul collare e sul suo funzionamento: a grandi linee, anche lei sapeva cosa stava per succedere.

Mi presi ancora qualche secondo, poi schiacciai ‘sì’.
Non successe nulla.

Ecco, pensai, ho sbagliato qualcosa, o c’&egrave un errore, lei non &egrave una schiava, hanno scoperto che non doveva essere processata, lo sapevo io, adesso cosa faccio, non mi ha ancora visto, pensai, adesso la riporto indiet

bzzzzzzz

una leggera vibrazione uscì dal collare.
Lentamente, il collare iniziò automaticamente a stringersi attorno al collo di Francesca.
Istintivamente, lei portò le mani al collo, ma era troppo tardi.
Il collare si era stretto e chiuso, con un ultimo, morbido ‘click’.

Francesca si portò le mani al collo, provò a infilare le dita ma il collare era stretto abbastanza da non permetterle di infilarci più della punta di un dito.

Io allungai la mano, presi uno degli anelli del collare e lentamente tirai.
Francesca fece una parvenza di resistenza, ma poi si mosse.
Lentamente la guidai fuori dalla macchina sempre con indosso il cappuccio nero; la feci mettere in piedi e, sempre tenendo in mano l’anello del collare, le feci salire le scale che dal garage arrivano direttamente nel mio soggiorno.

Con una leggera pressione sul collare la feci sedere a terra.
La stanza era spoglia.
Avevo portato tutto l’arredamento nelle altre stanze.
C’era solo una sedia, e nel mezzo della stanza, fissato a terra, una specie di piccolo cerchio in acciaio.

Anche in questo caso, internet era stato d’aiuto.
C’erano molti siti dedicati alla gestione degli schiavi (le prime volte che avevo letto il termine ‘addestramento’, come se si trattasse di animali, mi ero scandalizzato).
Molti sedicenti ‘esperti’ spiegavano che i primi momenti, le prime ore e anche i primi giorni, erano i più delicati, quelli nei quali lo schiavo tende sempre a ribellarsi, anche in modo violento.

C’erano diverse teorie su quale fosse l’approccio migliore per questo periodo.
Quella che mi convinse di più prevedeva che appena portato in casa, lo schiavo venisse messo nell’impossibilità di nuocere al suo Titolare (in realtà, nei siti non gli utenti non si facevano problemi a usare il termine ‘padrone’).
Per fare questo, il sito suggeriva di liberare completamente una stanza, fissare a terra, al soffitto e alle pareti dei tasselli (‘almeno del 40′, spiegavano: io, che non ero certo un esperto di bricolage, dovetti imparare tutto sui tasselli e la loro collocazione’) ai quali fissare poi degli anelli d’acciaio.
E io avevo fatto proprio così.

Fissato nel pavimento al centro della stanza c’era un anello d’acciaio.
E anche al soffitto.
E anche nel centro delle pareti.

Francesca era seduta a terra quasi accanto all’anello nel pavimento, ma non lo sapeva perché indossava ancora il cappuccio.

Io raccolsi una cosa da terra.
Era una specie di corda, o cavo, sottile e flessibile, di un materiale molto simile a quello del collare (o almeno così diceva la ditta che lo vendeva su internet).
Alle due stremità c’erano due lucchetti.
Fissai il primo lucchetto all’anello a terra.
Poi mi avvicinai a Francesca, sollevai appena il cappuccio e, mentre lei si irrigidiva di nuovo e muoveva la testa per cercare di vedere o sentire qualcosa, in un attimo fissai l’altro lucchetto all’anello del suo collare.

Poi mi alzai, e lentamente mi sdetti sulla sedia.
La sedia era a esattamente tre metri dall’anello nel pavimento: la lunghezza del cavo era di due metri e Francesca, anche allungando le mani o i piedi, non sarebbe riuscita a toccarmi.

Anche questa era una tecnica spiegata nel dettaglio sui siti che avevo consultato.

Mi fermai.
Mi guardai attorno.
Il mio soggiorno, vuoto.
Gli anelli d’acciaio sul soffitto, sulle pareti.
Le finestre chiuse, le persiane abbassate.
La mia sedia.
Francesca, seduta a terra, con la tuta del carcere, le scarpe senza lacci, le manette e il cappuccio.

‘Voglio davvero farlo?’ mi domandai.
‘Sei ancora in tempo per fermare tutto’, mi dissi per l’ultima volta ‘tutto questo &egrave contrario ai tuoi principi, alla tua etica, a ciò su cui hai sempre sostenuto si fondi la nostra società’.

Poi guardai ancora la donna seduta a terra, nel mio soggiorno, incatenata e ammanettata, con un cappuccio in terra.
E ricordai che non era una donna qualsiasi, era Francesca.
E mi dissi che tutto questo non aveva nulla a che fare con l’etica, la democrazia, l’uguaglianza, i valori e i principi.
Aveva a che fare con lei e me.

E allora decisi che sì, l’avrei fatto.

Mi alzai, mi avvicinai e le presi gentilmente le mani: con un movimento rapido infilai la chiave e le tolsi le manette, e ritornai sulla sedia.

Francesca si massaggiava i polsi, respirando affannosamente.
Anche lei capiva che stava per succedere qualcosa di importante.

Mi presi un ultimo momento, poi respirai a fondo e dissi, sperando che la mia voce non tremasse troppo

– togliti il cappuccio -.
Non so cosa mi aspettassi.
Magari che si sfilasse lentamente il cappuccio, o che rifiutasse di toglierlo, non so.

Invece fu tutto molto veloce e banale.
Francesca alzò le mani, afferrò i lembi del cappuccio e praticamente se lo strappo di dosso.

Si riparò gli occhi dalla luce con una mano, li strizzò una o due volte, e mi guardò.
Io ero come paralizzato, bloccato sulla mia sedia, fermo.

Ci mise qualche secondo a riconoscermi, mi guardò ancora e aprì leggermente la bocca, stupita.
Poi, all’improvviso, un’espressione di sollievo le si dipinse sul volto, e sorrise.

– tu!!! ‘ disse ‘ tu’ sei proprio tu!!!! –
Io rimasi in silenzio, non sapevo cosa dire, e temevo di non riuscire comunque a parlare.

Perché lei era’ lei.
I lunghi capelli neri, gli occhi scuri, dal taglio mediterraneo, le labbra appena separate, che lasciavano intravedere i denti bianchi, e lo sguardo, quello sguardo da chi ha in mano il proprio mondo e la propria vita e nessuno potrà portarglielo via o farle cambiare idea su cosa fare e come fare.
Era Francesca, più speciale e unica che mai, anche lì, seduta a terra, con una tuta sgualcita e un collare fissato a terra.
Era lei.

– tu!! ‘ ripeté lei ‘ ma come’ no, lascia stare ‘ disse – prima di tutto aiutami a togliere questa cosa’ mi sta facendo impazzire ‘ aggiunse, mentre si metteva in piedi e cercava di infilare un dito nel collare ‘ poi dobbiamo chiamare la polizia’ l’avvocato’ oh questa cosa mi fa impazzire’ troviamo il modo di toglierlo subito’ dammi dell’acqua, sto impazzendo’ ma perché non me l’hai detto sub –

non si era accorta del cavo che legava il collare all’anello.
Si era alzata, aveva iniziato a parlare e era venuta verso di me, quasi di corsa.
Quando il cavo aveva raggiunto la lunghezza massima, il collare aveva bloccato Francesca, che era caduta a gambe all’aria.
Gridando.

– ma cosa’? ‘ si girò, e vide il cavo, e l’anello fissato al pavimento
– cosa cazzo &egrave questo? ‘ mi chiese, tirando il cavo, cercando di strapparlo da terra
– toglilo, presto, non posso restare bloccata qua’ –

Mi guardò.
Io rimasi fermo, seduto. Zitto.

– toglilo ‘ ripeté
– TOGLILO!!! ‘ gridò, strattonando il cavo
– toglimi questo cazzo di coso!! Liberami!! Fammi andare via! Devo andare via! Liberami o ti faccio arrestare, chiamo la polizia’ LIBERAMI!!! ‘

Io rimasi fermo. Zitto.
Francesca tirava il cavo con tutte e due le mani, girava attorno all’anello fissato a terra, puntò i piedi e tirò con tutte le sue forze.

Io mi persi nell’ammirarla, guardavo e ammiravo ogni suo muscolo, ogni espressione della sua faccia, ogni dettaglio delle sue mani.

– LIBERAMI!!! ‘ gridò ancora, e all’improvviso corse verso di me allungando le mani, come per afferrarmi.
Ma aveva di nuovo dimenticato il cavo, e il collare, e di nuovo il colpo al collo la fece cadere a terra, di schiena.
Rimase ferma, sdraiata a terra.
Temetti che si fosse fatta male.
Ma poi si mosse, raggomitolandosi su se stessa, e iniziò a piangere, ripetendo ‘liberami’ liberami’ non ne posso più’ io non devo stare qui’ liberami’.

Mi alzai.
Lei si fermò, spalancò gli occhi.
Io mi girai, e mi allontanai da lei, aprii la porta e uscii dalla stanza, chiudendo la porta dietro di me.

Lo dicevano, i siti sull’addestramento degli schiavi.
Prima, proveranno a ribellarsi.
In questa fase, non c’&egrave dialogo possibile.
Lo schiavo, la schiava in questo caso, non vi ascolterebbe davvero.
Non ha ancora capito cosa le &egrave successo, crede che sia solo un errore, una cosa momentanea, che finirà presto.
E perciò i suoi pensieri saranno diretti solo ed esclusivamente a trovare un modo per far finire tutto prima possibile.
Quindi, non c’&egrave nessuna utilità nel parlare.
E perciò, la schiava deve capire il prima possibile qual &egrave la sua situazione, e deve capirlo in maniera diretta, immediata, fisica e brutale.

Alcuni suggerivano di utilizzare da subito il collare e la funzione break, altri di percuotere (oh, il genere di termini che si usavano in quei siti’) subito la schiava.

Io però avevo trovato più accettabile un’altra soluzione.
Un sito spiegava che un adulto (uomo o donna &egrave più o meno uguale) può vivere senza bere fino a quattro giorni, e che nelle prime 36 ‘ 48 ore il fisico non soffre alcun danno permanente.
Tuttavia, spiegava il sito, già dopo 12 ore senz’acqua il soggetto ha la sensazione di grave malessere fisico, e dopo 18 ore l’assenza di acqua diventa un pensiero fisso e un bisogno che inibisce ogni altro istinto.

Calcolai che Francesca avesse bevuto l’ultima volta verso le 11.00, quando era ancora in cella alla casa d’aste.
Erano le tre del pomeriggio, quindi non beveva da quattro ore.
Il mattino dopo, diciamo alle sette, sarebbero passate più venti ore dall’ultima volta che aveva bevuto.

Non potete immaginare, diceva il titolare del sito, quanto diventi docile e ricettiva una schiava quando le fate vedere una bottiglia d’acqua dopo che non beve da un giorno intero.
Ecco, avevo deciso di applicare quella tecnica con Francesca.

Stavo torturando un essere umano?
Una donna, che tenevo legata, incatenata?
Ero diventato come un inquisitore del cinquecento?
Avevo davvero scientemente deciso di privare dell’acqua una persona per un giorno, solo per abbattere le sue difese e fiaccarne il morale?
Ero davvero quel tipo di persona?

Decisi di non rispondere a quelle domande.
Avevo paura che rispondendo sì, mi sarei fatto schifo. Ma se avessi risposto no, avrei dovuto andare di là e liberare Francesca.

Andai in cucina, presi una birra dal frigorifero, andai nello studio e mi sedetti alla scrivania.
Accesi il computer.
In soggiorno, nella stanza dove era chiusa Francesca, appena sopra la porta, nel legno dello stipite, avevo fatto un piccolo foro.
Nel foro avevo infilato una minuscola telecamera, più sottile di una matita.
Dipinta di bianco, spinta dentro nel legno, era praticamente invisibile.

Schiacciai due tasti, e lo schermo del pc si riempì delle immagini dal soggiorno.
Soldi ben spesi, mi dissi, vedendo come le immagini che arrivavano dal soggiorno erano in HD, luminose e nitide.

Francesca si agitava.
Aveva afferrato il cavo, lo aveva avvolto attorno all’anello e tirava ritmicamente da una parte e dall’altra.
Cercava di tagliarlo, o strapparlo.
Non sapeva che sul sito dove l’avevo acquistato c’era un video in cui il cavo resisteva al tentativo di tagliarlo con un flessibile in carbonio e resisteva alla trazione di un camion’
Rimasi a guardare.

A un certo punto, Francesca si mise in ginocchio, la testa bassa verso l’anello fissato a terra, con le mani davanti alla testa.
Non vedevo cosa stesse facendo, probabilmente cercava di capire se il lucchetto potesse essere aperto in qualche modo.
Muovendosi, si girò fino a dare le spalle alla telecamera.

In ginocchio, la testa bassa tra le mani aggrappate all’anello, le gambe leggermente divaricate.
La tuta, per quanto larga e informe, in quella posizione si tese sui suoi fianchi.

Azionai lo zoom, e inquadrai in primo piano il culo di Francesca, con la tuta che faceva intuire le cuciture delle mutande, e tra le gambe la forma della figa.
Francesca si muoveva, in modo ritmico, mentre probabilmente cercava di allentare l’anello, o qualcosa del genere.
Io ero ipnotizzato dal suo culo, e da quel movimento.

Con un unico movimento mi slacciai cintura e pantaloni.
Mi alzai appena sulla sedia, e mi abbassai sui polpacci pantaloni e mutande.
Mi afferrai il cazzo, e iniziai a masturbarmi.
Dopo poco più di un minuto ero già pronto per venire.

In quel momento, Francesca si fermò, si mosse leggermente e girò la testa, come se stesse guardando proprio la telecamera.
Come se stesse guardando proprio me.

Venni, forte, guardando Francesca, lei, la sua faccia, i suoi occhi, il suo culo, il suo tutto, il suo essere lì, il suo essere’ mia.

Non so cosa sono, mi dissi mentre mi pulivo con un fazzolettino, non so se sono buono o cattivo, malvagio o semplicemente debole, non so.
Ma ho voglia di scoprirlo, e credo che mi piacerà molto, scoprirlo.

Spensi il pc, mi vestii e uscii.

‘A domattina’, sussurrai verso la porta, chiusa, del soggiorno, dietro la quale c’era Francesca.
Rimasi fuori fino a tardi.
Temevo che se fossi stato in casa, non avrei resistito, mi sarei pentito, le avrei dato da bere, magari le avrei parlato, la avrei liberata, non so.
Così passai il pomeriggio a fare delle cose che avevo in sospeso in città, chiamai un paio di amici e andammo a cena.
Cercai di far durare la serata il più possibile, e quando finalmente tornai a casa era quasi mezzanotte.
Feci piano, cercando di far meno rumore possibile.
Quando finalmente fui in casa, andai nello studio e accesi il computer.

Ero teso, non avevo idea di cosa avrei visto.
Quello che vidi mi tranquillizzò.
Francesca si era addormentata.
A terra, con un braccio sotto la testa e i capelli davanti agli occhi.
Il collare e il cavo erano ancora al loro posto.
Dalla parte opposta rispetto all’anello d’acciaio nel pavimento, una macchia scura per terra.
Ah già, mi dissi.

Probabilmente Francesca non era riuscita a trattenersi e aveva urinato a terra.
Poco male, il pavimento era di un materiale perfettamente lavabile.
Sorrisi, pensando a quanto doveva aver provato a resistere e a come, alla fine, si era arresa, spostandosi a urinare a terra, come un animale, nel punto più lontano che poteva raggiungere.
Mi diedi del cretino perché, nella foga di masturbarmi, prima mi ero dimenticato di avviare la registrazione: mi sarebbe davvero piaciuto poter vedere la scena’ me ne ricorderò, mi ripromisi.

Mi lavai, mi preparai e andai a letto, puntando la sveglia per le sei e mezza.
Temevo di non riuscire a prendere sonno, ma saranno state le due o tre birre con gli amici, o solo la consapevolezza che, ormai, avevo superato un confine e non potevo più tornare indietro come se niente fosse, ma mi addormentai subito e quando suonò la sveglia mi sembrò di aver appena appoggiato la testa sul cuscino.

Mi alzai, e mi imposi di non andare al pc: &egrave lei che deve cambiare le sue abitudini, io devo continuare a vivere la mia vita come se niente fosse, mi dissi.

E così feci.
Andai in cucina, mi preparai un’abbondante colazione, sfogliai un paio di quotidiani online.
Poi in bagno, mi presi tutto il tempo per preparami.
Doccia, barba.
Mi vestii, sportivo informale, diciamo, un paio di pantaloni blu scuro, una Tshirt nera, un paio di sneaker.

Poi, finalmente, accesi il pc.
Francesca era sveglia.
Seduta a terra, teneva tra le mani, in grembo, il cavo.
Zoomai sulla faccia e notaio gli occhi gonfi, cerchiati di rosso, e le labbra screpolate.
La sete era probabilmente diventata il suo unico pensiero.

‘E’ il momento’, pensai.
Mi fermai un’ultima volta, davanti alla porta chiusa, e mi feci forza: ‘segui il piano. Devi solo seguire il piano’.
Passai in cucina, e presi la borsa che avevo preparato mentre facevo colazione.
Finalmente entrai.

La prima cosa che mi colpì fu la puzza.
Un odore acre, denso.
Puzza di piscio, come in certi bagni pubblici, e poi odore di sudore stantio, e poi ancora altri odori, che mi fecero pensare a paura e disperazione.

Appena entrai, Francesca si alzò in piedi.
Tremava.
Provò a parlare, ma dalla sua bocca uscì solo una specie di raschio ‘ lascia’ lasciami’ a’. andare’ ti prego’ lascia’ –

Io non risposi, non la guardai nemmeno.
Mi sedetti sulla sedia.
Appoggiai la borsa a terra, accanto alla sedia.

Lei iniziò a piangere, piano.
– per’ perché’ lascia’ mi’ –

La fissai.
Lei fece due passi verso di me, lentamente, poi si bloccò quando sentì il cavo tendersi.
Allungò le mani.
Erano davanti a me.
Se avessi allungato le mani anche io le avrei toccate.
Ma rimasi fermo.

– ti pre’ – mormorò lei

Io mi abbassai, frugai nella borsa e presi una bottiglia d’acqua da un litro e mezzo, quelle di plastica, trasparente.

Francesca reagì con uno scatto
– dammela!! Dammela!! Ti prego’ non ne posso più’ ho sete’ – e di nuovo allungò le mani, sforzandosi di arrivare alla bottiglia.
Io non le risposi, non la guardai.
Posai la bottiglia davanti alla sedia, a terra.
Lei si abbassò, e provò ad afferrarla.
Era a venti, trenta centimetri dalle sue mani, ma non ci sarebbe mai arrivata.

Scoppiò a piangere.

– ti prego’ – sussurrò, roca

Io frugai di nuovo nella borsa.
Lei si bloccò, osservando ogni mio gesto.
Tirai fuori dalla borsa un bicchiere di plastica, come quelli che si usano alle feste.
Presi la bottiglia.
Sentivo l’intensità dello sguardo di Francesca sulle mie mani.
Aprii la bottiglia, riempii il bicchiere.
Lo osservai, e poi lo portai alle labbra.
– no’ – disse lei, con la voce che tremava ‘ no’ io’. Io’ ti prego, io’ –

Bevetti due o tre sorsi dal bicchiere.
Lo osservai di nuovo, poi lo posai a terra.
Dove prima avevo messo la bottiglia.
Poi, con la mano, lo avvicinai a Francesca di qualche centimetro.
Lei provò a prenderlo, ma era ancora troppo lontano.
Lo spinsi ancora un po’.
Lei si sforzò, allungandosi. Vedevo il collare tirare sul suo collo, vedevo come allungava spalle e braccia, ma mancava ancora un poco.
Attesi qualche secondo, poi quando lei sembrò rinunciare, spinsi ancora un poco in avanti il bicchiere.
Questa volta Francesca riuscì a toccarlo, con la punta delle dita.
Ma il bicchiere era liscio, e lei lo sfiorava appena.
Di nuovo, osservai come provasse in ogni modo a raggiungerlo, invano.
Infine, lentamente, con lei che mi osservava attenta, lo mossi ancora di qualche centimetro.

Francesca ci si avventò sopra, in un attimo lo prese e lo bevve.

– ancora’ ancora’ – mi disse muovendo il bicchiere davanti ai miei occhi.
Io non mi mossi.

– ancora’ ho sete’ sete’ – ripet&egrave lei
io non mi mossi.

– ti prego’ ti prego’ per favore’ ti prego – disse

E quando disse così, lentamente mi mossi.
Presi la bottiglia, la aprii, e riempii il bicchiere che lei teneva in mano, tremante.
Di nuovo lo vuotò in un sorso.

Allungò di nuovo la mano.

– ti prego’ per favore’ ti prego ‘ disse, con voce più ferma, adesso.
Aveva capito che era quello ciò che volevo sentire.
Di nuovo presi la bottiglia, di nuovo la accostai al bicchiere, ma questa volta lo riempii nemmeno a metà.

Le aspettò un secondo, poi lo bevve subito.
– ancora’ ti prego’ per favore’ –

Ma questa volta io allungai la mano, e prima che lei potesse fare nulla, le presi il bicchiere.
– no! –
Poi presi la bottiglia, la misi nella borsa e me mi alzai, dirigendomi verso la porta.
– no! ‘ gridò Francesca ‘ no! Ti prego! Per piacere!! Ancora!!! No! No! –
Io non mi girai, e sentii che lei cercava di tirare il cavo ‘ no!!! Ti prego, per favore, ancora!!! –

Aprii la porta e uscii.
La porta attutiva quasi del tutto le sue grida.

Tornai in cucina.
Mi sedetti.
Mi versai un caff&egrave.
Riflettei.

Avevo in mente di provare una cosa che nei siti non c’era.
Nei siti dicevano che era ancora presto per parlare, comunicare.
Però ero abbastanza, come dire, curioso.
Decisi di provare a fare a modo mio.

Dopo quasi un giorno senza bere, il corpo ha bisogno di circa tre litri d’acqua per ristabilire i livelli normali.
Certamente, quello che aveva bevuto Francesca non era nemmeno vicino al necessario.
Le sarebbe bastato per recuperare appena un po’ di lucidità ed energia, niente di più.

Con calma, andai nella stanza di servizio e presi il secchio per pulire i pavimenti, quello rosso, di plastica, per intenderci.
Controllai e verificai che dentro il secchio ci fosse uno straccio.
Andai in cucina, e dal rubinetto riempii il secchio quasi a metà. Calcolai che ci fossero un litro e mezzo o due d’acqua, nel secchio.

Poi presi il secchio e tornai di là, da Francesca.
Appena mi sentì entrare si alzò.
– scusa’ ti prego’ ho sete’ io’ –
Mi sedetti e alzai una mano.

Lei tacque immediatamente, rimanendo in piedi, ferma.

Pensa, mi dissi.
Se sei mesi fa qualcuno avesse alzato la mano mentre Francesca parlava, probabilmente lei non l’avrebbe nemmeno notato, tanto era impensabile che qualcuno, chiunque fosse, pensasse di poterla interrompere così.
E adesso, &egrave bastato un piccolo cenno e lei si &egrave immediatamente bloccata, zitta e ferma.

Come cambiano le cose, eh?

Mi sedetti, e posai a terra il secchio.
Feci in modo che lei sentisse chiaramente il rumore dell’acqua, e vedesse quanta ce n’era là dentro.
Francesca fissò ipnoticamente il secchio, e la sua lingua, probabilmente per un riflesso involontario, passò sulle labbra screpolate.
Deglutì, ma rimase ferma.

Io presi un respiro.
&egrave il momento, mi dissi.
E per la prima volta da quando era cominciato tutto questo, le parlai.

– ti propongo un patto –

la mia voce, per la prima volta in quella stanza, davanti a lei, mi sembrò appartenesse a qualcun altro.
Ma mi stupii di come suonasse ferma e decisa, mentre il mio cuore batteva a più non posso e mi sembrava di non riuscire quasi a respirare.

Lei rimase ferma.
Poi fece un cenno, una specie di ‘sì’ con la testa.
Annuii anche io.

– il patto &egrave questo ‘ dissi ‘ tu prendi il secchio e lo straccio, e pulisci là dove hai sporcato ‘ e indicai col dito la chiazza scura lasciata dalla sua urina.
Lei annuì.
– fino a che non avrai pulito’ perfettamente ‘ aggiunsi, scandendo la parola ‘ non potrai bere niente. Dopo che avrai pulito come si deve, potrai bere tutta l’acqua del secchio –

Lei mi guardò, poi guardò il secchio.

– se non vuoi, nessun problema ‘ dissi, accennando ad alzarmi ‘ ci vediamo tra qualche ora’ magari non hai ancora abbastanza sete –
– NO! ‘ disse lei ‘ NO! Fermo! Sì, sì, dammi, dammi’ – aggiunse, allungando le mani verso il secchio

Io tornai a sedermi, presi il secchio e feci per porgerglielo, poi mi bloccai quando lei poteva quasi toccarlo
– ricorda: non una goccia finch&egrave non avrai finito di pulire’ prova a bere prima e te lo porto via, e non mi vedrai più –
– no’ sì sì.. va bene ‘ sussurrò lei, allungando le mani ancora di più

lentamente, le porsi il secchio.
Lo prese, e ci guardò dentro.
Riuscivo quasi a sentirlo, il bisogno disperato di tuffare la testa nel secchio e iniziare a bere, che lottava con la sua consapevolezza di non poterlo fare.
Finalmente, tremando, con il secchio in mano girò attorno all’anello fissato al pavimento e arrivò alla chiazza scura.

Si piegò, accucciandosi sui talloni, poi si mise in ginocchio.
Immerse le mani nel secchio, riempì d’acqua lo straccio, lo strizzò e cominciò a pulire per terra.
Io rimasi seduto.
Ancora una volta, la tuta si tese sul suo culo.
Vederla dal vivo era ancora più eccitante di quanto visto ieri sul pc, mentre le mani che tenendo lo straccio sfregavano a terra facevano muovere tutto il suo corpo avanti e indietro.

Il mio cazzo diventò subito duro.
Lei non si accorse di nulla.
Continuava a pulire, un pezzo di pavimento per volta.
Bagnava lo straccio, lo strizzava, lo sfregava a terra, lo rituffava le secchio, lo strizzava, e ricominciava.
La tuta metteva in evidenza il suo culo che si muoveva, ritmicamente, avanti e indietro.
Io ero bloccato, adoravo quella visione, il cazzo mi faceva male tanto era duro, avevo la bocca secca e il respiro affannoso.
Non so quanto ci mise, ma a un certo punto si fermò.
Sempre in ginocchio, accanto al secchio, con lo straccio in mano mi guardò e disse, roca ‘ fa’ fatto –

Io non risposi.
Mi alzai, e girai per la stanza, senza mai entrare nello spazio che lei avrebbe potuto raggiungere.
Arrivai davanti a lei.
Ero in piedi, e lei in ginocchio, praticamente davanti a me.
Lei mi osservava, da sotto in su.

Francesca, Francesca, mi ritrovai a pensare, avresti mai pensato di essere ai piedi di un uomo, aspettando ansiosa solo un suo piccolo cenno d’approvazione?

Mi abbassai, piegando le gambe, e mi misi ad osservare il pavimento.
Francesca aveva pulito e sfregato tutto, centimetro per centimetro.

– lì ‘ dissi, indicando un punto qualsiasi del pavimento

Francesca scattò, quasi come un cane che sente l’ordine del padrone.
Immerse lo straccio, lo strizzò, si piego e sfregò il pavimento nel punto che avevo indicato.
Dopo un minuto, girò la testa e mi guardò.

– va bene – dissi

lei si rimise in ginocchio, accanto al secchio, con lo straccio in mano.
Non dissi nulla, ma con un cenno indicai prima lo straccio, e poi il secchio.
Francesca immediatamente mise lo straccio dentro il secchio.

Io feci finta di controllare un’ultima volta il pavimento, anche se in realtà stavo ascoltando il respiro di lei, affannoso e preoccupato.

Alla fine mi alzai di nuovo, la guardai e dissi ‘ puoi bere ‘

Francesca afferrò subito il secchio con due mani, e lo portò alla bocca.
Lo alzò troppo in fretta, e come un’onda l’acqua le investì la faccia e si rovesciò a terra.
– no! ‘ urlò lei, e fermò il secchio
poi lo avvicinò di nuovo al volto, questa volta con attenzione, e iniziò a bere a grossi sorsi.
Ogni due o tre sorsi, lo straccio le finiva praticamente in bocca, e lei doveva interrompersi, spostarlo e ricominciare.

Io, in piedi, osservavo.
Francesca, amica mia, pensavo, guardati: ai miei piedi, in ginocchio, bevi felice e grata da un secchio per le pulizie l’acqua che hai usato per pulire la tua stessa urina.

Sei davvero la stessa persona che rimandava in malo modo indietro il vino, al ristorante, se la temperatura non era esattamente quella giusta?
La stessa persona che non beveva gin tonic se non era fatto con il gin che voleva lei, la tonica quella speciale e il lime, per carità, il gin tonic con il limone &egrave im be vi bi le?
La stessa persona che l’acqua solo evian, perché ha il residuo fisso basso, le altre acque guarda non &egrave che lo faccio apposta, ma io non riesco proprio a berle, non c’&egrave nulla da fare, non riesco nemmeno mandarne giù un sorso?

Guardati: sa di piscio, l’acqua che bevi, lo sai, no? Eppure bevi, e sei felice, e sono sicuro che se te lo chiedessi, mi ringrazieresti anche.

– io ora vado ‘ le dissi, e lei smise subito di bere, e mi ascoltò, attenta, ferma immobile ‘ ma tornerò presto. Se per caso ti scappa di nuovo, non farla a terra, usa quello ‘ dissi, indicando il secchio.
– aspetta! Io’ ti prego’ lasciami andare’ non lo dirò a nessuno’ ti lascerò stare, io’ ti prego’ ti giuro che –
Francesca si bloccò.

Io la osservai, e vidi che fissava i miei pantaloni.
Anzi, guardava fisso il mio cazzo che si intuiva, duro, gonfio, attraverso la stoffa dei pantaloni.
Guardò il cazzo, poi alzò gli occhi e guardò me.

Ha capito, pensai.
Ha capito che a me questo, tutto questo, piace.
Che non &egrave un errore, o uno scherzo, o non so cosa.
No.
Ha capito.

Alzò lo sguardo, e mi fissò.
Sì, ha capito.
E allora la guardai anche io, a feci un piccolo cenno con la testa, come a dire ‘lo so che hai capito’.
E mi allontanai.
Questa volta lei non disse nulla.
Prima di chiudere la porta, mi girai un attimo ‘ torno presto ‘ le dissi.

Tornai dentro dopo nemmeno un’ora.

In mano avevo una bottiglia d’acqua e un piatto di plastica.
Francesca era seduta a terra.
Mi guardò, senza muoversi.
Mi sedetti sulla sedia.

– tieni ‘ dissi, appoggiando spingendo la bottiglia e il piatto verso di lei.

Francesca si alzò e, cauta, si avvicinò.

Prese la bottiglia e, senza staccarmi gli occhi di dosso, ne bevve quasi la metà.
Poi abbassò gli occhi sul piatto.
Ci avevo messo del riso bollito, quattro o cinque fette di formaggio, e un grosso pezzo di pane.
Francesca non mangiava da un giorno, almeno.

– mangia, stai tranquilla ‘ le dissi, serio ‘ poi parliamo ‘ poi mi alzai e uscii dalla stanza.

Dal pc la osservai.
Seduta a terra, mangiò avidamente con le mani, fino all’ultimo chicco di riso, e finì la bottiglia d’acqua.
Aspettai altri venti minuti, perché non volevo che sospettasse che la potevo osservare anche quando era sola nella stanza.

Poi entrai.
Mi sedetti, in silenzio.
Lei rimase seduta, a terra, con il cavo tra le mani.
Era diventata quasi una routine, ormai.

Io non parlai.
Deve essere lei a fare la prima mossa, pensai.
Lei rimase ferma ancora un paio di secondi, poi mi guardò.

– lasciami andare. Non hai diritto di tenermi qui. Lasciami andare, devo parlare con l’avvocato, devo sistemare le cose, questa &egrave tutta una follia –
Il tono era freddo, non più aggressivo.
Scossi la testa.
Presi un lungo respiro.
– sbagli ‘ le dissi, calmo ‘sei stata processata e condannata, con sentenza inappellabile, a dieci anni di schiavitù. &egrave vero? –
– sì ma ‘
– no ‘ la interruppi ‘ non ci sono ‘ma’. La cosa &egrave definitiva e non modificabile. Può essere una cosa ingiusta, una follia, una cosa barbara, chiamala come vuoi, ma &egrave così ‘
– &egrave una follia’ &egrave tutto un pazzesco errore’ io devo parlare con il giudice’ io’. Posso spiegare’ Non posso’ –
– io non c’entro col processo ‘ la interruppi di nuovo ‘ non ne so nulla, ma so che la decisione &egrave definitiva ‘
– sì’ ma se non c’entri’ e allora cosa ci fai qui? Cosa ci faccio qui??? Perché mi hai rapita? ‘
– non hai ancora capito? Io non ti ho rapita’ – risposi, sospirando – ‘io ti ho comprata. All’asta. Come schiava. Sono il tuo ‘titolare’, come lo chiama la legge ‘

Francesca mi guardò, la bocca semiaperta.

– come’ tu’ mi hai’ –
– comprata ‘ la interruppi di nuovo ‘ all’asta ‘
– allora’ allora ‘ la vidi riflettere e poi riprese a parlami, concitata ‘ allora &egrave tutto a posto’ puoi liberarmi’ puoi sistemare le cose’ ok, ora mi togli questo coso, poi chiamiamo l’avvocato’ probabilmente dovremo far finta per un po’ che questa cosa sia vera’ –

Io non dissi nulla, mi limitai a guardarla.
Lei continuò a parlare, poi alzò gli occhi su di me.
E si azzittì.

– tu’ – disse, guardandomi e spalancando gli occhi quando finalmente capì ‘ tu’. Non l’hai fatto’ per me’ per aiutarmi’ per salvarmi ‘ scosse la testa ‘ tu l’hai fatto davvero’ l’hai fatto sul serio’ tu pensi davvero di poter fare questa’ questa’ questo orrore ‘ e così dicendo prese in mano il cavo che la teneva legata e me lo mostrò

Mi guardò.
Io annuii.
– tu sei pazzo’ pazzo –
Di nuovo non risposi.

– cosa vuoi fare? ‘ mi chiese, alla fine

E io decisi che era giunto il momento di vedere come sarebbe andata.
La guardai, attentamente, io seduto sulla sedia, lei a terra, seduta sui talloni.

– vieni ‘ le dissi, invitandola con la mano ‘ adesso ti libero, poi andiamo di là’ ti fai una doccia, ti riprendi, ti cambi e poi parliamo. Va bene? –

Lei annuì, e si avvicinò.
Staccai il cavo dal collare.
Lei cercò di nuovo di muovere il collare, infilandoci un dito, ma non ci riuscì.
– vieni ‘ le dissi, mi alzai e aprii la porta.

Era la prima volta che Francesca entrava in casa mia, fatta eccezione per il soggiorno / prigione dove era stata legata fino ad allora.
La guidai fino alla stanza degli ospiti.
Sul letto matrimoniale avevo appoggiato gli scatoloni delle sue cose, che mi avevano dato alla casa d’asta.

– ecco ‘ le dissi ‘ là c’&egrave il bagno, fai con comodo’ gli asciugamani e l’accappatoio sono puliti’ qui invece dovrebbero esserci le tue cose, credo anche i vestiti’ li hanno presi da casa tua quando l’hanno venduta’ –

Francesca si irrigidì, poi sospirò e annuì.

– io ti aspetto di là ‘ dissi, indicando il corridoio ‘ non metterci troppo però ‘ e me ne andai.

Andai nella mia stanza.
Mi trattenni dall’andare al pc.
Anche nella stanza e nel bagno degli ospiti avevo installato delle micro telecamere, come in soggiorno, ma decisi di non usarle.
Un po’ perché volevo fidarmi di Francesca, un po’per pudore e un po’, lo confesso, perché non volevo nessuna anticipazione’ insomma, non volevo guastarmi la sorpresa, se così si può dire.

Mi versai una birra, mi sedetti e attesi, leggiucchiando qualcosa sul palmare.

Dopo venti minuti, Francesca arrivò.
Aveva fatto la doccia, i capelli erano di nuovo lucidi, neri e lunghi oltre le spalle.
Non si era truccata, ma le labbra avevano ripreso colore e gli occhi erano di nuovo seri e combattivi, lo sguardo diretto e quasi sfrontato.
Indossava dei jeans, un paio di nike, una felpa sotto la quale si intuiva una maglietta: insomma, si era vestita nel modo meno provocante e più pratico e comodo.

Non che mi aspettassi minigonna, tacchi a spillo e autoreggenti, però un po’ ci rimasi male: l’avevo sempre vista (tranne nelle ultime ore) perfettamente vestita, elegante e sexy, attenta ad ogni dettaglio.
Ci lavoreremo, pensai.

– siediti –
– preferisco stare in piedi ‘ rispose, fredda.
– come vuoi ‘
– la situazione &egrave questa: tu sei stata condannata a 10 anni di schiavitù. Io ti ho comprata. Io o un altro, il tuo destino, per i prossimi dieci anni, &egrave questo ‘
– lo so ‘
– quindi dobbiamo trovare un modo di far funzionare questa cosa ‘ dissi io, guardandola

– c’&egrave un solo modo ‘ rispose lei, guardandomi fisso e mettendo le mani sui fianchi ‘ io resto qui per tutto il tempo necessario per trovare una soluzione. Poi ti restituisco i soldi che hai pagato, e ci dimentichiamo per sempre quello che &egrave successo ieri ‘

Io la guardai, poi sospirai.
– no ‘ dissi poi ‘ io sono il titolare, quello che ti ha comprata. Per legge, io ti do gli ordini, e tu sei tenuta a eseguirli. E questo per i prossimi dieci anni, che ti piaccia o no –

– ah sì? ‘ mi chiese lei avvicinandosi e alzando la voce ‘ ah sì???? E allora sentiamo, caro il mio cazzo di ‘titolare’ del cazzo, brutto bastardo figlio di puttana, sentiamo: quale sarebbe il suo primo ordine, brutto stronzo pezzo di merda? –

Ecco, ci siamo, pensai.
Lo spiegavano tutti, gli esperti.
Arriva il momento nel quale lo schiavo (la schiava, per me) si ribella.
Accade all’inizio, quando la schiava finalmente accetta il fatto di essere stata condannata e venduta: in questo momento la schiava si ribella non contro il fatto della schiavitù, ma contro l’idea che ci sia un titolare, un padrone, una persona insomma che abbia il diritto di comandare la schiava.

Ed &egrave questo il momento, spiegavano, nel quale il padrone deve dare la prima lezione alla schiava.
Deve essere una lezione forte, fortissima, inaspettata, indimenticabile.
Il comportamento del padrone in questa situazione potrebbe influenzare tutto il resto del rapporto.

Guardai Francesca.
Era il momento.
Dovevo dare un ordine che mettesse in chiaro le cose, per vedere se avrebbe obbedito o si sarebbe ribellata.
Ci pensai un attimo, e la scelta fu facile.

– spogliati ‘ le dissi, guardandola.

Lei mi guardò.
Poi rise.
– ah, ecco’. Alla fine si riduce tutto a questo’ bhe, allora &egrave tutto molto facile: piuttosto che spogliarmi, o farmi toccare da una merda come te, vado in prigione per il resto della mia vita. Mi fai schifo, porco –

– non puoi decidere tu di andare in prigione’ io sono il tuo titolare e-
– non me ne frega un cazzo di cosa credi di essere!!! Sei solo uno schifoso maniaco del cazzo, e io non voglio avere niente a che fare con te ‘
– spogliati ‘ ripetei calmo
– vaffanculo ‘ disse lei, e si girò, per andarsene

Io avevo già preso in mano il controller.
Misi il dito sul bottone ‘block’, attesi che Francesca facesse due passi e poi lo schiacciai.

Lei si bloccò, rimase ferma per un secondo e poi si afflosciò a terra.
Non fu una caduta, ma quasi come se si sgonfiasse.
Avevo studiato che proprio per evitare i rischi di una caduta improvvisa, il ‘block’ toglieva progressivamente, in un paio di secondi, il controllo sui muscoli così che lo schiavo poteva in un certo senso ‘controllare’ la caduta.

Quando Francesca fu a terra, sul controller impostai ’10 min’: il collare avrebbe tenuto Francesca in condizione di block per 10 minuti, avvisandomi quando fosse mancato un minuto; in qualsiasi momento, in ogni caso, avrei potuto rimuovere il block con un semplice comando sul controller.

Con calma, mi alzai.
Andai davanti a Francesca.
A terra, non poteva muovere nemmeno un muscolo, solo gli occhi.
La testa era girata verso destra, così mi misi da quella parte, perché potesse guardarmi.
Era terrorizzata.
Agli schiavi non viene spiegato il funzionamento del collare, almeno non così in dettaglio, e probabilmente Francesca ignorava del tutto l’esistenza del block.

– bene ‘ le dissi, abbassandomi di fianco a lei e guardandola fisso ‘ vediamo se riusciamo a farti cambiare idea sull’opportunità di eseguire i miei ordini’ –

Mi portai alle sue spalle, infilai le mani sotto le sue ascelle e comincia a trascinarla.
Vedevo che i suoi occhi si muovevano, cercando di capire cosa stesse succedendo.
La trascinai di nuovo in soggiorno.
La appoggiai a una parete, poi andai a prendere il cavo che era rimasto attaccato all’anello nel pavimento.
Sulla parete alla quale avevo appoggiato Francesca, a circa un metro e settanta di altezza, c’era un altro anello, uguale a quello del pavimento.
Vi fissai il cavo, che poi fissai al collare di Francesca.
Tesi il cavo il più possibile, fino a che il cavo tirò sul collare: tra l’anello e il collare c’era meno di un metro di cavo.
Annuii soddisfatto.

Poi mi abbassai.
Velocemente, con metodo, slacciai e tolsi le nike a Francesca.
Sentivo i suoi occhi su di me.
Poi le tolsi le calze, corte e di cotone.
Mi alzai, slacciai il cavo, le tolsi, con una certa fatica, la felpa e la maglietta, lasciandole il reggiseno, nero, di cotone.
Poi riattaccai il cavo.
Francesca mi guardava, e io sentivo il suo respiro affannoso.

Poi le slacciai i jeans e glieli sfilai.
Sotto, aveva delle mutande nere, di cotone, come il reggiseno.

Sempre in silenzio, mi alzai e uscii dalla stanza. Andai in camera e presi la borsa nera.
Tornai in soggiorno.
Non dissi nulla, non guardai Francesca.
Posai la borsa sulla sedia, aprii la cerniera.
Presi il controller, e disattivai il block.

Francesca emise un suono gutturale, poi iniziò a muovere braccia e gambe.
Si mise lentamente in ginocchio, poi in piedi.
– brutto’ stronzo’ – sussurrò, poi la voce le si fece via via più sicura ‘ brutto bastardo figlio di puttana cosa mi hai fatto ridammi i miei vestiti questa volta ti ammazzo –

Io allungai una mano nella borsa e presi la frusta.

Lunga poco più di un metro, morbida e flessibile, era quella che tutti i siti indicavano come la più comune e più utilizzata.
Dai padroni, sugli schiavi.

I siti spiegavano che i colpi inferti con quella frusta facevano male, ma a dosando la forza dei colpi si poteva controllare l’intensità del dolore.
L’avevo provata su di me, una sera, e sapevo che faceva davvero male.

– cosa cazzo fai metti giù quella roba non ti permet AHHHHHHHHHH –

Il primo colpo finì sul fianco di Francesca.
Lei gridò.
Io non mi fermai, continuai a colpirla.
Forte, con metodo, prendendo la mira.
Il cavo era corto e non le permetteva di scappare, ma di muoversi per circa un metro sì.
Era una specie di caccia, lei che saltellava di qua e di là, cercando di fermare i colpi allungando le mani, e io che facevo una o due finte, e poi la colpivo: sul fianco, sulle gambe, sulla schiena quando si girava, sulla pancia, sulle spalle.

Vederla saltare, sentirla urlare, guardare come quel copro seminudo reagiva alle mie frustate mi piaceva.

Alla razionale necessità di mettere in chiaro le cose, subentrò praticamente subito la rabbia per come mi aveva trattato fino ad allora.
E mi accorsi di quanto fosse forte l’inaspettato piacere che stavo provando a frustarla e a guardarla in quelle condizioni.

E allora mi lasciai andare.
Smisi di prendere la mira, smisi di fare le finte, smisi di far attenzione a dove colpivo, o con quanta forza.

Semplicemente, la frustai.

Lei provò ancora a ribellarsi, a difendersi, ma finì a terra.
Io mi avvicinai, e dall’alto insistetti con i colpi.
Francesca, bloccata dal cavo che la teneva attaccata alla parete, si raggomitolò cercando di evitare i colpi più forti.

Finch&egrave non gridò ‘ basta! Basta ti prego basta’ ecco mi spoglio mi spoglio ecco mi spoglio lo faccio ecco ecco ‘ e piangendo, con le mani tremanti, si sfilò le mutandine e si tolse il reggiseno.

Io non smisi.
Solo, rallentai.
Un colpo, contavo fino a cinque, un altro colpo, altri cinque secondi, un altro colpo.
Francesca piangeva.
Il suo corpo era pieno di strisce e segni rossi.

– l’ho fatto!! L’ho fatto!! Sono nuda’ ahiaaaa’ basta ti prego’ no basta ahaiaaaaa’ basta –

Alla fine mi fermai.
Avevo il fiatone, il cuore mi batteva e avevo il cazzo duro.

– alzati ‘ le disse

lei no si mosse.
Io alzai la frusta, come per colpirla di nuovo ‘ no!!! ‘ gridò lei, e si alzò

Era in piedi, che piangeva e tremava.
Una mano copriva il seno, l’altra la figa.

– cosa sei tu? ‘ le chiesi
di nuovo, lei non rispose, e io la colpii con la frusta sulla coscia destra.
Lei gridò.

– sei la mia schiava ‘ dissi io, poi ripetei
– cosa sei tu? ‘
senza darle tempo di rispondere, la colpii di nuovo.

Lei gridò ‘ la tua schiava!!! Sono la tua schiava!!! –
Io alzai la frusta, come per darle un altro colpo.
Lei si girò di schiena ‘ ti prego no’ basta’ mi’ mi sono spogliata’ come volevi tu’ farò tutto’ tutto quello che’ sonolatuaschiava! – Urlò, quando vide che muovevo appena la frusta

– girati –
si girò, verso di me.
– mani lungo i fianchi –
Francesca obbedì, ma troppo lentamente.

Alzai la frusta, e subito riportò le mani a difendere il suo corpo.
– mani lungo i fianchi!! Veloce!! ‘ ripetei, e questa volta obbedì immediatamente

– posso fare ciò che voglio di te, lo sai? ‘ iniziai a dire, mentre la guardavo

Aveva delle tette piccole, sode, quelle che si dice assomiglino alle coppe di champagne, con capezzoli scuri e areole ampie e rosa.
La figa era depilata, ma si vedeva la ricrescita dovuta probabilmente alle ultime settimane in carcere prima dell’asta.
Il mio cazzo era sempre più duro.

– posso fare ciò che voglio di te!!!! ‘ ripetei, questa volta urlando: sfogavo la rabbia che mi era rimasta, la tensione di questi giorni, il desiderio che avevo di lei ‘ hai capito, brutta stronza??? Finch&egrave non ti ammazzo, posso frustarti tutto il giorno!!! Posso lasciarti senza bere e senza mangiare, posso tenerti incatenata a questo muro per un anno, posso invitare tutti i passanti a entrare e frustarti, prenderti a schiaffi o scoparti, e nessuno avrebbe niente da ridire!!! Lo sai? Lo hai capito, sì? –

Francesca annuì.

– da questo momento, c’&egrave una regola sola tra noi ‘ le dissi, alzando la frusta sopra la mia testa

– io ‘ dissi, e le assestai una frustata da destra a sinistra: slack!!!
– do ‘ un altro colpo, da sinistra a destra: slack!!!
– un ‘ destra sinistra: slack!!!
– ordine – slack!!!
– tu – slack!!!
– obbedisci – slack!!!
– chiaro???? – slack!!!

Francesca urlava dal dolore, e aveva ripreso a piangere.
– chiaro???? –

– basta basta ti prego basta’ sì sì sì sì sì chiaro –
– ripeti ‘
– tu dai un’ ordine’ io obbedisco ‘

– bene ‘ dissi allora ‘ adesso &egrave venuto il momento di punirti per non aver ubbidito subito al mio ordine di spogliarti –
– cinque frustate ‘ aggiunsi ‘ due davanti, tre dietro –
– no’ ti prego’ mi hai già’ –
– no ‘ la interruppi ‘ quelle non erano la punizione per non aver ubbidito, quelle erano per farti capire chi comanda. Adesso attenta: ti sto per dare un ordine: voglio che tu obbedisca subito, senza dire nulla. Se non lo farai, riprenderò l’addestramento come prima ‘
– lo farò’. Lo farò ‘

– girata verso di me. Ferma così. Gambe leggermente divaricate. Bene così. Mani dietro la testa. brava –

La guardai.
Fissata alla parete da un collare.
La faccia disfatta dal pianto e dalle urla.
Il corpo nudo, segnato dai colpi della frusta.
Le gambe che tremavano, incontrollate, le mani dietro la nuca.

Sono io, questo?
Sono io la persona che ha fatto questo?
&egrave giusto, tutto questo? Posso davvero farlo? Voglio, farlo?
E, soprattutto, perché tutto questo mi piace e mi eccita come niente altro mi ha mai eccitato?

La mia schiava, pensai.
&egrave la mia schiava.
Ed &egrave solo l’inizio.
&egrave come una droga, pensai: la parte difficile &egrave solo la prima volta’ dopo &egrave tutta discesa. Non so dove mi porterà questa discesa, ma già adesso non posso più farne a meno.

– adesso ti darò due frustate sul davanti –
– no ti pre ‘ disse lei abbassando le mani
– zitta ‘ la interruppi ‘ mani su. Brava. Due frustate. Dopo ogni colpo, potrai muoverti, ma dovrai tornare in posizione. Pronta? ‘
– no’. Ti prego no’ basta’ –
– pronta??? ‘
– no’. Non ce la faccio’ –
– scegli: o facciamo così, o ricomincio come prima ‘

Lei, tremando per la paura, annuì.

– pronta? –
– ssss’ sì – sussurrò

E io la colpii.
Dritto sulla pancia.
Forte.
Lei gridò, si accasciò.
Aspettai.

– in posizione –
– no’ –
– in posizione!!! ‘ ripetei, scandendo

Lei riprese la posizione, e di nuovo la colpii.

– girati ‘ le dissi, quando finalmente si riprese.

Solo guardare quel culo, tondo, tonico, stretto, che tremava per l’attesa delle frustate, mi fece quasi venire.

– pronta? –
Lei non rispose, ma annuì.
La frustai forte, da destra a sinistra, cercando di colpire tutti e due i glutei.
Dal segno rosso, preciso, che le attraversava il culo quando finalmente si rimise in posizione, capii di esserci riuscito.

La frustai altre due volte, l’ultima con quasi tutta la forza che avevo.
Rimase a terra, quasi appesa al cavo e al collare, piangendo e lamentandosi.

– non abbiamo ancora finito – dissi

Avanzai fino a mettermi praticamente sopra di lei.
Francesca mi guardava attraverso i capelli scompigliati, da sotto in su.
Senza dire nulla mi slacciai i pantaloni, me li abbassai insieme alle mutande e tirai fuori il cazzo.

La afferrai per i capelli, la tirai in su quel tanto che bastava e poi le spinsi il cazzo tra i denti.

Non fece resistenza.

Io non dissi nulla, lei nemmeno.

Guardai in giù, poi le presi la testa afferrandola da dietro, con le due mani, e iniziai a spingere.

– succhia ‘ dissi, mentre spingevo.

Sentii la sua bocca contrarsi sul mio cazzo.

E niente.
Bastò quello, a farmi venire.
Le spinsi il cazzo in gola, tenendola stretta con le due mani dietro la testa.
Lei si ribellò, tossendo, ma io non mi mossi finch&egrave non ebbi finito.

Poi la liberai.
Lei cadde a terra, restando attaccata al collare e al cavo, tossendo e con dei conati di vomito.

– ti conviene non vomitarlo’ &egrave tutto ciò che berrai fino a stasera ‘ dissi, uscendo dal soggiorno e chiudendo la porta.

Andai in camera.
Mi guardai allo specchio.
Chi sono?
Chi sono?
Cosa ho fatto, chi sono?
Mi chiesi.

Un padrone, che ha appena iniziato l’addestramento della sua prima schiava, mi risposi.
E sorrisi, mentre andavo a farmi una doccia.

Mi lavai, mangiai qualcosa e mi chiusi nello studio.

Una finestra sullo schermo del pc mi permetteva di tenere sotto controllo Francesca, che si era rivestita e in questo momento era accucciata, appoggiata al muro.

Mi resi conto che il cavo non era abbastanza corto da permetterle di sdraiarsi: se si fosse stancata di stare in piedi poteva al massimo provare a sedersi, tenendo la schiena dritta e il collo teso, se non voleva rischiare che il collare la soffocasse.

Per un attimo ebbi la tentazione di andare di là e, almeno, allungare il cavo così che potesse stare sdraiata a terra, poi decisi che dovevo impormi di essere severo e che più fosse stato il dolore, prima avrebbe accettato la sua nuova condizione.

Doveva accettare, mi dissi, che le sue condizioni di vita, anche cose banali ma fondamentali come mangiare, bere, dormire, stare in piedi o seduta o sdraiarsi, cio&egrave i più semplici e scontati gesti, non erano più scontati e banali: dipendevano esclusivamente dalla mia volontà.

Prima lo capiva, meglio sarebbe stato per lei; e prima avremmo potuto trovare il modo migliore di regolare il nostro rapporto.

Quindi ignorai il senso di colpa, e mi misi a fare qualche ricerca su internet, nei miei soliti siti e forum.

Volevo avere dei suggerimenti su ‘cosa fare adesso’.

Cio&egrave, pensavo: siamo arrivati al punto che lei sa che io sono il suo titolare, e si &egrave ribellata.
Allora io l’ho punita, in modo molto violento e crudele, almeno credo, cio&egrave.
Poi c’&egrave stata quella cosa del pompino, o mezzo pompino, o che le sono venuto in bocca, insomma quello, che non so se fosse consigliato dagli esperti ma alla fine era successo.

Insomma, la verità era che non sapevo come comportarmi.
Il mio istinto sarebbe stato quello di andare di là, darle da mangiare, da bere, e poi parlarle, discutere insieme, magari scusandomi per essere stato troppo violento, cercare insieme una soluzione, un accordo, per evitare nuovi scontri.

Ma, probabilmente, non era la scelta giusta.

La schiava, scrivevano molti esperti, dopo il primo ‘contatto’ con una punizione violenta e dolorosa, in questo momento comincia a percepire che non può lottare ‘fisicamente’ contro il padrone.
Allora la schiava, lessi, cercherà di separare l’aspetto fisico, concreto, quotidiano da quello invece personale, potremmo dire mentale.

&egrave in un certo senso facile, per così dire, obbligare qualcuno a fare qualcosa minacciandolo fisicamente.
Ma la parte più difficile del rapporto tra un padrone e uno schiavo o una schiava, invece, &egrave far sì che la schiava accetti, definitivamente, intimamente e consapevolmente di essere schiava.

Far sì che l’obbedienza, la devozione, la sottomissione diventino per la schiava normali, parte del suo carattere, della sua quotidianità.
Che non siano più vissuti come un obbligo contro il quale lottare, ma come una sorta di dato di fatto, incontrovertibile e immodificabile.

Questo, spiegavano gli esperti, &egrave un processo molto complesso e molto lungo.
Richiede tempo, esperienza e attenzione.

Bhe, sono pronto a imparare, dissi.
E proseguii nelle mie letture.

Uno dei primi e più importanti passaggi per far sì che una schiava accetti il proprio status consiste ridurre e abbattere la sua autostima e la sua dignità, lessi.
Viviamo in una società in cui tutti siamo uguali, in cui vige il rispetto reciproco e la regola del non far fare agli altri nulla che non faresti tu stesso.
Ebbene, intervenite sulla dignità e sull’autostima della schiava.
Rimarcate in maniera evidente, anche offensiva, la differenza tra il vostro status di titolare, di padrone, e la sua posizione di schiava.

Cercate di conoscere la vostra schiava, la sua storia, il suo carattere.
Ogni schiava &egrave diversa.
Cercate di trovare ciò che per lei potrebbe essere più difficile da accettare e subire, e insistete su quello.
Quella &egrave la chiave, la porta per entrare nella testa della vostra schiava per arrivare, alla fine, alla sua resa.

E poi punitela, in modo eccessivo e sproporzionato, per ogni suo errore e soprattutto siate inflessibili e durissimi per ogni minima disobbedienza.

Mi fermai a riflettere.

‘Showtime!’ mi dissi poco dopo, ed entrai nel soggiorno.
Francesca era in piedi, appoggiata al muro.
Gli occhi gonfi, i capelli spettinati, le mani appoggiate al cavo che legava il suo collo al muro.

Appena mi vide entrare, aprì la bocca e fece per dire qualcosa.
Poi notò che nella destra stringevo la frusta.
Spalancò gli occhi, terrorizzata, alzò le mani in un istintivo gesto protettivo e disse ‘ no! No! Per piacere’ ecco’ mi spoglio’ ecco ‘ e con le mani tremanti fece per slacciare i jeans.

– no ‘ dissi, piano, calmo.
Lei si bloccò.

– ferma ‘ dissi, e mi avvicinai a lei.
Sempre tenendo la frusta ben salda nella destra, le andai davanti, avvicinandomi fino a essere quasi davanti al suo viso.

Era la prima volta dal giorno dell’asta, a parte stamattina, che ci trovavamo abbastanza vicini da toccarci. Fino ad ora, infatti, avevo fatto sempre attenzione a restare a ‘distanza di sicurezza’.
In questo momento, decisi di superare quel confine.

Ero davanti a lei, praticamente attaccato a lei, e la prima cosa che notai fu che era molto più bassa di quanto pensassi.
Sarà che quasi sempre l’avevo vista con i tacchi, sarà che Francesca aveva sempre avuto una sicurezza e un atteggiamento distaccato, la verità &egrave che per la prima volta vidi che era almeno dieci centimetri più bassa di me.

Così vicino sentivo il suo odore. Sapeva di sudore, di pianto, di fatica, e forse di sperma.
Sapeva di me.

Francesca non sapeva dove guardare.
Alzò gli occhi per guardarmi, e io la fissai freddo, e lei spostò subito lo sguardo, ma ero così vicino che ovunque guardasse vedeva solo il mio viso, il mio collo, il mio petto.
Alla fine decise di abbassare gli occhi, fissando le sue scarpe che quasi toccavano le mie.

Rimasi fermo, in silenzio.
Francesca rimase ferma, ma tremava leggermente, anche se cercava di non farlo vedere, e notai che stringeva ritmicamente la mano destra, in un gesto nervoso.
Dopo qualche secondo, Francesca mi guardò, e cercando di leggere il mio viso disse ‘ ho’ – e quando vide che non mi muovevo, e che non alzavo la frusta, aggiunse – ‘sete –

Io rimasi fermo, poi annuii.
Sempre senza parlare, liberai il cavo dal muro, lasciandolo attaccato al collare e tenendolo in mano.
Mi girai, e mi avviai tenendo il cavo in mano.
Francesca non si mosse, il cavo le dette uno strattone al collare, e finalmente mi seguì.
La condussi di nuovo nella camera degli ospiti.

Io mi fermai, lei si fermò.
Mi girai, alzai la mano destra.
Lei scattò, alzando le mani sul corpo.
Mi ero dimenticato di avere in mano la frusta.
Senza dir nulla spostai la frusta nella sinistra e con la destra liberai il cavo dal collare.

– hai dieci minuti ‘ le dissi, con tono serio, guardandola
– fatti la doccia, lavati, truccati. Puoi bere tutta l’acqua che vuoi. Vestiti bene, metti qualcosa di carino, anche le scarpe, e raggiungimi di là, per mangiare –

Lei rimase ferma.
Io mi girai, feci per uscire dalla stanza, poi mi voltai di nuovo e dissi ‘ dieci minuti da adesso. Se ritardi, o se non fai tutto come ti ho detto, sarò costretto a punirti ‘ aggiunsi, mostrandole la frusta.
Senza aspettare mi girai di nuovo e lasciai la stanza.

Questa volta non mi feci scrupoli.
Andai nello studio e mi misi davanti al pc.
Francesca era andata diritta in bagno, aveva aperto il rubinetto del lavabo e stava bevendo lunghe sorsate d’acqua.
Dopo qualche secondo, si fermò, alzò la testa e si guardò nello specchio.
E si sedette improvvisamente a terra, con la testa tra le ginocchia.
Dai sussulti delle spalle, era evidente che stava piangendo.
‘stai perdendo tempo” mi accorsi di pensare, e in realtà non sapevo se desiderare che facesse in tempo, o che fosse in ritardo.

Ma Francesca si riprese in fretta.
Sempre scossa dai singhiozzi, si spogliò in fretta, buttando a terra i vestiti.
Bastò quello, e ancor prima che fosse completamente nuda avevo il cazzo duro.
Mi trattenni dal tirarlo fuori e farmi una sega.
Ma fu difficile.
Francesca intanto si era infilata nella doccia, dove rimase pochi minuti.
Uscì, si asciugò i capelli, corse in camera, in uno scatolone trovò la sua borsa dei trucchi e si truccò velocemente.
Poi di nuovo in camera, cercando nelle scatole i vestiti.
Spensi il pc.
‘fammi una sorpresa” dissi allo schermo che diventava nero.

Mi alzai e andai in cucina.
Mi sedetti a tavola, e mi misi a leggere un libro sul tablet.

Dopo pochi minuti arrivò Francesca.
Con deliberata lentezza guardai l’orologio.
Ci aveva messo quasi tredici minuti.
Ma lei non lo sapeva.
Dalla sua camera avevo tolto tutti gli orologi.

– appena in tempo ‘ dissi, e lei emise un sospiro di sollievo.
Decisi di non punirla per il ritardo per un semplice motivo.

Non mi serviva un motivo per punirla.

Se e quando avessi voluto frustarla, o punirla on qualsiasi altro modo, l’avrei semplicemente fatto, senza bisogno di una giustificazione.

Questa consapevolezza mi procurò un’emozione e una soddisfazione improvvise che mi fecero sorridere.
Francesca vide il sorriso e lo interpretò come un segno di incoraggiamento.
Se solo avesse potuto sapere perché sorridevo’

La guardai.
Indossava una camicetta blu, di cotone, a mezze maniche, non particolarmente elegante ma che comunque le stava molto bene. Era abbottonata fino al collo.
Dei pantaloni neri, lunghi fin sopra la caviglia.
Scarpe nere, tacco medio, senza calze.
Pettinata e leggermente truccata.
Niente male, ma neppure niente di speciale, pensai.
Bisogna fare meglio.
C’&egrave tempo, c’&egrave tempo.

– hai fame? ‘ le chiesi
Francesca annuì, e disse ‘ sì –
– allora adesso mangiamo qualcosa’ ma prima fatti guardare –

e la fissai.
Con lentezza, la guardai scendendo lentamente dal volto, alle spalle, al seno, ai fianchi, fino ai piedi.
Lei rimase ferma.
Io con noncuranza spostai di qualche centimetro la frusta, che era appoggiata sul tavolo.
Lei contrasse la mascella, ma non si mosse.

– girati –
lei obbedì, e di nuovo feci scorrere il mio sguardo si di lei.
Mi fermai sul culo, che i pantaloni neri rendevano ancora più bello.

Non so se vi &egrave mai capitato.
A me non era mai successo.
Di voler guardare il culo a una donna, e poterlo fare in maniera sfacciata, deliberata, senza far finta, senza chiedere, senza sorridere.
Non so, forse nemmeno con la vostra ragazza o con vostra moglie avete mai avuto questa sensazione di poterla guardare così, quanto volete, come volete, senza dover dire, fare o pensare a nulla se non a guardarle il culo.
Per me era la prima volta.

E la sensazione di puro potere che sentii fu come una scarica di elettricità che mi percorse tutto il corpo.
E, naturalmente, si concentrò nel cazzo.

– avanti. Ho fame ‘ dissi, con finto distacco
Francesca si girò e mi guardò, senza capire.
– devi prepararmi la cena ‘ spiegai ‘ io sono il titolare, tu la schiava. Chi pensi debba occuparsi della cena? –

Francesca fece due passi fino al centro della cucina, poi si fermò e mi guardò.

Io scossi la testa, come se fossi esasperato dalla sua stupidità.
– forza! Apri il frigo, guarda nella dispensa e dimmi cosa mi prepari!! Andiamo, sveglia!!! Non ho nessuna voglia di frustarti solo perché non sai prepararmi la cena’ –

Il mio tono e l’accenno alla frusta ebbero l’effetto di una scossa elettrica.
Scattò verso il frigorifero, lo aprì, poi lo richiuse.
Io feci un cenno verso la dispensa, lei si girò e aprì e chiuse anche quella.
Mi guardò, terrorizzata.

– un’insalata’ con pomodoro, mozzarella, avocado, carote tagliate fini’ – dissi, sbuffano, e mi alzai, lasciandola in cucina.
– non farmi aspettare’ immagino che varia fame anche tu, no? –
lei annuì
– dai, che quando mangio io poi mangi anche tu’ ah, mi raccomando, apparecchia per bene –

Andai in sala, accesi lo stereo e mi rilassai sul divano.
Il contrabbasso e la voce di Leyla McCalla riempirono la casa.

Ogni tanto alzavo gli occhi dal tablet e guardavo in cucina: Francesca si stava dando da fare.
Non avevo mai avuto una cameriera, figuriamoci una cuoca; solo una signora che veniva a fare le pulizie e stirare, ma era tutta un’altra cosa vedere Francesca, con i tacchi, i pantaloni scuri e la camicetta blu prepararmi la cena.

Di nuovo, mi travolse la sensazione di potere e di controllo.
Di nuovo, mi domandai se tutto ciò fosse giusto.
Di nuovo, decisi di non darmi una risposta, anche perché il cazzo era di nuovo duro, e Francesca si era affacciata dalla cucina.
– &egrave’ pronto –

Io mi alzai e andai in cucina.

I pantaloni che indossavo erano morbidi e leggeri, e la mia erezione era ben visibile.
Io non feci nulla per nasconderla, e Francesca la vide subito.
Si irrigidì, e notai quasi un gesto di ribellione.
Poi si trattenne, e io mi sedetti.

Aveva apparecchiato mettendo in tavola una bella insalatiera, con dentro l’insalata e olio, sale e pepe, aceto appoggiati in bell’ordine.
Poi aveva messo due tovagliette, una per me e una per se’, con piatto, forchetta, coltello, bicchiere.

Mi sedetti.
Francesca si sedette.
Io non la guardai, presi l’insalata e mi riempii il piatto.

Francesca sedeva seduta rigida, in silenzio.
Si mosse, per prendere anche lei da mangiare.
Era praticamente digiuna dal mattino, quando aveva mangiato solo un po’ di riso e pane.

– cosa fai? ‘ chiesi
– mangio’ avevi detto’ –
– ho detto che avresti mangiato anche tu. Ma non che avresti mangiato insieme a me, e a tavola con me –

mi alzai, e lentamente presi il suo piatto, le posate, il bicchiere e la tovaglietta e le posai accanto all’acquaio.
Lei rimase seduta, ferma.
Poi, sempre senza parlare, presi la tovaglietta e la stesi a terra, accanto alla mia sedia.
E con calma ci rimisi sopra il suo piatto.

Francesca mi guardò, sena capire.
– Io mangio a tavola ‘ spiegai ‘ tu mangi a terra. Prima mangio io, e tu aspetti al tuo posto, qui per terra. Poi, quando io ho finito, mangi tu –

Una vena sul collo di Francesca prese a pulsare.
Vidi che deglutiva a fatica.
Strinse un attimo gli occhi poi disse ‘ no –
– no? ‘ chiesi io, guardandola
– no ‘ rispose lei, fissandomi con disprezzo ‘ non mi interessa niente di cosa mi farai, io non ci sto più. No ‘ e dicendo questo fece per alzarsi.

Io non mi mossi, sospirai e presi dalla tasca il controller, mentre posavo la forchetta e con l’altra mano prendevo la frusta.

Lei mi guardò, in piedi accanto al tavolo ‘ cosa’ cosa fai? ‘
Io risposi tranquillo ‘ bhe, a meno che ti non accetti di venire di là di tua volontà’ pensavo di stordirti ‘ dissi, indicando il controller ‘ poi trascinarti di là, spogliarti, fissare il collare alla parete, farti riprendere e frustarti fino a quando non vomiterai, ti cagherai e piscerai addosso dal dolore e mi supplicherai di smettere, promettendo di fare tutto ciò che voglio’ e a qual punto continuare, ma ancora più forte ‘ risposi, calmo, come se stessi spiegando una cosa banale come accendere una macchina o mandare una mail.

Francesca mi fissò, poi i suoi occhi si fermarono sul controller e sulla frusta, che avevo nelle mani.
– non’ ti prego non’ –

Io non risposi.
Semplicemente, diedi un’occhiata al suo piatto, a terra.
Lei restò ferma ancora un secondo, poi chiuse gli occhi e, lentamente, venne accanto a me.

Restò lì ancora un altro momento, poi si abbassò, e infine si sedette a terra, davanti al suo piatto, alla sinistra della mia sedia, appena un po’ più avanti, così che la potessi vedere.

– non seduta ‘ dissi, senza guardarla, mentre versavo l’olio e l’aceto sulla mia insalata ‘ in ginocchio –
Francesca ubbidì.

Misi in bocca la prima forchettata.
Mi appoggiai allo schienale della sedia.
Girai lo sguardo.
La mia cucina.
Il mio tavolo, la mia cena.

La mia schiava.
In ginocchio, accanto a me, in attesa, impaurita e furiosa.

Mi sentii un uomo realizzato.

– possiamo parlare ‘ dissi, mentre continuavo a mangiare ‘ mi annoio a mangiare in silenzio –
lei mi guardò.
Avete un’idea di come possa guardarvi una donna, in ginocchio sul pavimento accanto a voi, mentre voi siete seduti e mangiate tranquilli?

Ecco, avete ragione: se una donna vi guarda così, farete davvero fatica a trattenervi dall’infilarle subito il cazzo in bocca.
Anche io feci fatica, ma resistetti.

– puoi parlare – dissi

dopo qualche secondo, Francesca parlò ‘ non mi farai male? ‘
– in che senso? –
– se parlo’ se parlo normale ‘
– intendi non come una schiava con il suo padrone? ‘
– sì ‘
– no, non ti farò male, finch&egrave non mi insulti, non gridi, non urli, e resti lì dove sei, senza muoverti. Va bene? ‘
– va bene ‘
– parla. Tranquillamente ‘
– come puoi fare’ questo? Perché? Come hai potuto farmi quello che hai fatto stamattina? Come puoi frustare una persona? Una donna? ‘ stava alzando il tono della voce, e si stava agitando
– abbiamo detto non gridare ‘
– scu’ scusa ‘ Francesca si calmò ‘ &egrave che’ questo’ io non riesco ad accettare’ non &egrave possibile’ voglio che finisca, voglio solo che finisca’ dimmi cosa devo fare per farlo finire’ –
e scoppiò a piangere

io non risposi, e continuai a mangiare.
Quando sentii che i singhiozzi erano terminati, mi girai verso di lei.
Le lacrime avevano fatto colare il mascara dagli occhi.
Scoprii che questa cosa mi eccitava.
Erano molte, le cose che stavo scoprendo che mi eccitavano e non l’avevo mai saputo, in realtà.

– non puoi farlo finire ‘ dissi, poi ‘ non dipende da te. E nemmeno da me. Se anche io decidessi di ‘lasciarti andare’, come dici tu, non cambierebbe nulla. La legge non prevede che un titolare possa liberare uno schiavo: se io rinunciassi a te, torneresti ad essere messa all’asta. Lo sai, no, come sono quelli che normalmente comprano gli schiavi alle aste? –

Francesca annuì.
Nel ‘nostro’ mondo, nel ‘nostro’ giro, l’argomento ogni tanto saltava fuori.
C’erano articoli, inchieste, discussioni e tutti, chi più chi meno, sapevano che nella maggior parte dei casi uno schiavo o una schiava veniva comprato da persone che lo facevano di professione: intermediari, commercianti insomma.
Una volta acquistato, lo schiavo poteva finire più o meno come Francesca, cio&egrave di proprietà di una persona normale che, semplicemente (per modo di dire) aveva voglia o necessità di uno schiavo.

La vita in questo caso era abbastanza semplice, certo dipendeva dal tipo di persona e di necessità del padrone, ma a un certo punto tra padrone e schiavo si creava una specie di accordo, e le cose andavano avanti.

Andava peggio a quelli che erano acquistati da intermediario che li cedeva a delle aziende: spesso questi schiavi finivano a fare lavori di fatica in fabbriche o piantagioni o cantieri, fornendo manovalanza a costo praticamente nullo, con condizioni di vita estremamente dure e quasi senza controllo da parte delle autorità.

Infine, alcuni schiavi venivano venduti a privati che li portavano all’estero, e spesso non se ne aveva più notizia. Alcuni certo finivano a prostituirsi in bordelli in paesi stranieri, ma su altri, semplicemente, non c’era più nessuna informazione.

– se io decidessi di restituirti, correresti davvero il rischio di finire molto, ma molto peggio di così ‘ le dissi, mentre lei era in ginocchio, accanto a me, a terra ‘ &egrave questo che vuoi? –

– no’ no ‘ rispose Francesca, scuotendo la testa ‘ io’ io però voglio’ –
– che cosa? ‘
– voglio’ io posso stare qui con te’ ma non’ non così’ – disse, guardandomi da sotto in su, mentre un momento di orgoglio e rabbia le passava sul viso
– ma la scelta non &egrave tua ‘ le risposi ‘ &egrave mia. Vedi ‘ dissi, e mentre parlavo mi alzai

– vedi, io ho una casa, un lavoro più che buono, soldi, amici, e ho anche diverse donne con le quali ho avuto e posso avere delle relazioni sia sentimentali sia semplicemente sessuali’ –

mentre parlavo presi il mio piatto e abbassandomi di fronte a Francesca con la forchetta rovesciai quello che non avevo mangiato, gli avanzi insomma, nel suo piatto

– quindi non avevo bisogno di spendere tutti quei soldi, e di mettere in piedi questo casino per te, se avessi voluto una relazione ‘normale’, o anche solo farmi qualche scopata ogni tanto. Tutto questo ce l’ho già, o potrei averlo se lo volessi –

dal tavolo presi il resto del cibo e lo buttai a terra, intorno a suo piatto

– ma non &egrave questo, ciò che voglio. Voglio’ voglio’ –

aprii un anta e presi una piccola ciotola, la riempii d’acqua e la appoggiai a terra accanto a suo piatto

– voglio possedere una schiava. Voglio ‘ e dicendo questo mi abbassai, appoggiandomi sui talloni, per poterla guardare dritta negli occhi ‘ voglio possedere te –

– io non posso farlo ‘ mi rispose semplicemente Francesca, guardandomi con intensità
– oh, sì che puoi. Non vuoi, e questo &egrave comprensibile. Ma puoi –

lei rimase in silenzio, ma vedevo che dentro di lei una nuova consapevolezza stava prendendo il posto della pura e semplice rabbia e ribellione.

– e cosa’ cosa’ – e si fermò.

Per la prima volta vidi la disperazione, la paura, la consapevolezza nei suoi occhi.
Non pianse, ma abbassò la testa e rimase così, mentre le lacrime scendevano dai suoi occhi.

– non lo so nemmeno io ‘ risposi, anche se lei non era riuscita a finire la domanda ‘ &egrave la prima volta anche per me. Ma ecco cosa so –

rimasi fermo, davanti a lei, sui talloni ‘ guardami ‘ e lei alzò la testa, con le lacrime che continuavano a scendere

– so che voglio che tu ubbidisca. Non so bene a cosa, ma voglio sapere che lo farai, qualsiasi cosa io dica. voglio essere libero di non pensare o programmare nulla, ma semplicemente di darti ogni ordine che ho voglia di darti, e voglio che tu ubbidisca. Puoi farlo? –

Francesca annuì, poi sussurrò ‘ e’ vorrai’ vorresti anche’ –
– il sesso? –
di nuovo, lei annuì
– sì ‘ risposi, immediatamente, senza esitazioni ‘ certo. Come, quando, quanto, dove voglio. Ma di questo parleremo poi. Adesso mangia ‘ e mi alzai

Francesca guardò a terra.

Nel suo piatto gli avanzi della mia cena, e quello che era rimasto nella insalatiera sparso a terra attorno al piatto e alla tovaglietta.
Niente posate, e al posto del bicchiere una ciotola piena d’acqua.

– come’? –
– regola numero uno, che ho appena inventato, tra l’altro: la schiava non mangia né con le posate, né con le mani. La schiava mangia e beve direttamente con la bocca dal piatto o dalla sua ciotola’ –

Francesca mi guardò, senza capire.
– hai cinque secondi per cominciare a mangiare come ti ho ordinato. Se non ti va bene, nessuno problema: metto tutto via, e ne riparliamo domani sera. Se vuoi stare senza cibo e acqua per altre ventiquattro ore, buon per te –

Francesca non si mosse.

Era ferma, in ginocchio, con a terra davanti a se’ il piatto con gli avanzi, altro cibo sparso sul pavimento e la ciotola d’acqua.
– uno’ due’ tre’ –

Si mosse.
Spostando indietro le gambe, lentamente abbassò la testa fino a metterla sopra il piatto.
– ferma’ – la interruppi ‘ non voglio che ti sporchi i capelli, usa questo ‘ le porsi un elastico, e lei si lego i lunghi capelli neri in una specie di chignon alto sulla nuca.

– avanti ‘ ordinai.
Di nuovo si piegò, e io presi una sedia e mi misi di fronte a lei, osservando ogni dettaglio.
Francesca appoggiò la bocca al piatto, aprì le labbra e con i denti preso un pezzo di mozzarella, poi un pomodoro, poi dell’insalata.
Doveva essere affamata, perché dopo pochi secondi sembrò dimenticare tutto, e continuò a mangiare, sempre più in fretta.
Quando ebbe finito quello che c’era nel piatto, si mosse, e prese in bocca anche quello che era a terra.
Io mi appoggiai sui gomiti, abbassandomi, per vedere meglio.

A un certo punto non riusciva a raccogliere un pezzo di cibo che scivolava sul pavimento ‘ usa la lingua ‘ ordinai, e Francesca esitò solo un attimo, prima di leccare il pavimento.

– pulisci il piatto. Con la lingua –
Francesca eseguì.

Vederla leccare il piatto, con gli occhi chiusi, la lingua che andava avanti e indietro, mi sembrò la cosa più bella che una donna avesse mai fatto per me.

– pulisci anche il pavimento ‘ ordinai, e di nuovo Francesca eseguì.

Ogni uomo, mi trovai a pensare, dovrebbe avere almeno una volta davanti a lui una donna che lecca il pavimento.
Probabilmente non vi piacerebbe.
Ma se per caso, guardandola, vi accorgeste di avere il cazzo duro, non stupitevi.
Semplicemente, pensate che avete appena scoperto che siete come me, e anche io, quella parte di me così nascosta, oscura e segreta, la stavo scoprendo in quel momento.

Quel momento in cui vedere Francesca che leccava il pavimento perché le avevo detto di pulirlo, mi aveva fatto sentire davvero, davvero felice e soddisfatto.
Oltre che terribilmente eccitato, certo.

Mi alzai.
A terra si vedevano i punti in cui Francesca aveva leccato il pavimento, scuri e umidi.

Francesca era davanti alla ciotola, e beveva risucchiando rumorosamente.
Anche questo era uno spettacolo al quale, mi dissi, non avrei potuti più rinunciare.

– quando hai finito, metti a posto e vieni di là ‘ dissi, e senza girarmi me ne andai in soggiorno.

Dietro di me, sentii ancora i rumori di Francesca che beveva dalla ciotola.

Era notte.
Mi svegliai.
La finestra del soggiorno, aperta, faceva filtrare la luce dei lampioni della strada.
Mi alzai per andare in bagno.
Indossavo, come sempre, una semplice tshirt bianca e un paio di boxer scuri.
In bagno mi abbassai i boxer alle caviglie, mi sedetti (sono il tipo d’uomo che la fa seduto, non sopporto gli schizzi), pisciai, ma invece che rimettermi i boxer li tolsi del tutto.
Uscii dal bagno, e rimasi in piedi davanti al letto.
Mi avvicinai, e lentamente scostai il lenzuolo.

Francesca dormiva, a pancia in giù.
Era nuda, tranne che per il collare.
Scostai del tutto il lenzuolo, osservando nella penombra il suo culo.
Mi accarezzai appena il cazzo, e questo bastò a farmelo diventare duro.

Velocemente salii sul letto in ginocchio, mi misi a cavalcioni di Francesca, con la sinistra le allargai le chiappe e con la destra guidai il mio cazzo verso la sua figa.

Francesca si svegliò di soprassalto.
Spaventata, gridò e cercò di sgusciare via da sotto di me.
Io immediatamente le afferrai i capelli con la mano sinistra, stringendo forte e bloccandole la testa contro il cuscino, mentre con la destra le diedi due schiaffi sul culo, forte.
Lei si bloccò e rimase ferma, immobile.
Ferma, immobile, mentre io intuivo i suoi occhi chiusi e sentivo il respiro affannoso.

Mi assestai con forza, cominciai a spingere finch&egrave non la sentii aprirsi.
Entrai dentro di lei, lasciandole la testa e appoggiandomi con tutto il mio peso alla sua schiena.
Cominciai a scoparla, afferrandole un seno da dietro.
Dopo pochi minuti sentii che stavo per venire.
Sempre senza una parola uscii da lei, mi misi in ginocchio sul suo cuscino, con il cazzo rivolto verso la sua faccia, le afferrai di nuovo i capelli con la mano, la feci voltare verso di me e le spinsi il cazzo in bocca.
Non appena sentii il calore della sua bocca, spinsi il cazzo con forza e tirai la sua testa verso di me.
Venni nella sua bocca, o forse direttamente nella sua gola.

Rimasi dentro la sua bocca per qualche secondo, poi lei mi leccò e succhiò piano, come le avevo insegnato, per pulirmi.
Dopo qualche momento, senza dire nulla, tirai fuori il cazzo dalla sua bocca, mi rimisi i boxer e mi girai dall’altra parte.
Prima di addormentarmi, feci appena in tempo a sentire Francesca che si alzava per andare in bagno e guardai l’ora: le tre e quaranta di notte.

Bello, mi dissi.
Spero di svegliarmi per andare a pisciare tutte le notti.
E mi addormentai.

***

Cos’era successo?
Cos’era cambiato?
In fondo, nemmeno una settimana fa Francesca aveva a fatica accettato per la prima volta di mangiare a terra, dalla ciotola.

Era successo che dopo aver leccato il pavimento Francesca era venuta in soggiorno e, con tutta la calma possibile e reprimendo rabbia e orgoglio mi aveva detto che lei non aveva più intenzione di accettare questo stato di cose.
Facessi quello che volevo, mi aveva detto, ma io non ci sto più.
E se deve essere così, allora non voglio che sia tu. Chiunque altro, ma non tu.

Avrei potuti frustarla, legarla, affamarla, magari torturarla, non so.
Invece annuii.

– va bene ‘ le dissi ‘ vieni con me –

Francesca mi seguì, senza domandare nulla.
Aveva un’espressione decisa sulla faccia, e mi ignorava del tutto, guardando dritta davanti a se’.
Salimmo in macchina, era una bella sera di primavera e il sole tramontava.
Sedemmo insieme, in macchina: io guidavo, lei era accanto a me, in silenzio.
Bob Dylan cantava di come si viaggi assieme attraverso la vita, e la sua voce nasale e roca, ci teneva compagnia.

Guidai per ore, senza fermarmi, senza che nessuno dicesse una parola.
A un certo punto della notte, Francesca si addormentò, e io di tanto in tanto la osservavo, il suo profilo illuminato dalle luci dell’abitacolo dolce e bellissimo.

Quando arrivammo, mancavano poche ore all’alba.

Francesca si svegliò quando rallentai, girai e presi una strada sterrata.
Sempre in silenzio, arrivammo a un cancello e una recinzione di rete metallica.
Al cancello, una guardia si avvicinò, io abbassai il finestrino e porsi un foglio di carta.
La guardia annuì, e mi diede brevi istruzioni su dove andare.

Arrivammo pochi minuti dopo nel parcheggio di quello che sembrava un centro direzionale, mentre grossi camion rombavano nel buio.

Mi fermai, uscii dalla macchina e Francesca fece altrettanto.
La porta degli uffici si aprì e ne uscì un uomo di mezza età, con una grossa pancia che tirava sulla camicia, occhiali e una testa calva.
Accanto a lui, un altro uomo, che indossava una sorta di divisa grigia, anfibi, un cinturone con attaccati diversi ‘arnesi’, come quello dei poliziotti, capelli tagliati quasi a zero, e braccia muscolose che uscivano dalle maniche corte della camicia.

– buongiorno, benvenuto, &egrave un piacere conoscerla di persona ‘ mi salutò il primo, dandomi una mano grassoccia e umida ‘ le presento il nostro responsabile della sicurezza e gestione del personale lavorante ‘ e anche il secondo uomo mi salutò.

Nessuno dei due degnò di uno sguardo Francesca.
– mi segua, prego ‘ disse il dirigente, facendomi strada dentro gli uffici.
Ci accomodammo in una asettica sala riunioni.
Ci sedemmo io, il dirigente e il suo collaboratore in divisa.
Francesca rimase in piedi, in imbarazzo, senza saper che fare, ma ancora una volta nessuno badò a lei.

– un caff&egrave? Mi sembra di capire che ha guidato quasi tutta notte’ –
– sì, grazie’ e lei? Come mai qui a quest’ora? ‘ chiesi a mia volta, mentre lui chiedeva tre caff&egrave tramite un interfono
– questa &egrave una facility che non si ferma mai’ lavoriamo 24 ore al giorno, sette giorni la settimana, 365 giorni all’anno: questa settimana faccio il turno di notte ‘

In quel momento entrò una donna, che indossava una specie di tuta marrone, informe, con un numero arancione stampato davanti e dietro, ai piedi delle ciabatte come quelle delle infermiere, e al collo il collare degli schiavi.
Senza alzare gli occhi appoggiò un vassoio, mise i caff&egrave lo zucchero e i cucchiaini sul tavolo e se andò, senza che nessuno la guardasse né ringraziasse.

Dopo aver bevuto il caff&egrave, il dirigente mi disse ‘ allora, &egrave tutto confermato? ‘
– tutto come d’accordo ‘ risposi io
– bene, allora mi servono alcune firme’ – disse lui, mettendomi davanti alcuni fogli, che firmai dove mi indicava.
– ed ecco a lei le credenziali per l’accesso online’ – aggiunse mentre mi consegnava una busta
– bene, direi che &egrave tutto a posto, se non ha altre domande ‘ disse lui infine, alzandosi
– no, tutto chiaro, come d’accordo ‘ mi alzai a mia volta, e gli strinsi la mano
– allora ‘ disse lui alla guardia, che nel frattempo si era alzata ‘ procedi pure –

La guardia si mosse velocemente e afferrò Francesca per un braccio.
Francesca urlò e tentò di divincolarsi.
La guardia, con un movimento fluido ed esperto, le bloccò l’altro braccio dietro la schiena torcendoglielo, così che lei si piegò e si fermò, mentre gridava ‘ ahaaa mi fai male mi spezzi il braccio ‘
– vai pure ‘ disse il dirigente
e la guardia uscì, spingendo Francesca che provava a divincolarsi, per quel poco che la presa della guardia le consentiva.

– allora, come mi diceva ‘ mi disse il dirigente accompagnandomi al parcheggio ‘ la sua nuova schiava ha un’indole ribelle –
– sì, esatto, come ha visto’ –
– e ha perfettamente ragione anche sul resto: se dopo un po’ di frustate e privazioni non ha ancora ceduto, non c’&egrave molto che lei possa fare, o almeno nulla che lei possa fare per avere un risultato immediato’ –
– proprio così ‘ risposi ‘ non ho voglia di lottare con lei ogni giorno per mesi, per ottenere semplicemente ciò a cui ho diritto’ quando vi hi contattato, su suggerimento si alcuni esperti trovati sui forum’ –
– ha fatto benissimo ‘ mi interruppe lui ‘ quando abbiamo cominciato, alcuni anni fa, ad offrire questo, come dire, servizio, sembrava una stupidaggine, e invece oggi in certi periodi abbiamo addirittura una lista d’attesa’ –
Io annuii.

– torna a casa o dorme in hotel da queste parti? –
– no, parto subito ‘
– un’ultima cosa’ – disse lui, mentre sfogliava le carte che avevo firmato ‘ tanto per essere sicuro’ mi conferma’ allora’ ‘niente rapporti sessuali’? ‘
– confermo ‘
– ‘niente frustate se non strettamente necessario’? ‘
– confermo ‘
– ‘privazione del sonno, del cibo, dell’acqua” consentito? ‘
– consentito ‘
– ‘altre forme di punizione e stimolo’, come pungolo elettrico, acqua fredda, incatenamento eccetera, consentite, se non lasciano danni permanenti, vero? ‘
– esatto ‘
– ‘e infine’ ha chiesto di tenerla a contatto solo con schiavi che non parlino la nostra lingua’ –
– sì, voglio che si senta del tutto isolata e senza nessun conforto o aiuto –
– ottima idea’ potremmo copiargliela ‘ sorrise, mentre mi salutava e io entravo in macchina.

Mentre guidavo verso l’autostrada pensavo a Francesca.
Sapevo cosa doveva già esserle successo, in quei pochi minuti.
Presa, spogliata, buttata in una stanza vuota, obbligata a indossare una tuta da lavoro di tela grezza e scarpe informi e senza lacci.
Gettata in una camerata con solo un materassino di spugna buttato a terra per letto.
Erano le cinque.
Tra mezz’ora, mi aveva detto il dirigente, nella miniera sarebbe cambiato il turno.
Sarebbe toccato a Francesca.

Perché era questo che avevo fatto.
Avevo mandato Francesca lavorare come schiava in una miniera.

Per i tre giorni successivi, passai quasi molto tempo davanti al computer.
Con le credenziali che mi avevano dato, avevo accesso al sistema di telecamere della miniera, e il programma era impostato in modo da seguire sempre Francesca.

Il lavoro era durissimo.
Turni di diciotto ore, la miniera a cielo aperto era quasi gelida nelle ore notturne, e calda come un forno durante il giorno. Quando pioveva (come accadde il secondo giorno) diventava un acquitrino fangoso, dove gli schiavi affondavano fino alle ginocchia.
Qualsiasi lavoro, spaccare pietre, spostare ghiaia, rimuovere attrezzi, era fatto a mano, senza alcun aiuto di macchine: il costo della manodopera era talmente basso che qualsiasi macchinario sarebbe stato antieconomico.

Francesca provò a ribellarsi, il primo giorno.
Un guardiano, in modo molto professionale ed esperto, la colpì ripetutamente con un pungolo elettrico.
Francesca cadde nella polvere, si rialzò, disse qualcosa (l’audio non era così buono come le immagini, e c’era un forte rumore di fondo, tanto che le guardie avevano delle cuffie protettive’), la guardia la colpì di nuovo, lei cadde, si rialzò e la scena si ripet&egrave altre tre volte.

Alla fine, Francesca non si rialzò.
La guardia si avvicinò, la minacciò con il pungolo e lei si alzò e andò nella direzione indicata dalla guardia.

Le ore successive furono molto noiose, almeno per me.

Francesca spostò pietre, si caricò sulle spalle sacchi pieni di terra, spinse carrelli d’acciaio si vecchie rotaie, raccolse sassi, pietre, terra, venne attaccata a un grosso carro insieme ad altri nove schiavi a trainare il carrello su una salita, e tanti altri lavori.
Francesca non era abituata, non conosceva il lavoro, era disperata e spesso cadeva, inciampava, faceva cadere a terra quello che portava, e questo bloccava il lavoro.
Ogni volta le guardie le urlavano contro, e la punivano con vilente scosse del pungolo elettrico.
Francesca pianse, urlò, pregò, ma alla fine riprese sempre a lavorare.

Nella mezz’ora di pausa per il pranzo, il primo giorno, Francesca si sedette con in una mano il piatto d’acciaio sporco nel quale avevano versato una sbobba grigiastra, e nell’altra un bicchiere d’acqua.
Non appena si sedette, però, un gruppo di quattro schiavi la circondò e le strapparono il piatto e l’acqua.
Francesca provò a reagire, ma bastarono due schiaffi per farla desistere.

A sera, dopo diciotto ore di lavoro, quando finalmente arrivò nella camerata, si buttò sul suo materassino e si addormentò.

I due giorni successivi furono identici, tranne per il giorno di pioggia, che rese il lavoro ancora più faticoso.

La mattina del quarto giorno mi misi in macchina e guidai fino alla miniera.
Arrivai verso l’ora di pranzo, e mangiai alla mensa dei dipendenti, in compagnia del dirigente e del capo delle guardie.
Dopo un ottimo pasto, il dirigente mi chiese ‘ procediamo? ‘ e io dissi di sì.

La stanza era vuota, con pavimento, pareti e soffitto di cemento grezzo.
Solo una porta d’acciaio, e una invisibile telecamera sopra la porta.
A una parete, erano fissati un gancio e un cavo, di quelli da attaccare a un collare.

Io e il dirigente ci sedemmo in una stanza accanto, con uno schermo che trasmetteva le immagini della telecamera.

Dopo pochi minuti, il capo delle guardie portò Francesca nella stanza, ‘non ti muovere’, le disse, e uscì.

Francesca tremava, aveva gli occhi scavati, le labbra screpolate e si stringeva le braccia attorno al corpo.
Ma non mosse nemmeno mezzo passo, restando esattamente dove era.
Era evidentemente terrorizzata.

Aspettammo ancora cinque minuti, bevendo un caff&egrave.
– credo possa andare, adesso ‘ mi disse il dirigente.
Io annuii, presi la bottiglietta d’acqua che mi porgeva e mi alzai.

Aprii la porta.
Francesca mi guardò, all’inizio sembrò quasi non riconoscermi.
Poi capì, fece per muoversi, ma si trattenne.
Tremava ancora più forte, adesso.
Il respiro era violento, e mosse appena una mano verso di me.

Io entrai e chiusi la porta.

Rimasi fermo, a due passi di distanza.
Francesca mi guardava disperata, scuotendo la testa come a dire ‘no, no’.

– parla ‘ le dissi
Francesca aprì la bocca, ma le uscì solo un rantolo dalle labbra.
– bevi ‘ le dissi, allungando la bottiglia, e le bevve in un unico sorso tutta l’acqua.

– parla – ripetei

-po’ portami via ‘ sussurrò ‘ ti prego’ portami via ‘ ripet&egrave, allungando di nuovo la mano verso di me, ma senza muoversi.

Io rimasi fermo, in silenzio.
Aspettavo.

– farò’ farò tutto’ tutto’ sempre’ qualsiasi cosa’ ti prego’ portami via e’ tutto’ – non riuscì a proseguire, ma scoppiò a piangere, disperata, e lentamente si accasciò a terra, prima in ginocchio, poi sdraiata, con la testa tra le mani ‘ portami via, portami via ‘ ripeteva tra i singhiozzi.

– va bene ‘ dissi ‘ ma te lo dico una volta sola. Se non sarò contento di te, ti restituirò alla casa d’aste, e avviserò la miniera: mi hanno detto che sei un’ottima lavoratrice, e che sarebbero ben felici di comprarti –

Francesca, non appena sentì le mie parole, strisciò fino davanti a me e mi abbracciò le caviglie.
– no no mai più’ tutto’ tutto’ portami via –

Il viaggio in auto fu lungo, ma Francesca dormì tutto il tempo.
Appena entrati in casa, le dissi ‘ prendi quello che vuoi dal frigo e dalla dispensa e mangia tutto ciò che vuoi. Fatti una doccia, o un bagno, e vai a letto. Dormi fino a domani. Domani ricominciamo la nostra vita insieme –

Francesca sussurrò solo ‘ grazie’ grazie ‘ e si avventò al frigo.

Io mi misi comodo, sul divano, mentre la misteriosa voce di Melanie De Biasio usciva dalle casse e riempiva la casa.

Non &egrave la violenza, o il dolore a convincere le persone a fare qualcosa che non vorrebbero fare.
&egrave la paura, di quella violenza, di quel dolore.

Tra me e Francesca da quel momento la miniera era come una minaccia non dichiarata, ma presente e minacciosa.

Adesso Francesca era davanti a me.
In piedi, in soggiorno.

Era pomeriggio, Francesca aveva dormito tutto il giorno, tutta la notte e poi ancora la mattina.
Aveva mangiato, da sola in cucina, prima di buttarsi sul letto.
Si era lavata, e indossava un paio di jeans, sneakers, una tshirt bianca.

Stava meglio, ma i suoi occhi tradivano ancora il terrore puro che aveva provato, per la prima volta, nella miniera.

– dobbiamo parlare ‘ le dissi, e questa volta lei non replicò, non disse nulla. Rimase ferma, in attesa.

– io ti voglio ‘ spiegai ‘ ti ho sempre voluta. Ti ho desiderata, ti ho sognata. E adesso ti’ ho. Non c’&egrave altro modo per dirlo. E la verità &egrave che mi sono reso conto che non ti ho mai voluta come fidanzata, come compagna, come amante’ no, questi pochi giorni mi sono bastati per capire che ti ho sempre voluta così, come ti ho adesso –

Mi alzai, andai in cucina e mi sedetti al tavolo, a capotavola.
– vieni, siedi ‘ le dissi, e lei si sedette alla mia destra.

– ti voglio, e userò tutti i miei diritti e poteri per averti come voglio io. Posso rimandarti alla miniera per un giorno, o due, o una settimana, o un mese, o più, se non fai quello che ti dico. Lo sai, vero? –
Francesca annuì.

Quando menzionai la miniera, un piccolo tremito la scosse.

– padrone ‘ le dissi all’improvviso
lei mi guardò, senza capire
– padrone – ripetei
poi aggiunsi ‘ voglio sentirtelo dire. Voglio che mi guardi, e mi chiami ‘padrone’ –

Francesca non si mosse.
Mi guardava, seria.
Io attesi.
Dopo pochi secondi, le sue labbra si aprirono e come un soffio lei sussurrò ‘ padrone –

Io annuii.

L’effetto che quella parola, uscita dalle sue labbra, mi fece, quasi mi spaventò. Un senso di felicità, di gioia, di completezza mi fece sorridere, felice e come instupidito.
E il cazzo quasi mi esplose nei pantaloni.

– di nuovo –
– padrone ‘ ripet&egrave lei, questa volta con più scurezza
– di nuovo ‘
– padrone.

– il tuo compito &egrave fare tutto quello che ti dico. Semplicemente questo. Obbedire. Non parlare, non pensare, non chiedere, non discutere. Obbedire. Hai capito? –

Francesca non rispose, ma annuì lenta.

Perché le cose stavano esattamente come avevo letto, sui forum e sui siti.
Dopo la fase della ribellione, quando in un modo o nell’altro la schiava accetta il suo ruolo, il problema, se così si può dire, &egrave quello della convivenza.

Per capirci, ci sono due differenti scuole di pensiero su come debba essere gestita la vita con una schiava.
Da un lato, ci sono quelli che tengono gli schiavi come animali, anzi forse peggio, li sfruttano per i propri bisogni ‘ lavoro, sesso, o tutt’e due ‘ e non hanno alcuna considerazione né interazione con gli schiavi.
La miniera &egrave il tipico esempio di questo approccio. Business oriented, potremmo dire.

Poi ci sono quelli, e sono di solito i ‘privati’, quelli come me, che invece preferiscono avere una sorta di routine quotidiana, di rapporto personale con lo schiavo.
Io avevo intenzione di provare a fare così, con Francesca.
Alle mie condizioni, naturalmente.

– vai a cambiarti ‘ le dissi ‘ minigonna, scarpe col tacco, camicetta. Io vado a farmi la doccia. Hai cinque minuti per essere pronta, poi vieni direttamente in bagno –
mi alzai e me ne andai.

In bagno, mi lavai i denti, lasciando lo spazzolino appoggiato sul lavello e il dentifricio aperto.
Mi lavai la faccia, e mi asciugai con l’asciugamano, che lasciai appoggiato sul lavello.
Mi spogliai, buttando i vestiti a terra.
Entrai nella doccia, e non chiusi il cristallo.
Iniziai a lavarmi, capelli e corpo, lasciando aperti shampoo e bagnoschiuma.
Mentre mi lavavo, l’acqua fuoriusciva e formava una pozza sul pavimento.

In quel momento la porta si aprì e Francesca entrò in bagno.
Indossava una minigonna, non abbastanza mini per i miei gusti, ma insomma, scarpe nere con un tacco medio, camicetta bianca chiusa fino al collo.
Francesca si bloccò, quasi stupita nel vedermi nudo.

– metti a posto ‘ le dissi, mentre continuavo a godermi il flusso d’acqua calda ‘ questo &egrave uno dei tuoi compiti’ mettere a posto quello che io lascio –

Francesca si fermò un momento, poi si avvicinò al lavello, mise lo spazzolino nel bicchiere, chiuse il dentifricio.
– l’asciugamano ‘ dissi, e lei lo prese e lo mise sul suo supporto, ben piegato

– asciuga a terra ‘ dissi allora, indicando la pozza che si era formata davanti alla doccia ‘ non vedi che disastro? –
Francesca si guardò attorno ‘ apri lì ‘ dissi indicando un mobiletto ‘ e prendi il panno giallo ‘
Francesca eseguì, e prese un panno giallo grande più o meno come un foglio A4.
– forza! –
Francesca si piegò sulle ginocchia ‘ no, in ginocchio, se no non finisci più! Tira su l’acqua e strizza il panno nel bidet’ –

Francesca attese un secondo, poi si inginocchiò e cominciò ad asciugare a terra.
Però mentre lei asciugava, io continuavo a farmi la doccia, e l’acqua che buttavo sul pavimento era più di quella che lei riuscisse ad asciugare.
E nel frattempo, gli schizzi d’acqua le finivano addosso, bagnandole la camicetta sulla schiena e la gonna.
Guardarla così, a terra in ginocchio, a fare un lavoro faticoso e sostanzialmente inutile, mi fece venire il cazzo duro.
Guardandola, comincia a massaggiarmelo. Lei alzò gli occhi, mi vide, e un’espressione di rabbia le si dipinse in faccia.
Io la ignorai, e continuai ad accarezzarmi il cazzo.

Poi spensi l’acqua della doccia.
– accappatoio –
Francesca si alzò, prese l’accappatoio, che era a meno di mezzo metro da me, ma che io non avevo fatto nessun movimento per prendere, e me lo porse.
Me lo misi, ma non lo allacciai, lasciando scoperto il cazzo.
Uscendo dalla doccia, feci attenzione a mettere i piedi nella pozza d’acqua e calpestare con i piedi bagnati proprio la parte di pavimento che Francesca aveva appena asciugato.

Davanti allo specchio, mentre lei riprendeva il suo lavoro, mi asciugai, poi mi tolsi l’accappatoio facendolo cadere a terra.
– metti a posto –
Francesca si alzò di nuovo, raccolse l’accappatoio e lo rimise al suo posto.

– muoviti ad asciugare ‘ dissi uscendo senza guardarla.

In camera mi cambiai, indossai boxer, jeans, una tshirt bianca, restai scalzo.
Dopo poco più di due minuti Francesca uscì dal bagno.
Aveva le ginocchia arrossate.

– spogliati ‘ le dissi
lei mi guardò.

Gli occhi le si riempirono di lacrime.
– guardami, e spogliati ‘ ripetei, con voce ferma

Lei mi fissò, e dagli occhi cominciarono a scendere le lacrime, senza singhiozzi, senza pianto, solo lacrime.
E le sue mani andarono al collo, cercando di slacciare i bottoni della camicetta, ma le dita le tremavano e non ci riusciva.

Vederla così, le sue lacrime, il suo sguardo, il tremore delle mani, le ginocchia arrossate, mi colpirono come una scarica elettrica.

La volevo.
La volevo con forza, con rabbia, quasi con dolore.
Sentii il cazzo spingere contro la stoffa pesante dei jeans, e mi trattenni a stento dallo strapparle io stesso i vestiti di dosso.

– spogliati! ‘ abbaiai, con forza.
Lei trasalì, e alla fine riuscì a slacciare un bottone, e poi un altro, e un altro ancora.

Si tolse la camicetta, e il reggiseno, e io rimasi senza fiato nel guardare quel seno piccolo, sodo, con le areole scure e i capezzoli piccoli.

Francesca senza dir nulla, asciugandosi le lacrime dalle guance si tolse anche la gonna e le mutande, (- le scarpe tienile -, le avevo detto) e rimase nuda, davanti a me.

Questa volta non c’era stata la frusta, o la fame o la sete, le minacce, le urla o i pianti.
Questa volta era lì, nuda, davanti a me e quello che dovevo fare era semplicemente godermi ogni singolo istante.

Mi sedetti sul letto, appoggiandomi alla parete.
– gira su te stessa –

Francesca fece un giro su se stessa, poi si fermò di novo di fronte a me.
– continua, senza fermarti. Ma più lentamente –

Francesca girò, e girò, e girò ancora.
Io imparai a memoria ogni curva, ogni angolo, ogni ombra del suo corpo.

Senza alzarmi, e senza farla smettere di girare su se stessa, mi tolsi in un unico movimento jeans e boxer.
Mi alzai, con il cazzo che puntava verso l’alto, e mi avvicinai a lei.

– fermati –

Le andai dietro, e appoggiai il mio cazzo alle sue natiche, che grazie alle scarpe erano quasi all’altezza giusta.

– da quanto non scopi? ‘ le sussurrai, mentre appoggiavo le mani sulle sue spalle e annusavo il suo profumo nell’incavo tra collo e spalla-

Francesca non rispose, deglutì e fece un movimento, una specie di ‘no’ con la testa.
– da quanto non scopi? – ripetei
– io’ – provò a rispondere lei, ma all’improvviso le lacrime, da silenziose che erano state fino a quel momento, diventarono pianto.

Io la strinsi dolcemente.
Sentire quel corpo nudo, rigido, caldo contro il mio, scosso dai singhiozzi contro il mio cazzo, mi fece quasi venire.

– vediamo’ sei stata presa e messa in prigione due’ no quattro settimane fa’ e in questo tempo nessuno ti ha scopato, vero? –
Sempre piangendo, ma rimanendo ferma contro il mio corpo, Francesca scosse la testa.
– e prima? Da quanto non scopavi? –
Francesca pianse ancora più forte e fece per accasciarsi a terra.
Il ricordo della sua vita precedente, probabilmente.
Ma io la sorressi per le spalle ‘ no no no, resta in piedi, no no’ –

– da un mese? Due ? ‘ chiesi, mentre lei scuoteva appena la testa a ogni mia domanda ‘ di più? Tre mesi? Quattro? –

Ancora no, disse la sua testa.
– sei mesi’? Un anno??? –

e finalmente lei annuì appena.
– un anno’ – le sussurrai, accarezzandola gentilmente ‘ &egrave incredibile, vero’? Per un anno non vai a letto con nessuno, perché’ chissà’ vediamo’ avevi troppo da fare’ vero? –

Francesca non rispose, né si mosse, e io proseguii ‘ o anche non c’era nessuno che fosse abbastanza per te, abbastanza bello, ricco, intelligente’ o tutte queste cose insieme’. Vero? ‘
Ancora nessuna risposta, solo singhiozzi e la mia mano destra che la accarezza sulla schiena, adesso
‘ perché c’&egrave tempo, ci sarà tempo per trovare l’uomo giusto, e anche lui dovrà sudare, e meritarsi di venire a letto con una come te’ vero? –

Scossi la testa e mi allontanai appena, mettendomi di fronte a lei, così vicino che potevo sentire il caldo del suo fiato sulla mia bocca, e la punta del mio cazzo sfiorare la sua pancia ‘ e invece, all’improvviso, cambia tutto’ ed eccoti qua –

– a farti scopare da me ‘aggiunsi sorridendo appena ‘ e dimmi’ &egrave sempre da un anno che non lo prendi nel culo’ o da più tempo? –

Francesca trattenne il fiato per un attimo, e mi guardò spaventata, scuotendo la testa ‘ io’. Io non’ io no ‘ riuscì solo a dire, scuotendo la testa

– oh no’ – risposi, sorridendo, stupito ‘ oh no no no’ non mi dire che’ ah bhe, però’ certo’ una come te’ ora che ci penso, era quasi scontato’ una come te non da il culo’ vero? –

Francesca abbassò lo sguardo ‘ guardami! ‘ le dissi, afferrando le sue guance tra le dita della mia mano destra ‘ guardami e rispondi’ non l’hai mai preso nel culo? –

Francesca provò a muovere la testa di lato, ma io la tenevo bloccata ‘ rispondi ‘
– no’ – sussurrò infine ‘ no –

Persi la testa.
Volevo, dovevo scoparle il culo.
Lì, adesso, subito.
Non c’era modo di trattenersi, di aspettare, di prolungare il tutto.
No, la volevo troppo, e l’avrei avuta.

Mi allontanai di un passo, aprii un cassetto e presi un vecchia cintura di cuoio marrone, lunga e morbida.
Infilai la fibbia nel gancio posteriore del collare di Francesca, che mi guardava tremando.

– succhiami il cazzo ‘ le dissi, dando uno strattone verso il basso alla cintura, come fosse un guinzaglio.

Francesca si accucciò davanti a me ‘ in ginocchio ‘ dovetti dirle, e lei obbedì.
Socchiusi gli occhi quando sentii il calore della sua bocca attorno alla cappella.
Contai fino a dieci, poi le dissi ‘ ti conviene insalivarlo ben bene, perché adesso ti inculo e la tua saliva &egrave l’unico lubrificante che userò –

Francesca si bloccò, e si allontanò dal mio cazzo, guardandomi spaventata.
– niente saliva? ‘ chiesi, cattivo ‘ bene, non immaginavo che ti piacesse così tanto farti inculare’ ma vedo che vuoi sentire proprio tutto’ –

E dicendo così con un altro strattone alla cintura la feci alzare, e poi la buttai sul letto.
– a pecora. Qui –

La strattonai e la feci appoggiare a pecora sul letto, le ginocchia sul bordo, le caviglie e i piedi fuori.

Dovrei fermarmi.
Dovrei farlo durare.
Dovrei far in modo che questo momento sia memorabile.
Dovrei farle dire, e fare, e mille altre cose’
E forse questo &egrave quasi uno stupro, e forse non dovrei nemmeno farlo.

Tutto questo, e mille altri pensieri, mi passarono per la mente in meno di un secondo.
E scomparirono, non appena vidi che per un attimo Francesca, forse solo per riflesso inconsapevole, o per paura di essere colpita da me, non so, inarcava leggermente la schiena.

Qual piccolo movimento bastò a farle alzare leggermente il culo verso l’alto e, soprattutto, ad allargarle le natiche quel tanto che bastava per farmi vedere distintamente il suo buco del culo.

Attorno all’ano la pelle era scura, per almeno un centimetro, forse due, e per un momento, senza motivo, mi trovai a pensare che probabilmente Francesca al mare non era solita usare il perizoma perché quell’alone scuro si sarebbe visto.
Le piccole pieghe della pelle si stringevano tese, così strette che non quasi si vedeva nemmeno se ci fosse davvero, un buco là in mezzo.

Mi avvicinai.
Afferrai con la destra la cintura, che pendeva dal collare, me la avvolsi con due giri attorno alla mano.
Tirai leggermente, per far sentire a Francesca che la tenevo stretta.
Lei, istintivamente, alzò la testa ed inarcò di nuovo la schiena.
La tenni così, con la cintura in tensione sul suo collo, e poggiai la mano sinistra sul suo culo.
Con il pollice e l’indice allargai le natiche.
Francesca, forse istintivamente, forse per difendersi, provò a stringere, quasi a chiudere l’accesso al suo culo.
Sorrisi.
Peggio per lei.

Le appoggiai la cappella tra le chiappe.
Lei le contrasse ancora di più.
Io feci forza con le dita della sinistra, e riuscì ad allargarle appena per vedere che sì, il mio cazzo era proprio appoggiato al suo buco del culo.

– Non. Ti. Muovere ‘ scandii.
E spostai la mano sinistra afferrandole i capelli.

Adesso ero appoggiato al suo culo, in piedi accanto al letto, mentre lei era a quattro zampe sul letto, i piedi con le scarpe fuori, il culo in su, e il mio cazzo appoggiato.
Le tenevo stretta per il collare attaccato alla cintura, e le stringevo i capelli, piegandomi un po’ sulla sua schiena.

Sentivo che tremava appena.

Mi fermai.
Posso entrare piano, pensai.
Posso spingere lentamente finch&egrave non sento che cede, e poi scoparla.
Sì, mi dissi, farò così.

E proprio in quel momento lei singhiozzò, e scuotendo appena la testa, per quanto poteva senza che le si strappassero i capelli che tenevo in mano, sussurrò ‘ non farmi male –

‘non farmi male’? ‘non farmi male’???
Quelle parole, non so perché, mi fecero infuriare.
E mi eccitarono ancora di più, se mai possibile.

Io a questa troia le spacco il culo, altro che ‘non farmi male’.

E non fu più Francesca, non fui più io, non fu più dubbi, non fu più senso di colpa, non fu più sentimento, amore, vendetta, cuore.

Furono solo il mio cazzo e la mia rabbia, a decidere cosa fare.
Strinsi ancora più forte i suoi capelli, fino a quando sentii un ‘aaah’.
Rafforzai la presa sulla cintura.
E spinsi con forza il cazzo nel suo culo.

Il primo affondo si fermò dopo poco più di un centimetro.
Non ero riuscito a infilare nemmeno tutta la cappella.
Il suo culo era così stretto e chiuso che mi faceva quasi male.
Sentivo la pelle delle cappella stirarsi contro il buco stretto e quasi ruvido.
Senza uscire, tornai appena indietro e diedi un secondo colpo, più forte ma meno veloce del primo.
E finalmente qualcosa iniziò a cedere.

E poi sentii come se qualcosa dentro il suo culo avesse fatto ‘crack’.
Lei gridò.
Non un singhiozzo, o un lamento. Un grido, un urlo.
Un vero, puro e disperato urlo di dolore.
Cercò di divincolarsi, ma io tirai con forza i capelli verso l’alto e la cintura verso di me.
Mentre tiravo, diedi un’altra spinta col cazzo.
La mia cappella si aprì la strada ed affondai in qualcosa di più morbido e caldo.
L’anello del suo ano stringeva a metà il mio cazzo, adesso, e io arretrai appena e di nuovo spinsi con forza, e di nuovo sentii distintamente i muscoli del suo culo cedere con uno strappo, lasciandomi libero di affondare ancora, ancora più forte.

Francesca gridò ancora, e ancora, e supplicò ‘ basta fermati ti prego fermati ‘

Ma io non mi fermai e finalmente sentii il suo culo ammorbidirsi appena, e allora iniziai davvero a scoparla, con rabbia, con forza, cercando ogni volta di arrivare più in fondo.

A ogni affondo del mio cazzo, Francesca gridava.
Ogni grido era diverso dal precedente, alcuni erano gutturali, altri acuti, altri ancora quasi dei guaiti, come di un animale ferito.

Mi scoprii a cercare di farle male ogni volta che affondavo dentro di lei, per sentire ancora quei lamenti.

La stanza si riempì delle sue grida, che si trasformarono piano piano in singhiozzi, e abbassando lo sguardo vidi il mio cazzo, con delle piccole striature rosse del sangue del culo di Francesca.

Averi voluto venirle in bocca, in faccia, a terra e farle pulire con la lingua, ma quando mi piegai, lasciando i capelli e la cintura, per afferrarle con forza i seni, lei si agitò terrorizzata sotto di me, e il suo culo si contrasse proprio mentre mi spingevo con forza dentro di lei.

Non me ne accorsi quasi, e venni, con rabbia, urlando, spingendo il cazzo dentro di lei, aggrappandomi ai suoi fianchi, come se volessi arrivarle nello stomaco.

Quando finalmente estrassi il cazzo, il suo culo si contrasse lentamente, e l’aria si riempì dell’odore di sperma e merda.

Francesca si accasciò sul letto, chiudendosi in posizione fetale.

Mi scoprii arrabbiato.
Avrei voluto che fosse diverso.
Avevo in mente molte altre cose, avevo sognato questo momento mille volte e l’avevo sognato diverso.
Mi sentivo quasi derubato.

Mi mossi accanto al letto, presi Francesca per i capelli, le alzai la faccia.
Lei mi guardò, terrorizzata.

– pulisci. Lecca. Succhia ‘ le dissi con cattiveria, mentre con la mano le agitavo il cazzo ancora semirigido davanti alla faccia.

Francesca forse sentì l’odore del mio cazzo appena estratto dal suo culo, o magari fu solo un istintivo moto di ribellione, ma gridò ‘ no! ‘ e girò la faccia.

Non dissi nulla.
Una rabbia fredda mi travolse.
Era durato tutto troppo poco, non mi ero goduto ogni singolo secondo, come avrei voluto, e adesso lei si ribellava.

La afferrai per il collare.
Con tutta la forza la strattonai e trascinai.

Francesca urlò ancora, questa volta di paura.
Io non la guardai, continuai a camminare trascinandola.
Andavo veloce, e lei non riusciva a mettersi in piedi, quindi arrancava a terra.
Entrai nella stanza dei ganci.
Appena se ne accorse, Francesca fece per ribellarsi.
Ma io feci tutto molto in fretta, e in pochi secondi Francesca fu di nuovo bloccata, attaccata alla parete con il cavo fissato al suo collare.

– nuova regola ‘ le dissi infine, con rabbia, guardandola dall’alto in basso.

– per avere cibo o acqua, devi prima ingerire la mia sborra. Tornerò domani. Se vorrai acqua o cibo, dovrai convincermi a darti un po’ di sborra da ingoiare –

E me ne andai, sbattendo la porta e spegnendo la luce, lasciandola al buio.

Mi misi sul divano, chiusi gli e ripensai con calma a tutto quello che era successo nei minuti precedenti.

E mi feci una delle più belle seghe della mia vita.
Il problema di avere uno schiavo ‘ o una schiava, come nel caso mio e di Francesca ‘ sta nelle regole.
O meglio, nella mancanza di regole.
Pensateci.

Nella nostra vita, ogni relazione che abbiamo con gli altri, dalle più complesse come la famiglia o il lavoro, a quelle più semplici e banali come il traffico cittadino o anche solo recarsi a fare la spesa, &egrave regolata da una serie di regole.
Alcune di queste regole sono scritte, la maggior parte sono una sorta di convenzione non scritta che, però, permette di vivere e convivere in una società.

Ecco, con una schiava il problema &egrave proprio che non ci sono regole.

A parte il divieto di ammazzare la schiava, o di causarle dei danni permanenti, il rapporto tra padrone e schiava non ha nessuna regola.

O meglio, le regole sono necessarie, ma non ne esistono, al momento in cui nasce il rapporto.
&egrave il padrone che decide le regole, e le applica giorno dopo giorno, quasi insegnando alla schiava, e anche a se stesso, come interpretarle.

Quindi anche per noi era giunto il momento di chiarire le regole che avrebbero governato la nostra quotidianità.
Perché &egrave evidente che, dopo i primi giorni ogni cosa, anche una cosa folle come questa, diventa vita quotidiana.

***

Al mattino, mi alzai con calma.
Andai in bagno, mi feci una doccia, mi vestii in maniera sportiva e comoda, e feci una leggera colazione leggendo il giornale sul tablet, mentre lo strano mix musicale di Yussef Kamaal suonava in sottofondo.

Poi presi la mia mug, la riempii di caff&egrave americano fumante, e mi recai nella stanza di Francesca.
Prima di aprire la porta, presi una sedia e una piccola borsa.

Entrando, la prima cosa che notai fu l’odore.
Odore di chiuso, di sudore, di fatica.
Francesca era nuda, accovacciata a terra, i lunghi capelli scompigliati le coprivano la faccia.

Dormiva, ma si svegliò subito sentendo la porta aprirsi.
Istintivamente alzò le mani, quasi aggrappandosi al cavo che legava il collare alla parete, e si mise seduta, spalle al muro, in posizione di difesa.

Io misi la sedia appena dietro il segno a terra che indicava il punto oltre il quale Francesca non sarebbe potuta arrivare.
Sempre senza dire nulla, mi sedetti.
La guardai, soffiando piano sulla mug e aspirando l’aroma amaro del caff&egrave.
Poi le presi un minuscolo sorso, tenendolo in bocca con le labbra aperte e aspirando per non scottarmi.

– &egrave una miscela che mi faccio fare apposta dalla torrefazione’ – le dissi ‘ sai, siccome lo bevo amaro, mi piace che abbia un sapore non troppo acido –

Francesca mi guarda, stupita.
Dopo quello che &egrave successo ieri sera, certo non si aspettava una conversazione normale, quasi banale.

– come stai? ‘ le chiesi

Lei alzò lo sguardo e mi fissò.
Io non mi feci, nulla, se non soffiare ancora sul caff&egrave e prenderne un altro sorso.

– male ‘ mi rispose finalmente ‘ ho freddo. Ho fame, ho sete. E mi fa male’ – non finì la frase, ma immaginai che intendesse il culo, dopo quello che era successo la sera prima.
– e devo andare in bagno – aggiunse

Io annuii, presi un altro sorso di caff&egrave e risposi ‘ va bene. Ma ce la fai a resistere ancora un po’? –
Lei non rispose e io lo presi come un sì.
– dobbiamo parlare, e voglio farlo adesso. Va bene? –
Di nuovo silenzio.

– così non può funzionare ‘ iniziai, mentre lei stringeva le braccia al petto ‘ hai freddo? ‘ e lei annuì
Mi alzai, uscii e tornai con una coperta, che le gettai.
Lei se la mise intorno alle spalle e sul petto.

Vederla così, nuda, con una coperta a coprirle spalle e seni, seduta con le gambe rannicchiate che mi lasciavano intuire la figa nuda appoggiata sul pavimento, mi fece subito venire voglia di smettere di parlare e di scoparla di nuovo, lì per terra.
Ma mi trattenni.

– così non può funzionare ‘ ripresi ‘ e sai perché? Perché ieri sera ho finalmente capito una cosa che avevo forse intuito, ma non mi era chiara –
La fissai intensamente, ma dovetti distogliere lo sguardo, perché sentivo la voglia di lei crescere.

– ho capito che mi piace farti male ‘ le dissi
Francesca mi fissò, con i suoi meravigliosi occhi scuri, grandi e profondi.
– &egrave la verità. &egrave vero che mi piaci, &egrave vero che provo una speciale attrazione per te, ed &egrave certamente vero che sei una delle donne più attraenti e sexy che abbia mai conosciuto’ –

feci una pausa, poi la guardai e continuai ‘ ma ieri sera ho capito che farti male &egrave la cosa che mi piace di più –

Rimanemmo in silenzio.

Io fermo, seduto, con la mia tazza in mano.
Lei per terra, nuda, avvolta nella sua coperta.
Io la fissavo, lei mi fissava.

Poi lei parlò – sei’ sei un pazzo’ malato’ –
Io annuii ‘ forse. Non lo so. Però no, non credo. Esiste da anni il sadismo, e molti studi dicono che anche in maniera latente &egrave presente praticamente in tutti noi’ pensa agli uomini che quando ti hanno scopato ti hanno magari dato una sculacciata, o tirato i capelli o bloccato i polsi sopra la testa o dietro la schiena’ –
– non &egrave la stessa cosa ‘ mi interruppe lei
– e invece sì’ sei sicura che se quegli uomini si fossero trovati nella mia posizione, cio&egrave quella di poterti fare tutto quello che volevano, si sarebbero limitati a una sculacciata? Io non credo –

Francesca fece per rispondere, ma la interruppi ‘ e poi non &egrave così importante, perché qui si tratta di noi, di me e di te. E ti sto dicendo che a me piace farti male. Mi piace il tuo dolore, mi eccita. Mi eccita il tuo dolore fisico, e anche quello psicologico –

– e quindi? ‘ mi chiese lei, fissandomi ‘ cosa posso farci io? –
– tu, insieme a me, devi trovare un modo per gestire questa’ cosa –

Mi alzai.
In piedi, davanti a lei seduta a terra, seminuda.

– quindi ti farò male, e mi divertirò a farlo. Ma tu dovari aiutarmi, dovremo trovare un equilibrio tra la nostra quotidianità, la mia e la tua vita, la mia voglia di fare del sesso con te e’ beh, diciamo la mia voglia di vederti piangere, di tanto in tanto. Possiamo provarci insieme per favore? –

Francesca non rispose.
Poi lentamente si alzò in piedi, avvolgendo la coperta attorno al petto, come si fa con l’asciugamano dopo una doccia, e la coperta le arrivava appena sotto l’inguine.

– adesso posso andare in bagno? ‘ mi chiese
Io feci un passo in avanti, avvicinandomi.
Il suo odore era più forte, così da vicino.
Feci un altro passo, e mi misi di fronte a lei.
Senza dire nulla, presi un lembo della coperta e gliela sfilai.
Lei rimase ferma, in piedi davanti a me, nuda.
Sempre senza dire nulla, mossi la mia mano e le appoggiai il palmo sulla figa, facendo un leggera pressione con il dito medio.
Francesca ebbe un sussulto, ma rimase ferma.
Deglutì, e mi guardò.

– per favore – dissi
– adesso posso andare in bagno, per favore? ‘ mi chiese di nuovo
– sì ‘ risposi ‘ e nell’armadietto troverai il necessario: sento che stanno ricrescendo i peli, datti una sistemata qui ‘ aggiunsi, muovendo leggermente la mano, facendole sentire il leggero ruvido dei peli attorno alla figa ‘ attorno al culo, poi le ascelle e tutto il resto’ –

Tolsi la mano, e liberai il collare dal cavo.
Francesca non mi guardò né disse nulla, ma si avviò verso il bagno.
Io le guardai il culo, nudo.

Poco dopo bussai alla porta del bagno.
Non c’era chiave, e avrei potuto semplicemente entrare, ma bussai.
– sì? ‘ rispose la voce di Francesca
– quando hai finito, vai in camera, vestiti e poi vieni da me. Non metterci troppo –

Dopo una mezz’ora ero in soggiorno, sul divano, a leggere un libro sulla guerra dei sette anni (quella della seconda metà del 1700 per il possesso della Slesia, per intenderci; d’altronde i gusti un po’ particolari li ho anche sulle letture, e non solo in fatto di sesso’), quando finalmente arrivò Francesca.

Pantalone nero, morbido, camicetta nera, sneaker bianche ai piedi.
– togli quelle scarpe e metti qualcosa con il tacco alto ‘ le dissi, riprendendo subito a leggere ‘ questa &egrave una regola da seguire sempre ‘ aggiunsi, mentre lei senza dir nulla si allontanava.

Tornò pochi istanti dopo, con delle scarpe scure con il tacco alto, aperte davanti e chiuse con un laccetto sotto la caviglia.

– siediti ‘ le dissi, indicando la poltrona ‘ hai pensato a quello che ti ho detto? –

un cenno di assenso.
– e cosa ne pensi? A parte che sono un pazzo, maniaco e malato, che l’hai già detto e non vorrei tornarci sopra –

Francesca si appoggiò allo schienale della poltrona e accavallò le gambe.
Non c’&egrave nulla da fare, bastò quel gesto a far emergere immediatamente l’immagine della donna sicura, di successo, conscia della propria bellezza del proprio fascino.
E, di conseguenza, a farmi venire subito voglia di lei.

Francesca sospirò, mi fissò e disse ‘ cosa posso pensare? Che siccome puoi fare tutto quello che vuoi, come ieri sera, quello che penso io non vale nulla ‘
– in un certo senso hai ragione, ma quello che voglio evitare &egrave proprio che si ripetano momenti come quello’ –
Francesca mi guardò ‘ e come pensi di fare? ‘
– con delle regole. Ci saranno delle regole, e tu saprai che se le seguirai non succederà nulla di, diciamo così, eccessivo. Rispettando le regole, tu eviterai le cose peggiori, e io avrò comunque modo di fare quello che mi piace –
– mi spiace, non capisco ‘
– lo so, non &egrave molto chiaro, e nemmeno io sono sicuro di come far funzionare la cosa nella realtà, ma ho un’idea ben chiara di quale sia il punto di partenza ‘
– e qual &egrave? ‘ chiese Francesca
– &egrave semplice. Io do gli ordini, e tu obbedisci ‘
– tutto qui? ‘
– tutto qui. Però pensaci bene: finch&egrave tu obbedisci, sei più o meno sicura che non ti accadrà nulla. D’altra parte io, quando avessi voglia di fare qualcosa, diciamo così, di particolare, te lo ordinerò: se lo farai, sarò felice; se non lo farai, ti punirò e poi mi prenderò lo stesso ciò che voglio, e sarò felice lo stesso, anche se meno sereno. Che ne dici? ‘

Francesca mi guardò.
Rimase in silenzio, seduta.
Io la osservai, e come sempre la trovai bellissima.

– Ma non pensare che sia facile’ – aggiunsi
Francesca mi guardò e accennò un sorriso triste, e finalmente parlò, quasi in un sussurro ‘ dopo quello che mi &egrave successo in queste settimane, nemmeno respirare mi può più sembrare facile’ -.

***

Avrei potuto, e voluto, riprendere immediatamente i miei giochi.
Avrei voluto dare immediatamente sfogo ai miei desideri, liberare quella specie di demone che sentivo agitarsi dentro di me, in quel luogo speciale che sta a metà tra il cuore e il cazzo.

Ma avevo anche pensato che in quel momento, dovevo giocare con le emozioni di Francesca.
Era il momento di farle sembrare, sentire, di essere entrata in una routine, in un’abitudine certo non piacevole, ma accettabile.
Volevo che credesse che alla fine, se si fosse comportata decentemente, avrebbe potuto in qualche modo prendere un certo controllo sulla situazione.

Così mi alzai, mi stirai sbadigliando e dissi ‘ io devo uscire, per lavoro. Starò fuori fino all’ora di pranzo. Quando torno, voglio trovare apparecchiato per me, il cibo pronto, in caldo, e la ciotola per terra per te’ –

Lei mi guardò, percepii un fremito quando le dissi della ciotola, ma non fece commenti.
– per oggi possiamo anche saltare la regola che ho stabilito ieri’ quella per la quale non puoi mangiare se prima non… vabb&egrave, insomma, se hai fame fai pure colazione –

Andai in camera, mi preparai, mi misi un abito grigio, leggero, scarpe nere a coda di rondine, camicia azzurra e cravatta scura.
Preso il cappotto leggero, e uscendo mi girai e le dissi, quasi per caso ‘ ah, a proposito’ vedi quelle piccolissime scatoline bianche negli angoli sul soffitto? Ecco, sono telecamere. Tutto quello che fai quando non ci sono lo posso vedere in diretta, e poi &egrave registrato’solo perché tu lo sappia –

In realtà le telecamere erano quelle dell’antifurto, e la qualità non era niente di speciale, ma lei non lo sapeva.
Le dissi così solo per farla stare attenta e non farle venire in mente strane idee.

Tornai a casa dopo poche ore.
– sono a casa!! ‘ urlai, felice, mentre chiudevo la porta dietro di me.
Mi tolsi le scarpe e le lasciai in mezzo al soggiorno, e feci lo stesso con cappotto, giacca e cravatta cravatta.

Francesca arrivò veloce dalla cucina.
– raccogli e metti via ‘ ordinai, e lei ubbidì.

Mi lavai le mani e sedetti a tavola.
Era apparecchiato per uno.
Mentre lei metteva a posto le mie cose, notai a terra una ciotola d’acciaio e un’altra ciotola, più bassa, bianca.
Sorrisi.

Francesca arrivò subito dopo.
Non era mai stata una grande cuoca, troppo impegnata, troppo donna in carriera, e cucinare era troppo da donna di casa, per lei.
Ma si era impegnata, e la pasta al pomodoro che mi mise nel piatto non era male.
Francesca rimase in piedi.
Io la guardai, guardai quello che avevo nel piatto e la sua ciotola, a terra.

– prendi un piatto, e siediti ‘ le dissi.
Francesca senza dir nulla apparecchiò e si sedette.
– mangia –
E iniziò a mangiare.

Fu un pranzo molto strano, in silenzio, io che leggevo un libro sul tablet ignorandola, mentre anche lei mangiava in silenzio.

Finito di mangiare, mi alzai.
– sistema tutto, qui, poi portami un caff&egrave –

Pochi minuti dopo, Francesca mi raggiunse in soggiorno, con un vassoio con il caff&egrave.
Lei restò in piedi, ferma, mentre io sorseggiavo il caff&egrave.
– buono – dissi, e le allungai la tazzina che riportò in cucina.

Quando tornò, la guardai e dissi ‘ adesso ci vuole un po’ di sesso, che ne dici? ‘
Francesca contrasse leggermente le labbra, ma non disse nulla.
– spogliati –

Lei ubbidì.
– tieni le scarpe –

Nuda, in piedi davanti a me, alla luce del primo pomeriggio che entrava attraverso le tende chiare del soggiorno, la guardai e di nuovo pensai che fosse la donna più bella che avessi mai visto.

Di nuovo, mi trovai a immaginare di colpirla, scoparla con rabbia, sentirla gemere e piangere, lasciare i segni rossi dei colpi sui suoi seni, sui glutei, dietro le cosce, sulla schiena.

Sentii il cazzo farsi rigido nei pantaloni, e mi fermai un momento, per farmi forza e proseguire come avevo deciso.

– vieni qui ‘ e lei si avvicinò
le poggiai la mano all’interno delle cosce, e poi lentamente sulla figa.
Francesca ebbe un fremito, ma non si ritrasse.

– brava’ – sussurrai ‘ da ora in poi, ogni volta che ti tocco la figa, devi sospirare di piacere –

Allontanai la mano, poi di nuovo la accarezzai, e la guardai negli occhi; Francesca socchiuse gli occhi ed emise un suono soffocato, a metà tra un sospiro e un gemito.
– più forte ‘ e di nuovo la accarezzai, questa volta muovendo appena la mano, e lei aprì leggermente la bocca e fece una specie di ‘ooooh’, leggero ma convincente.
– così va già meglio ‘ dissi ‘ fammi sentire come vai avanti ‘ e così dicendo continuai ad accarezzarla muovendo la mano e spingendo appena il medio contro le sue labbra, strette e chiuse.

I suoi sospiri si fecero più intensi, i gemiti più forti.
Fingeva, naturalmente: obbediva a quello che le avevo ordinato.
Le sue labbra della figa erano strette e chiuse, e quando spinsi appena un dito sentii che era rigida e secca, quindi era tutta una finzione. Apprezzai ancor di più la sua devozione.

– in ginocchio ‘ ordinai, e lei eseguì.
– toglimi tutto ‘ dissi, indicando i pantaloni, e lei veloce ed efficace mi tolse pantaloni, calze e mutande.

Rimasi nudo, solo con la camicia, con il cazzo dritto e la cappella scura.
Francesca mi guardò.
– succhia ‘ le dissi, e appoggiai la testa allo schienale della poltrona

Francesca si chinò sul mio cazzo, e lo prese in bocca, e cominciò a succhiare, accarezzandomi con una mano l’asta e con l’altra le palle.

– sei brava ‘ le dissi, ed era vero
lei non rispose, e continuò.
– guardami ‘ le ordinai, e lei alzò gli occhi ‘ quando mi succhi il cazzo, mi devi sempre guardare negli occhi – ordinai

e mi godetti quel lungo pompino.
Di quando in quando piegavo la testa all’indietro e chiudevo gli occhi, per poi riaprirli e vedere Francesca che mi guardava, e mi perdevo godendomi la vista del mio cazzo che affondava tra le sue labbra e i suoi occhi, che non riuscivano a mascherare del tutto la rabbia che provava.

– fammi venire ‘ le dissi, e lei si impegnò ancora di più.
Ma io sono uno di quegli uomini che fanno fatica a venire con un pompino, e per quanto si impegnasse, nemmeno Francesca ci riusciva.
A un certo punto, sentii che appoggiava il dito medio sul il mio ano, accarezzandolo lentamente, e poi si fermò, provando appena a spingere: senza smettere di fare su e giù col mio cazzo in bocca mi guardò, come per fare una domanda.

Io sorrisi e dissi ‘ oh sì, puoi farlo’ ma devi leccarlo per bene, prima –
Francesca allora smise di succhiarmi il cazzo e vidi che si infilava l’indice in bocca.
– non intendevo il dito ‘ le dissi

Lei si bloccò.
Senza darle tempo di dire o fare nulla, le misi una mano sulla testa e la guidai sotto il mio cazzo, sotto le mie palle, mentre mi sdraiavo un po’, spingendo in avanti il bacino.

– leccami, leccami tutto, spingi dentro la lingua –
quando Francesca esitò, bastò tirarle appena i capelli e lei cominciò a fare quello che le avevo ordinato.
La sua lingua era calda, morbida e curiosamente ruvida sul mio buco del culo.
Quando spinsi con la mano la sua testa verso il basso, sentii la sua lingua lentamente infilarsi nel mio culo, prima avanti e indietro e poi, dopo un’altra spinta alla sua testa, iniziò a leccarmi l’interno dell’ano in modo circolare.

Con la destra mi accarezzai il cazzo, mentre con la sinistra guidavo la sua lingua.
Quando sentii di essere vicino a venire, la tirai su, le infila di nuovo il cazzo in bocca e sospirai ‘ fammi venire, adesso –

Francesca si impegnò a succhiarmi il cazzo e, guardandomi negli occhi, appoggiò l’indice al mio culo pieno della sua saliva e lentamente lo spinse dentro.

Venni, gridando, e afferrandole la testa e tenendo il cazzo nella sua bocca, perché volevo venirle in bocca e non in gola.
– succhia –
le dissi, e Francesca succhiò e ingoiò.

– pulisci, piano piano ‘ sospirai poi, lasciandomi andare sulla poltrona, e Francesca mi succhiò dolcemente il cazzo, leccandomi piano piano finch&egrave non la allontanai.

– devo uscire di nuovo ‘ sospirai dopo qualche minuto ‘ tornerò per cena.

Mentre uscivo, mi chiesi se sarei riuscito a trattenermi anche alla sera, facendo il bravo come avevo fatto prima.

Passai del tempo online.
Lo devo ammettere, cercavo un modo per rimandare.
Rimandare il momento in cui avrei dovuto far diventare la nostra, come chiamarla, ‘relazione’? stabile, abitudinaria, forse, paradossalmente, ‘normale’.
Avevo paura di non sapere gestire la quotidianità tra me e Francesca, di non riuscire a convivere, da padrone, con una schiava.

E quindi via, online, alla ricerca di un modo per sfuggire da un tran tran che non ero ancora pronto a gestire.
Alla ricerca di qualcosa da fare con una schiava, qualcosa che fosse speciale, che riempisse di novità e stupore un’altra giornata.

E alla fine, in mezzo al mare magnum della rete, delle mille bizzarrie, tra la violenza estrema da un lato, e i gruppi di coloro che alla fine si erano innamorati della propria schiava o del proprio schiavo dall’altro, passando una perversione dopo l’altra, scuotendo la testa e sorridendo di fronte alle mille follie e fantasie della mente umana, mi fermai; perché avevo trovato che c’era qualcuno che condivideva una mia piccola e segreta fantasia, e ne aveva anche fatto un lavoro.

Il mondo della schiavitù, una sempre nuove opportunità da cogliere’

– oggi usciamo ‘ le dissi.
Dal giorno dell’asta, Francesca non era mai uscita.
Mi guardò

– vestiti normale, sportiva, e metti scarpe da ginnastica e calze comode, come se dovessi camminare un po’ –
Francesca mi guardò, dubbiosa, ma io non aggiunsi altro.

In macchina, mentre guidavo, Francesca sedeva accanto a me.
La ignorai, ascoltando la musica, cantando, facendo diverse telefonate, parlando liberamente e comportandomi come se lei non ci fosse.
In questo, almeno, stavo diventando bravo.

Lasciammo la città, e guidai per la campagna, passando per diversi piccoli paesi, prima di prendere una piccola strada e inoltrarmi per quasi un’ora in una zona collinare che sembrava disabitata.

Finalmente arrivammo a un cancello, che si apriva su una recinzione verde scuro.
Non c’erano indicazioni, ma quando dissi il mio nome a un citofono con una telecamera, il cancello si aprì e una voce metallica disse ‘segua la strada fino alla villa’.

La villa era grande, elegante senza essere né imponente né lussuosa.
La tipica costruzione di campagna, sulla cima di una piccola collina, circondata da prati, alberi, campagna, con un grande corpo centrale e dietro, come vidi mentre parcheggiavo sulla ghiaia, altri edifici di servizio, meno eleganti e più funzionali.

Entrammo.
Francesca mi seguiva.
Avevo pensato di metterle il guinzaglio, ma decisi di no.

Ci accolse una giovane segretaria.
Mi fece accomodare in una bella sala, dove sedetti su una poltrona, davanti a un tavolino.
La ragazza mi offrì del caff&egrave e mi informò che in pochi minuti ‘la signora’ sarebbe arrivata.
Non si rivolse né guardò mai Francesca.
Che rimase ferma, in piedi, accanto alla poltrona.

Nei pochi minuti che seguirono, io scorsi distrattamente le notifiche sul telefono, senza parlare o guardare Francesca che, lo sentivo, cercava di capire dove fossimo, e cosa la aspettasse.
Almeno, questo luogo e l’accoglienza non avevano nulla a che fare con la miniera, immaginai che stesse pensando.

La porta si aprì e io mi alzai.
Per prima entrò una signora, sui quarant’anni, distinta e sorridente.
Dietro di lei, un uomo di poco più giovane, con pantaloni di velluto e una giacca da lavoro.

Una volta seduti, la signora disse ‘ allora, &egrave la sua prima volta, vero? –
Io annuii
– io mi occupo dell’amministrazione ‘ mi spiegò ‘ mentre il mio collega ‘ disse, indicando l’uomo che sorrise ‘ &egrave il manager delle attività –
– c’&egrave qualche domanda che vuol farmi? ‘ mi chiese lui, cortese
– sì – risposi io – ma vorrei che lei non fosse presente ‘ aggiunsi, indicando Francesca
– nessun problema ‘ sorrise la signora, che si alzò e socchiuse la porta, chiamando la ragazza che ci aveva accolti ‘ portala fuori ‘ disse, e la ragazza prese Francesca per un braccio e la condusse fuori.

– allora, cosa voleva sapere? ‘ mi chiese lui, e io gli feci tutte le domande e lui mi diede tutte le risposte.
Poi estrasse da una cartella alcune carte ‘ ecco una mappa, con tutti i dettagli. Questa in rosso &egrave la zona che le &egrave stata riservata, poiché come da sua richiesta per questa prima volta non vuole altre persone all’interno di quello che noi chiamiamo il ‘perimetro’. Questo ‘ mi disse, consegnandomi una specie di piccolo telecomando ‘ &egrave per qualsiasi emergenza: lei schiacci il bottone rosso e in massimo cinque minuti un nostro team sarà da lei. Lei ha riservato il perimetro per l’intera giornata, quindi in teoria può restare fino alle dodici di domani, anche se noi, soprattutto in questa stagione, sconsigliamo di rientrare dopo il tramonto –

Io ringraziai, lui si alzò e disse ‘ bene, se non ha altre domande, possiamo andare: la accompagno fino all’ingresso, poi decida lei se vuole un aiuto o preferisce fare da solo’ –
– vorrei provare da solo – risposi
– ottimo ‘ sorrise, e mi fece cenno con la mano ‘ mi segua –

Uscimmo dalla stanza, e trovammo Francesca in piedi, in mezzo al corridoio.
Vederla lì, lasciata ad aspettare, senza sapere cosa le aspettasse e senza che nessuno si interessasse a lei, mi eccitò: la paura e l’umiliazione nei suoi occhi mi fecero quasi fermare.
Poi mi ripresi, – vieni ‘ le dissi, senza fermarmi, e seguimmo l’uomo che intanto teneva aperta la porta.

Dietro la villa arrivammo a una costruzione a un solo piano, di mattoni rossi, con il tetto spiovente.
La costruzione si allungava per molte decine di metri, e sul lato che potevamo vedere non c’erano finestre.

L’uomo aprì una piccola porta di legno massiccio, che si socchiuse su un ambiente scuro.
– prego ‘disse ‘ dentro &egrave tutto pronto, come ha richiesto. In ogni caso, se ha bisogno, basta che schiacci il tasto azzurro e saremo da lei. Buon divertimento –

Mi diede la mano e, senza degnare Francesca di uno sguardo, si allontanò.

Io e lei restammo lì, fermi davanti alla porta, mentre i passi dell’uomo si allontanavano scricchiolando sulla ghiaia.

Poi mi voltai, spinsi la maniglia della porta e le dissi ‘ vieni, andiamo ‘ ed entrai.

Appena entrati, la luce si accese automaticamente.
Chiusi la porta.
Eravamo in una sala, alte pareti in legno grezzo, una porta sull’altro lato.
Mossi un passo, e notai la paglia che ricopriva il pavimento.
Sorrisi.

– spogliati – dissi

Francesca rimase un attimo interdetta, facendo correre lo sguardo sul pavimento e poi sulle pareti, dove erano appesi in ordine diversi oggetti, che non riusciva a identificare.

– spogliati ‘ ripetei, e lei si riscosse.
Lentamente si abbassò per togliere le scarpe ‘ togli tutto, poi rimetti calze e scarpe ‘
– cos’&egrave questo posto? Cosa vuoi farmi? –
Io non risposi e mentre lei si spogliava mi avvicinai al muro e esaminai tutti gli oggetti appesi.
Man mano che li toccavo, li guardavo e ne capivo l’uso e lo scopo, e diventavo più impaziente: non vedevo l’ora di provarli, anzi, di farli provare a Francesca.

Mi girai.
Lei era lì, in piedi, nuda, con le corte calze di cotone bianco e le sneakers.
Bellissima.

– vieni –
quando fu vicino a me, presi un oggetto dal supporto del muro.
Una serie di cinghie di cuoio nero, anelli di metallo, altre parti sempre nere ma rigide, fibbie e lucchetti che tintinnarono.
Francesca fece un passo indietro.

– qui ‘ le intimai
lei guardò spaventata la matassa di cinghie e lacci che tenevo in mano, poi fece un piccolo passo e si mise di fronte a me.

– vediamo’ – mormorai tra me e me, mettendomi dietro di lei e esaminando l’oggetto ‘ ah’ ecco’ si dovrebbe cominciare da’ questo’ –
e così dicendo le passai sulla testa alcune cinghie nere, che si appoggiarono sul suo petto.

Sempre stando dietro di lei, liberai dalle cinghie un piccolo cilindro nero, lungo circa una spanna, e largo non più di un paio di centimetri, ricoperto di gomma nera e morbida.
Lo alzai fino a che fu davanti alle labbra di Francesca ‘ apri ‘ le dissi, e appena aprì la bocca appoggiai il cilindro tra i suoi denti, orizzontale ‘ stringi ‘ dissi, e lei lo tenne in bocca, stretto, come se fosse un osso, o un bastone per un cane.

Presi le cinghie, e gliele passai dietro la testa, sulla nuca e all’attaccatura tra collo e testa , e poi fissai l’estremità delle cinghie all’estremità del cilindro stretto tra i denti di Francesca.
Infine strinsi e chiusi le piccole fibbie, poi mi misi davanti a lei.

– perfetto ‘ mormorai, fissando Francesca che, come un animale, aveva un morso tra i denti.

Presi altri oggetti dal muro ‘ seguimi ‘ dissi, e uscii dalla stanza attraverso la porta che stava sul lato opposto.

Entrammo in un largo corridoio.
Quando Francesca vide cosa c’era nel centro del corridoio si bloccò.

– bello, eh? ‘ le chiesi
– mmmhm ‘ rispose lei, scuotendo la testa e cercando di parlare attraverso il morso.

– un calesse, un sulky’ insomma, non so come si chiami davvero questo coso’ ma oggi io e te ci faremo una lunga passeggiata’ solo che io sarò comodamente seduto, e tu invece sarai il mio’ cavallo? Cavalla? Animale da tiro? Mah, lasciamo perdere le parole, e vediamo di sbrigarci –

mi avvicinai a Francesca, che istintivamente fece per ritrarsi.
Con un movimento veloce la afferrai per il collare, e la trascinai quasi al calesse.
– ferma qui, e non farmi arrabbiare, non ti conviene ‘ usai un tono duro, minaccioso, e Francesca si bloccò. I suoi occhi seguivano ogni mio movimento, ma non si mosse.

La misi tra le stanghe del calesse.
Per prima cosa le feci poggiare gomiti e polsi alle stanghe del calesse, bloccando poi gomiti e polsi con delle spesse cinghie di cuoio.
Poi fissai una barra di metallo tra le stanghe, davanti ai fianchi di Francesca: adesso lei era bloccata dagli avambracci fissati alle stanghe, ma con una sbarra di metallo che le teneva il ventre relativamente lontano dal punto in cui erano bloccati gli avambracci.

In poche parole, Francesca era bloccata in una posizione che non le permetteva di raddrizzare la schiena, restando cio&egrave piegata in avanti.

Poi fissai altre due cinghie dal suo collare alle estremità delle stanghe: in questo modo, Francesca oltre a non poter tenere la schiena dritta, non poteva quasi nemmeno muoversi tra le due stanghe.

Presi poi due paraocchi, che le fissai sulla fronte: avvicinai tra loro i due pezzi di cuoio neri davanti ai suoi occhi, così che potesse vedere solo una piccola porzione di ciò che le era dritto davanti.

Infine, attaccai due lunghe briglie alle due estremità del morso, e portai le briglie fino al sedile del calesse.

Poi, finalmente, mi allontanai di qualche passo e guardai.

Francesca era nuda, tra le stanghe del calesse.
Le calze bianche e le scarpe da ginnastica creavano un contrasto dissonante con il morso che le tendeva le labbra, i paraocchi che le occludevano la visione periferica, la posizione innaturale che la teneva piegata in avanti e le redini che pendevano, flosce, dal suo morso fino al sedile.

– bellissima’ – mormorai ‘ manca solo’ – e infilai una mano in tasca.

Mi misi davanti a lei.
Francesca mi guardò.
Per la prima volta fui sicuro di percepire perfettamente cosa ci fosse nel suo sguardo: solo due sentimenti, purissimi e assoluti.

Paura, e odio.

E tutti e due questi sentimenti mi eccitarono, facendomi rizzare il cazzo nei pantaloni, e mi fecero venire voglia di farle male.
Una voglia così violenta che dovetti chiudere gli occhi e respirare a fondo, per trattenermi.

Poi aprii la mano, e le mostrai cosa avevo preso.

– una qui’ – dissi, mentre le fissavo la piccola campanella al collare.
Un ‘din din’ accompagnò l’operazione
– e le altre due’ indovina dove? ‘ le dissi, sorridendo

Francesca non fece in tempo a fare un movimento che la prima campanellina era fissata, con una morsetto di metallo, al suo capezzolo destro.

– mmmhm!! Mmmmhm!! ‘ fece lei, agitando il petto nel tentativo di far cadere il morsetto, e più si agitava, più l’argentino ‘din din din’ riempiva il corridoio.

– ferma ‘ le dissi di nuovo, afferrando una delle cinghie che bloccavano il morso nella sua bocca.
Con quel semplice movimento, il morso si spinse di più dentro le sue guance, causandole un forte dolore, e lei si bloccò.
– adesso metto l’altra ‘ dissi, scuotendo leggermente la testa di Francesca tirando le cinghie ‘ puoi lamentarti, ma non muoverti, capito? –

Francesca mi guardò: se avesse potuto, mi avrebbe insultato, o sputato addosso, o chissà cosa. Ma non poteva.
– capito? ‘ ripetei, con un altro strattone
– mmmmhm ‘ annuì finalmente lei

lentamente, presi la terza campanella.
Con la mano sinistra, afferrai tra pollice e indice il suo capezzolo, e lo strinsi e tirai e torsi fino a farlo diventare duro e scuro.
Francesca chiuse gli occhi.
Allargai il morsetto, e lo poggiai al capezzolo.
Poi fissai Francesca in viso, anche se aveva gli occhi chiusi.
Quando lasciai le dita e il morsetto si chiuse di colpo sul suo capezzolo, la faccia di Francesca si contrasse in una meravigliosa smorfia di dolore.

Poi aprì gli occhi.
Erano umidi. Francesca stava per piangere.
E il mio cazzo stava per esplodere.

Feci un passo indietro.

– salta ‘ le dissi.
E Francesca saltò, e con lei si mosse tutto il calesse, e le campanelline tintinnarono, e le cinghie ondeggiarono, e il collare si tese, e tutto mi sembrò bellissimo.

Andai dietro il calesse, dove Francesca non poteva vedermi.
Da un ripiano, presi tre fruste, di lunghezza e forma diverse, e le infilai in una specie di piccolo tubo, accanto al sedile.

Poi aprii la porta che dal corridoio dava sull’esterno, e la luce del sole ci colpì all’improvviso.
Salii lentamente sul calesse, e mi sedetti.
Presi la mappa che mi aveva dato l’uomo, e la fissai a una specie di piccolo leggio.

Alzai la testa, e vidi davanti a me Francesca, piegata in avanti, con il culo proteso verso di me, la schiena curva, il collo bloccato.

Presi in mano le redini, e dando un piccolo colpo con i polsi le feci sbattere appena sulla schiena di Francesca.

– andiamo! ‘ dissi, felice.

Francesca era a terra.
Buttata sull’erba, vicino al tronco di un albero.
Piangeva, in silenzio.
La testa tra le mani, il volto a terra, la schiena si alzava e si abbassava rapidamente.
Nuda, tranne per le scarpe e le calze bianche.
La pelle chiara mostrava un intricato motivo di segni rossi e brunastri.
Da alcuni dei segni sembrava uscire una piccola goccia di sangue.

Io ero in piedi, di fronte a lei.
Ansimavo per lo sforzo, e tremavo ancora per la rabbia.
Nella mano destra la frusta, lunga.

***

E dire che sembrava andasse tutto per il meglio.
Almeno per me.

Appena usciti dal portone, Francesca si bloccò.
Eravamo su un lungo viale asfaltato, che si perdeva verso la campagna, tra gli alberi.
Il cielo era azzurro, il sole del mattino già caldo, un venticello leggero ma fresco.

Mi appoggiai al piccolo schienale, guardando Francesca davanti a me.

La sua schiena leggermente piegata in avanti, i suoi capelli neri che si separavano sul collo, le braccia bloccate sulle stanghe e, naturalmente, il suo culo, proteso in fuori verso di me per la posizione in cui era fissata.
I glutei tesi, i muscoli delle gambe definiti.
Quando arrivò un refolo di vento più forte, la vidi rabbrividire.

Ero felice, sereno.
Non mi aspettavo nulla da quella giornata.
Avevo fatto qualche progetto, certo, ma mi ero imposto di vedere semplicemente come sarebbe andata, e godermi quel nuovo gioco.

– avanti ‘ dissi, e agitai le redini.

Francesca fece per muoversi, ma il peso del calesse con me sopra la bloccò un istante.
Poi spinse in avanti con le braccia e le spalle, tese i muscoli delle gambe e lentamente ci muovemmo.
Dopo due o tre passi le ruote del calesse cominciarono a scorrere regolarmente e anche Francesca prese una posizione più rilassata, tirando con regolarità.

Presi dalla tasca del calesse la mappa e studiai i percorsi suggeriti.

Dopo pochi minuti, arrivammo a un bivio.
Francesca fece per rallentare, ma io tirai le redini verso destra.
Quasi vidi il morso tirare la bocca di Francesca, e udii distintamente il suo lamento soffocato, più di sorpresa che di dolore.
Ma lei girò, e io guardai felice le redini che tenevo in mano.

Dopo pochi passi la strada si allungò davanti a noi.
Un nastro di asfalto in piena campagna, diretto verso alcune basse colline poco lontane.

– forza ‘ dissi allora, agitando le redini ‘ abbiamo molta strada da fare, vediamo di darci una mossa –

Francesca si piegò leggermente, e tirò il calesse un po’ più in fretta.
– più veloce ! –
e lei accelerò ancora il passo.

Mi fermai, guardando il culo di Francesca muoversi ritmicamente ad ogni passo, i glutei che si separavano appena, prima a destra, poi a sinistra, poi ancora a destra, lasciando intravvedere per un istante la pelle scura della figa e dell’ano.

– proviamo a trottare un po” che ne dici? ‘ chiesi
Francesca provò a scuotere la testa, ma tutto quello che ottenne fu un piccolo movimento e un rumore di campanelli.

– dai, corri ‘ insistetti, agitando le redini

Ancora una volta Francesca mosse appena la testa, e fece per fermarsi
– non fermarti! ‘ dissi, alzando la voce ‘ non fermarti e inizia subito a correre!!!! –

Francesca continuò a camminare per qualche passo, poi si piegò in avanti, per quanto possibile, e spinse più forte.
Il calesse accelerò, e Francesca passò prima a una camminata veloce e poi a una corsetta leggera.

– brava! Brava!!! Brava!!’ ‘ urlai, felice. E scoppiai a ridere.

Ero davvero, davvero felice.
Ero sul mio calesse, la giornata era magnifica, nella borsa avevo ottimo cibo e una bottiglia di vino, e Francesca trottava nuda portandomi a fare un picnic.
Un sogno che si avverava.

Le campanelle attaccate ai suoi capezzoli e al collo tintinnavano ritmicamente, e io mi dispiacqui di non poter vedere come le sue tette si muovessero mentre correva.

Dopo pochi minuti, che io passai nella quasi ipnotica ammirazione del culo di lei che si stringeva e allargava ad ogni passo, la pelle di Francesca di ricoprì di minuscole gocce di sudore, e la sua schiena iniziò a sollevarsi e abbassarsi con sempre maggiore frequenza.

Francesca si stava stancando.
Devo ammettere che aveva resistito più di quanto mi fossi aspettato.
Ma lo sapevo che prima o poi il momento sarebbe arrivato.

– non rallentare’ – le dissi, e lei accelerò di nuovo.

Un minuto, e di nuovo cominciò a rallentare.
Questa volta non dissi nulla, ma impugnai una delle fruste che avevo preso dal muro.
Aveva un manico rigido, lungo quasi un metro.
Dal manico, si allungava una specie di striscia sottile di pelle, lunga almeno un metro e mezzo, e alla fine della striscia c’era un nodo dello spessore di circa un centimetro.

– avanti! ‘ dissi di nuovo, ma questa volta Francesca non reagì, continuando a rallentare.

Agitai in aria la frusta, e capii subito che il nodo in fondo alla striscia di pelle serviva per dare peso e controllo al colpo.
Per una o due volte mossi la frusta a vuoto, per prendere confidenza.
Francesca era così concentrata nella sua fatica che non sentì, o non fece caso, il sibilo nell’aria.

Attesi.
Pochi istanti dopo, Francesca rallentò ancora.
– non camminare ‘ scandii ‘ continua a correre –
ma Francesca rallentò ancora, ansimando, e alla fine smise di correre e iniziò a camminare.

Sorrisi.
Pregustavo questo momento.

Alzai la frusta sopra la testa, e senza far troppo forza diedi un veloce colpo con il polso, prima indietro e poi in avanti.
La frusta fischiò nell’aria e colpì la schiena di Francesca.
Lei scartò di colpo, ed emise un suono a metà tra un grido e un lamento.

Ma io ero pronto, e tenevo ben strette le redini con la sinistra, e appena Francesca cercò di scostarsi e fermarsi, diedi un forte strattone.
La sua testa scattò all’indietro, tirata dal morso, che le si infilò ancora più a fondo tra i denti.
Lo scatto all’indietro tese le cinghie che fissavano il collo alle stanghe, bloccandolo a metà del movimento.
Un secondo dopo, la mia frusta colpì nuovamente: questa volta avevo più confidenza, e riuscii a far finire il colpo proprio dove volevo, all’attaccatura tra schiena e natiche.
Di nuovo Francesca si agitò, ma di nuovo le redini le impedirono di quasi ogni movimento.

– corri, ho detto ‘ urlai, e Francesca si piegò sulle stanghe e riprese a spingere, e dopo pochi passi di nuovo trottava veloce.

Altre due volte, Francesca iniziò a rallentare, ma bastarono due colpi di frusta ben assestati per farle tornare la voglia di correre.

Dopo pochi minuti, con il sudore che scorreva lungo la schiena Francesca, segnata da tre o quattro belle striature rossastre, tirai leggermente le redini e dissi ‘ pianoooo’ al passo ‘ e Francesca rallentò, e si mise a camminare, con le spalle che salivano e scendevano rapide, al ritmo del suo respiro affannoso.

Proseguimmo per qualche centinaio di metri, mentre osservavo con attenzione i dintorni, studiando la mappa.
Eccolo, proprio dove mi avevano spiegato alla villa.

– ferma – dissi, tirando le redini.

Attesi qualche istante.
Francesca restò ferma, con la testa bassa, respirando affannosamente.
Attesi ancora, facendola riposare, finch&egrave il respiro si fece regolare.

– avanti ‘ le dissi, agitando appena le redini ‘ piano piano’ prendi fiato, ci sarà una salita da fare’ però poi siamo arrivati e se fai la brava avrai un premio’ d’accordo? –
Lei non rispose, continuando a trainare lentamente il calesse.

Qualche decina di metri dopo, tirai le redini verso destra e Francesca curvò verso destra.
Imboccammo una stretta strada sterrata, ma con il fondo ben tenuto.
Vidi Francesca alzare lo sguardo, e quasi bloccarsi: davanti a lei, la strada faceva un paio di piccole curve, e poi iniziava una salita con almeno tre tornanti, che portavano su quello che sembrava un piccolo spiazzo sul crinale della collina.

Ripensai alle parole della signora e dello stalliere, alla villa: ‘&egrave una salita difficile, ma si fidi, la sua schiava &egrave giovane e forte: con le giuste motivazioni, riuscirà sicuramente ad arrivare in cima’ il nostro consiglio &egrave di non farla mai fermare, perché poi ripartire sarebbe molto difficile’.

Rimisi a posto la frusta che avevo usato, e ne presi un’altra. La guardai: più corta, con una striscia di cuoio più larga e spessa, e meno flessibile. Caricando tutto il braccio, e non solo il polso, sarebbe arrivata a colpire esattamente la schiena e il culo di Francesca.

– andiamo ‘ dissi ‘ scegli tu la velocità, ma non ti fermare, mai, finch&egrave non saremo in cima’ vai!!! –

Francesca attese ancora qualche secondo, poi si piegò in avanti e, tendendo la schiena e il culo in quel modo che mi era già così familiare, spinse il calesse in avanti.
Le ruote scricchiolarono sui piccoli sassi.

Appena iniziò la salita, Francesca tese le spalle e le braccia, e anche i muscoli della schiena si piegarono per lo sforzo.

– avanti!! Avanti!!! ‘ la incitai

Francesca arrivò più o meno facilmente al primo tornante. Però forse lo prese troppo stretto, o forse una ruota sbatt&egrave contro un sasso, ma il calesse rallentò e sembrò fermarsi.

Non esitai neanche un secondo, fu un gesto immediato e istintivo.
Alzai il braccio e calai la frusta su Francesca.
Il colpo arrivò diretto, dall’alto verso il basso, appena sotto le spalle.
Francesca non fece neppure in tempo a reagire che con lo stesso movimento, caricando il braccio da sinistra verso destra, come per un rovescio da tennista, la colpii nuovamente, questa volta quasi orizzontalmente, a metà della schiena.

Francesca urlò, o almeno emise un rumore soffocato attraverso il morso.
Ma scattò in avanti, e lo scatto le diede la spinta per continuare a muovere il calesse e superare il tornante.

– avanti ‘ urlai ‘ non fermarti ‘ e di nuovo feci calare la frusta dall’alto verso il basso, cercando questa volta di colpire Francesca proprio sul culo.

La frusta non faceva praticamente rumore, non era come nei film o nei racconti, o forse il vento e il suono delle ruote sullo sterrato lo coprivano, ma quasi ebbi il dubbio di non averla colpita, ma subito lei spinse in avanti il culo, e così facendo diede uno strattone al calesse, che sobbalzò.

– brava!! Tira!!! ‘ gridai, e scoppiai a ridere.

Francesca si piegò in avanti, e tirò il calesse fino in cima alla salita.

Altre tre volte rallentò quasi fino a fermarsi, e altre tre volte la frustai, ogni volta più forte, ogni volta con maggiore precisione, mirando prima alla schiena, poi ai glutei e infine anche al retro delle cosce che, scoprii, dovevano essere molto sensibili, a giudicare dai suoni che emetteva lei dopo ogni colpo, e da come scattava in avanti.

Devo ammetterlo, mi divertii moltissimo.
Avevo sempre pensato di essere un tipo cerebrale, di essere affascinato e attratto dal controllo mentale.
Dalla sottomissione, senza manette, corde, e dalla violenza solo come strumento per ottenere questi risultati.

Ma da quando avevo Francesca, avevo scoperto un novo aspetto di queste mie, chiamiamole così, passioni.
Avevo scoperto che infliggere dolore fisico, e la violenza, anche fine a se stessa, mi piacevano.
E vedere Francesca legata, bloccata tra le stanghe del calesse, a soffrire e faticare, senza possibilità di ribellarsi né di dire o fare nulla, se non tirare il calesse, mi eccitava e mi divertiva.

Dopo il terzo tornante, la strada divenne improvvisamente piatta e dopo pochi passi arrivammo in un campo.

– ooohh ‘ dissi, tirando le redini.
Francesca si bloccò, ansimando e, da quello che potevo immaginare dai movimenti delle sue spalle, piangendo.
La schiena, il culo e le cosce erano percorsi da diversi segni rossi e porpora.

Mi guardai attorno.
Il luogo era bellissimo, avevano fatto bene a consigliarmelo, alla villa, come destinazione della prima gita.
La stradina infatti costeggiava un prato, con l’erba tagliata di fresco.
Da un lato, il prato declinava verso la valle, con una meravigliosa vista sulla campagna e proprio al limitare del prato, una panchina, un tavolo di legno grezzo.
Sugli altri tre lati, alcuni alberi delimitavano l’inizio di un bosco.
Poco distante dalla stradina, infine, a terra c’era un grande tronco, tagliato a metà e scavato all’interno: da una fontanella zampillava dell’acqua che finiva nel tronco.

Scesi dal calesse.
Francesca intuì che stava succedendo qualcosa, e la vidi irrigidirsi.
Mi stiracchiai, girai lo sguardo intorno e giù, verso la pianura.
Nessuno in vista; d’altronde, era una delle richieste che avevo fatto, al momento di prenotare: non volevo condividere i miei spazi con nessuno. O meglio, i nostri spazi, pensai.

Lentamente camminai fino a trovarmi di fronte a lei.
A causa dei paraocchi, Francesca non mi vide finch&egrave non mi misi proprio davanti alla sua faccia.
Quando mi vide, spalancò gli occhi.

Aveva gli occhi gonfi di pianto.
Le lacrime scendevano ancora lungo le guance.
Il muco era sceso dal naso, sulle labbra tirate indietro dal morso, fino sul mento, mescolandosi con la saliva che era colata tra i denti, e formava due fili trasparenti che penzolavano dal suo mento.

La guardai negli occhi.
Non c’era rabbia, o ribellione: solo disperazione e paura: era bloccata, e mi accorsi che il suo sguardo era corso per un attimo alla frusta, che tenevo ancora in mano.

Annuii, come se mi avesse chiesto qualcosa.

– adesso ti tolgo il morso e poi ti libero ‘ le dissi ‘ ma ti avviso: non devi parlare, e non devi muoverti. Una parola, o un movimento, e ti frusterò ‘ dissi, agitando leggermente lo strumento nella mia mano ‘ e poi ti rimetterò tra le stanghe e ti farò correre fino lassù ‘ conclusi, accennando al sentiero, che proseguiva verso la cima della collina.

– hai capito? –
Francesca non emise nessun suono, ma fece un piccolo movimento con la testa.
– bene, brava. Prima di tutto’ questo ‘ dissi, e liberai il collare dalle cinghie che lo fissavano alle stanghe. Questo le permise finalmente di raddrizzare il collo e la testa, cosa che fece socchiudendo gli occhi per il sollevo.

– e poi, questi’ – e liberai gli avambracci e i polsi dalle stanghe ‘ e infine’ questo ‘ conclusi, allungando le mani dietro la sua testa e liberando il morso, che presi gentilmente tra le mani e rimossi dalla sua bocca.

Francesca emise un gemito, aprì e chiuse le mascelle, si leccò le labbra, poi alzò una mano, per portarla alla bocca, ma si bloccò e mi guardò spaventata.
Io annuii, e lei si accarezzò le labbra con la mano.

Tornai al calesse, presi la borsa ed estrassi il guinzaglio, che fissai al collare.

– andiamo ‘ dissi, e mi avviai nel prato
– hai sete? ‘ le chiesi, indicando l’acqua che zampillava dalla fontanella, e lei annuì.
– vieni, allora ‘ dissi, e tendendo il guinzaglio la portai alla fontanella.
– bevi, te lo sei meritato –
Francesca si piegò, per portare la bocca alla fontanella, io attesi un istante, e poi diedi un deciso strattone al guinzaglio, allontanandola.
Lei si girò e mi guardò, spaventata.

– non dalla fontanella’ – spiegai ‘ da lì ‘ aggiunsi, indicando il tronco cavo, poggiato sull’erba, nel quale scorreva l’acqua uscita dalla fontanella.
Francesca mi guardò un attimo, ma probabilmente la sete e il timore erano troppo forti, e si accucciò davanti al tronco, unendo le mani per tuffarle nell’acqua e portarsi il liquido alla bocca.

Di nuovo, attesi un istante, e poi tirai il guinzaglio.
Lei mi guardò, bloccandosi.

– non così’ – spiegai, sorridendo sornione ‘ i cavalli da tiro non bevono accucciati, né con le mani’ – lei mi guardava, sena capire.

Mi misi di fronte a lei, dall’altra parte del tronco ‘ giù, a quattro zampe ‘ dissi, e attesi.
Francesca mi guardò ancora, poi si mise a carponi, ginocchia e mani a terra, e faccia sopra il tronco, che adesso assumeva chiaramente la funzione di abbeveratoio.

– ora puoi bere’ – dissi.

E lei abbassò la testa, e tuffò la bocca nell’acqua, e risucchiò e leccò l’acqua, mentre io la osservavo.

Poi andai dietri di lei, e osservai la sua fica e il suo ano, esposti in bella vista mentre lei si piegava in avanti per bere.
E il mio cazzo reclamò: che va bene il cervello, e le fantasie, e le immagini e la dominazione e la frusta e il controllo, ma il cazzo ragiona in maniera semplice, binaria: o si scopa, o non si scopa.
E al mio cazzo sembrava che fosse proprio il momento di scopare.
E chi ero io, per contraddire il mio cazzo?

– basta? ‘ chiesi, e lei annuì.
– vieni ‘ dissi, e mi diressi verso la panchina, tirando il guinzaglio. Francesca non si alzò, ma rimase a quattro zampe e mi seguì.
Davvero, rimase a quattro zampe.
Non fece nemmeno il gesto di alzarsi in piedi.

Era successo qualcosa.
Una cosa piccola, magari, non certo definitiva, e non era il caso di trarre conclusioni, ma era un dato di fatto: per paura, per stanchezza, per disperazione, non mi interessava, ma Francesca era restata al posto in cui, tutti e due, sapevamo che io volevo che restasse: a quattro zampe, al guinzaglio, accanto a me.

Raggiungemmo la panchina.
Io mi sedetti, appoggiando la borsa accanto a me.
Lasciai Francesca di fronte a me, a quattro zampe.
Mi godetti il panorama, la campagna, i campi e i boschi.
Poi aprii la borsa, ed estrassi la bottiglia di vino, rosso, un bicchiere e il cavatappi. Aprii il vino, e me lo versai.
Poi estrassi alcuni sandwich, al salmone, al petto di pollo, prosciutto e formaggio.
Bevetti un sorso di vino, mi pulii la bocca con un tovagliolino di carta e mangiai.
Presi un secondo sandwich, e iniziai a mangiare.
Poi la guardai.

– hai fame? ‘ lei annuì.
Diedi altri due morsi al mio panino, poi quando ne rimase solo un pezzetto, lo tenni nel palmo della mano, che abbassai davanti a lei ‘ magia ‘ dissi.

Francesca allungò il collo, abbassò la testa fino al palmo della mia mano, e prese il panino tra i denti, mangiandolo.
Io presi un altro panino, lo divisi in pezzetti, che misi uno alla volta sul palmo della mano e che Francesca, da bravo animaletto addestrato, mangiò uno dopo l’altro.
– lecca ‘ le dissi, e lei leccò la mano, pulendola.

– in realtà – dissi ‘ i panini non sarebbero per te’ alla villa mi hanno detto che nella sacca c’era anche il cibo per’ come ti hanno chiamata? Ah, sì, ‘il mio animale” ecco, questo &egrave per te –

ed estrassi dei pezzi di una specie di pastone, duro, tagliati grossolanamente.
Ne presi uno in mano, feci per porgerglielo, ma ci ripensai.

– mangia ‘ dissi, buttando il boccone a terra.
Francesca mi guardò, ma ancora una volta non vidi segni di rabbia o ribellione: fece un piccolo passo in avanti, piegò la schiena e le braccia, abbassò la testa sull’erba, con i denti afferrò il cibo, che masticò e deglutì.
Il boccone successivo lo gettai a qualche metro dalla panchina, e Francesca ci andò senza fiatare, alla ricerca del cibo tra l’erba.
– senza mani, mi raccomando’ – dissi, e lei si piegò e con la faccia e il naso frugò nell’erba finch&egrave non trovò il cibo, e lo ingoiò.

Trovai questo esercizio eccitante, non so nemmeno perché.
E lanciai altri pezzi di quello strano cibo avanti e indietro nel prato, cercando i punti con l’erba più alta, per vedere Francesca frugare tra gli steli con la testa, come una brava cagnolina.

Glielo dissi, e lei non reagì.

– vieni ‘ la chiamami infine.
– ora puoi parlare, finch&egrave non ti dirò di nuovo di tacere ‘ lei annuì appena

– vuoi sapere cosa faremo adesso? ‘ le chiesi, accarezzandole la testa e i capelli, mentre stava a carponi di fronte a me, ancora seduto sulla panchina.

– s’ sì ‘ sussurrò appena, e per la prima volta da ora sentii la sua voce, e il cazzo mi diventò di nuovo duro, non lo so, un riflesso pavloviano? Magari ero io, e non lei, quello che in realtà si stava ‘addestrando’ a reagire come un animale’

– adesso scopiamo. Qui, in questo prato’ non l’ho mai fatto all’aperto’ tu? –
lei non rispose, scosse appena la testa
– scopiamo, dicevo. Ti scopo per bene, ti scopo prima la figa e poi il culo’ non garantisco di durare tanto, eh’ &egrave da stamattina che ho voglia di scoparti’ ma vabb&egrave, dicevo, ti scopo ben bene, tutta quanta, davanti e dietro, e poi ti vengo in bocca e mi fai il più bell’ingoio della tua vita’ e poi ti rimetti al tuo posto e torniamo alla villa, che &egrave facile &egrave tutta discesa’ che dici, va bene? –

Francesca non rispose, ma distolse lo sguardo.
– lo prendo per un sì ‘ dissi, sorridendo, e mi alzai in piedi.

Mi tolsi con calma la camicia, slacciai cintura e pantaloni, sfilai le scarpe e mi trovai in mutande.
Francesca era sempre a quattro zampe davanti a me.
Abbassai anche i boxer e presi in mano il cazzo.
– succhia – le dissi, e lei lentamente si avvicinò e mi prese in bocca il cazzo.

Senza estrarre il cazzo dalla sua bocca, mi sedetti sulla panchina, e mi godetti un pompino all’aperto, con il calore del sole sulle spalle, il soffio del vento e il cinguettio degli uccellini che facevano da contraltare al rumore della bocca di Francesca sul mio cazzo.

La fermai.
– qui, sopra ‘ dissi, tirandola leggermente per il collare, e lei capì e salì sopra di me.

Appoggiò le ginocchia sulla panchina, e con una mano si infilò il mio cazzo nella figa.
Era chiusa, stretta e secca, e dovette muoversi piano piano, in su e in giù e con piccoli movimento laterali per farlo entrare .
Ma io non avevo fretta, e mi godetti ogni istante.

Quando fui dentro e sentii le pareti della sua figa rilassarsi, dissi ‘ fammi godere ‘ e lei iniziò a muoversi in su e in giù.

Chiuse gli occhi.
Certo, stava pensando a qualcosa o qualcun altro, o si stava concentrando per sopportare tutto questo, e avrei potuto ordinarle di aprire gli occhi, di guardarmi, di dire o fare chissà cosa, ma non era il momento.
Così la lasciai fare, e mi godetti un ottimo smorzacandela.
Lungo, lento, morbido, come piace a me.

– alzati ‘ le dissi, e la portai dietro alla panchina, in piedi.
La feci piegare in avanti, fino ad appoggiare il petto sullo schienale della panchina.
Mi presi in mano il cazzo, e senza fatica lo spinsi di nuovo dentro la sua figa.
La scopai, e non le diedi nemmeno uno schiaffo o una sculacciata.
Lei non disse né fece nulla, ma non mi arrabbiai: la scopai e basta.
Poi estrassi il cazzo, e lo appoggiai al suo buco del culo.
La sentii irrigidirsi.
Sorrisi.
Con le mani allargai le chiappe, tendendo la pelle del buco.
Poi mi afferrai il cazzo appena con la destra, appoggiai il pollice sulla cappella per guidarla e spinsi.
Piano, ma sentii Francesca gemere.
‘Ahi’, disse, e io spinsi più forte.

Le entrai nel culo, senza volerle far male, ma senza nemmeno preoccuparmi.
Poco dopo, il culo di Francesca si rilassò.
Sentii che si era allargato, e cominciai a spingere con più forza.
Il mio cazzo si fece ancora più duro, e iniziai a sospirare. Non sarei durato ancora molto.
Estrassi il cazzo, poi li rispinsi dentro con forza, e Francesca gemette di nuovo.
Lo feci ancora, e ancora, fuori tutto, e poi dentro, in un colpo solo, fino in fondo, fino a sbattere con i miei fianchi sulle sue chiappe.

Lo tirai fuori di nuovo, abbassai lo sguardo sul cazzo prima di sbatterlo dentro di nuovo, e vidi che sulla cappella c’erano tracce marroni.
Spinsi dentro, ancora più forte, ancora più in fondo, e con le mani allargai le chiappe di Francesca per arrivare ancora più in fondo, ancora di più dentro di lei, ed estrassi il cazzo di nuovo, e lo guardai.
Sorrisi.

Sul mio cazzo c’erano, inequivocabili, residui di materia fecale.
Merda, insomma.
‘E adesso ci divertiamo’, pensai.

– girati!! In ginocchio!!! ‘ ordinai, tirando Francesca per il collare.

Lei obbedì, portandosi per un istante le mani al culo, come per controllare che non ci fosse nulla di rotto, almeno non definitivamente.
Poi si inginocchiò davanti a me.
Io feci un passo verso di lei, tenendo il cazzo, teso e duro, nella destra.

– succhia!! Fammi venire, adesso!!! –

Francesca si protese in avanti, poi si bloccò.
Spalancò gli occhi, poi alzò lo sguardo e mi fissò.
– succhia!!! Conto fino a tre, e al tre il mio cazzo dovrà essere infilato fino in fondo nella tua bocca e la tua lingua dovrà girare attorno alla mia cappella pulendo tutta questa schifezza che mi hai lasciato’ –

Francesca fece un tentativo, ma quando la sua bocca fu a un centimetro dal mio cazzo, ebbe un singulto di vomito e si scostò.

– uno’ due’ –

si avvicinò di nuovo, e di nuovo di fermò ‘ non ce la facc’ –
– tre –

Lasciai il cazzo.
Con la sinistra afferrai il guinzaglio, attorcigliandolo attorno al polso, così che lei non si potesse quasi muovere.
Con la destra afferrai la frusta, che era sulla panchina.

E la colpii.
Dall’alto in basso, senza prendere la mira, con forza.
Bastarono meno di dieci colpi, e Francesca iniziò a urlare e supplicare.

Basta, gridava, mentre si contorceva cercando di allontanarsi dai colpi, cercando di liberarsi dal guinzaglio, cercando di coprirsi quanto possibile con le braccia.
Basta, gridava, lo faccio, basta, lo faccio, ti giuro.

Ma non mi fermai.
Continuai finch&egrave non mi fece male il braccio.
Finch&egrave lei non rimase ferma, a terra, rannicchiata, piangendo disperata.

– adesso ‘ dissi, ansimando per lo sforzo ‘ adesso, puoi farlo ‘ e ripresi in mano il mio cazzo, che era rimasto duro per tutto il tempo, tirando il guinzaglio.

Francesca di alzò appena, e in ginocchio si avvicinò al cazzo.
Un nuovo singulto di vomito, tra i singhiozzi disperati, ma questa volta aprì la bocca.
Io rimasi fermo.
Lentamente, stringendo gli occhi, prese il cazzo in bocca.
– succhia –
e lei succhiò.
Il suo stomaco fece per rimettere, ma lei resistette e continuò a succhiare.
Estrassi il cazzo dalla bocca, e controllai.
– qui ‘ dissi, indicando un punto lungo l’asta dove forse c’era ancora una piccola traccia di merda ‘ lecca –

Dopo che ebbe leccato, le rimisi il cazzo in bocca e in pochi istanti venni.

Poi andai alla panchina, mi rivestii e schiacciai il pulsante sul telecomando, e mi sedetti.
Francesca era a terra, piangeva, e aveva appena vomitato.

Dopo pochi minuti un fuoristrada risalì la stradina, trainando un carrello.
Io salii in cabina, dove l’autista mi offrì dell’acqua e dei biscotti.
Poi lui scese, e caricò il calesse sul carrello.
Infine afferrò Francesca per il collare, la trascinò fino al carrello e la fece salire, fissando il collare a un anello d’acciaio.

Poi tornò in cabina, accese il motore e ingranò la marcia.
– allora, le &egrave piaciuto? ‘ mi chiese

– &egrave stato’ speciale ‘ sorrisi ‘ avete appena guadagnato un cliente -.

I giorni che seguirono passarono veloci.

Io avevo da lavorare, uscivo presto al mattino e rientravo tardi la sera.

Lasciai Francesca a casa da sola.
Da quando eravamo tornati dalla piccola avventura all’aperto Francesca non mi aveva rivolto la parola, e io non avevo nessuna voglia di iniziare un dialogo.

La sera le dissi che nei due o tre giorni successivi mi sarei svegliato presto e sarei tornato a casa tardi, e che lei avrebbe avuto la casa tutta per se’.
Le chiesi solo di farmi trovare la colazione pronta al mattino e la cena alla sera, per il resto avrebbe potuto fare quello che voleva, tranne uscire: guardare la televisione, dormire, mangiare.
– ricordati solo che tutta la casa &egrave controllata dalle telecamere e in qualsiasi momento posso controllare cosa fai –
Lei rispose solo ‘ va bene ‘ e si ritirò nella sua stanza.

Nelle due mattine successive mi svegliai presto, e in cucina trovai apparecchiato, la macchina per il caff&egrave americano pronta, frutta, yogurt, fette biscottate, la colazione pronta.
Alla sera, rientrando tardi, non trovai Francesca, che era già nella sua stanza, ma nel forno ebbi per due sere la cena pronta, che scaldai e mangiai di gusto.

Prima di addormentarmi controllai le riprese delle telecamere, e vidi che Francesca si era limitata per tutti e due i giorni a vagare per la casa, dormire, usare il bagno, guardare la TV.

Lenta, apatica.

Sorrisi.
Era di nuovo arrivato il momento di dedicarmi a lei.
E mi addormentai felice.

Il giorno dopo mi svegliai e feci la colazione che Francesca mi aveva preparato.
Poi andai nella sua stanza.
Francesca era sdraiata sul letto, gli occhi aperti, e fissava il soffitto.
Indossava una tuta nera, e calze bianche di spugna.

– tra mezz’ora usciamo ‘ le dissi ‘ preparati –
Lei mi guardò, spaventata.
– no, non andiamo alla villa, non oggi ‘ e mi accorsi del suo leggero sospiro di sollievo.

Poco dopo eravamo in macchina, io guidavo e ascoltavo la musica, un album live solo di Richard Galliano, e mi lasciai trasportare dal contrasto tra il suono antico della fisarmonica e le disarmonie del jazz.

Francesca sedeva accanto a me.
Rigida, teneva lo sguardo davanti a se’.

Parcheggiai, ed entrammo in un anonimo portone in un altrettanto anonimo palazzo.
Entrammo in una specie di lussuosa reception, dove una signora di mezza età mi salutò e mi fece strada.

– benvenuto ‘ mi disse, mentre ci accompagnava lungo un corridoio ‘ lei ha fatto delle richieste’ particolari, se posso dire così –

A quelle parole, percepii una piccola esitazione da parte di Francesca, come se avesse paura di ciò che sarebbe potuto succedere.

Sorrisi in silenzio, e la signora proseguì ‘ ma, naturalmente, noi siamo ben felici di soddisfare tutte le richieste dei nostri clienti, ogni volta che sia possibile –

Arrivammo a un bivio, il corridoio si apriva su due altri corridoi ‘ allora, con cosa vorrebbe cominciare? Vuole prima il’ tour, se possiamo chiamarlo così, o approfittare subito dei nostri servizi? –
– lei cosa consiglia? ‘ le chiesi
– se posso permettermi, visto l’orario, il tour sarebbe l’ideale’ ha la possibilità di assistere ad alcuni momenti molto.. come dire’ particolari ‘
– vada per il tour, allora ‘
– bene ‘ sorrise lei ‘ mi segua ‘ mi fece un gentile cenno con la mano e io la seguii nel corridoio di destra.
Nessuno prestò la minima attenzione a Francesca, che ci seguì, docile, a un passo di distanza.

Con una tessera magnetica fece scattare la serratura di una porta.
Entrammo.
– ecco’ – disse

Eravamo su una sorta di piccola balconata, come il palco di un teatro, appena un metro più in alto del pavimento del grande salone sul quale si affacciava.

Il salone era grande, illuminato come il set di un film, o uno studio televisivo.
Faretti sparavano luci dall’alto, e grandi lampade lungo le pareti aggiungevano altra luce.
Le pareti erano coperte di specchi, come quelle di una palestra.
Il pavimento ricoperto da grandi tappeti orientali.

Di fronte a noi, accostato alla parete, un divano.
Ma non un divano normale, ma un divano gigante, o meglio, per giganti.
Come se qualcuno avesse preso un divano normale e lo avesse ingrandito, gonfiato.

Sul divano, semisdraiato, un uomo di chiara origine mediorientale.
Carnagione scura, ma non nera, la testa rasata e lucida.
Ma quello che colpiva era la stazza.
Sicuramente era alto almeno due metri, probabilmente di più.
E sicuramente non pesava meno di duecento chili.
Il petto e il ventre erano enormi, faticosamente contenuti da una specie di tunica.
Le gambe, abbandonate sul divano, sembravano un’unica grande appendice.
Le braccia erano anch’esse enormi, e finivano in due mani che sembravano ridicolmente minuscole, rispetto a tutto il resto.
La faccia era una serie di pieghe di carne, e due occhietti scuri si intravvedevano appena sotto le palpebre pesanti.

Rimasi a bocca aperta, e sussurrai ‘ ma’ sembra’ – e guardai la signora, che sorrise.
– sì, lo dicono tutti, la prima volta ‘ annuì ‘ Jabba the Hutt –
Io non dissi nulla, mi limitai ad annuire.
– mio marito ‘ spiegò cortese la signora ‘ ha sempre avuto un debole per quel personaggio di guerre stellari’ e quando abbiamo avviato questa nostra piccola azienda, ha capito che avrebbe potuto realizzare qualcosa che assomigliava molto alla sua fantasia’ che poi &egrave un po’ quello che cerchiamo tutti, no? ‘ mi chiese, accennando con uno sguardo a Francesca, che in piedi accanto a noi osservava la scena, a bocca aperta per lo stupore.

– proprio così ‘ risposi io, accennando a mia volta a Francesca.
– beh, poi forse mio marito si &egrave un po’ fatto prendere la mano’ – aggiunse lei
– nessuno deve essere giudicato per il modo in cui cerca la propria felicità ‘ risposi io, e lei mi sorrise felice
– ha proprio ragione ‘ disse, e di nuovo rivolgemmo la nostra attenzione al grande salone.

Il marito, Jabba, chiamiamolo così, non era solo.
Lungo la parete alla nostra destra erano allineati, a circa un metro d’altezza, una ventina di anelli di metallo.
Agli anelli di metallo, erano fissate delle corte catene, lunghe non più di mezzo metro.
Le catene, erano a loro volta fissate a dei collari.
Che erano al collo di una ventina di schiave.

A causa dell’altezza da terra degli anelli e della corta catena, le schiave non potevano alzarsi in piedi.
Erano tutte a quattro zampe.
La signora seguì il mio sguardo.
– durante l’orario di lavoro ‘ mi spiegò ‘ possono sdraiarsi a terra solo 5 minuti ogni ora. Il resto del tempo devono stare a quattro zampe –

Alcune schiave erano nude.
Altre vestite con abiti succinti, sexy, altre ancora in lingerie, alcune indossavano corpetti, altre ancora normali abiti da ufficio, un paio erano in uniforme da dottore o da soldatessa, una in abito da sera.
Tutte avevano una piccola palla rossa infilata in bocca.

– a Jabba non piace che le schiave parlino ‘ mi spiegò la signora, e io non potei che essere d’accordo.

In quel momento una piccola porta, anch’essa ricoperta da uno specchio e che io non avevo notato, si aprì.
Entrarono due uomini, di mezza età, uno in maglietta, bermuda e ciabatte, l’altro in giacca e cravatta.
Avevano in mano un bicchiere di birra, e ridevano sguaiatamente.
Si avvicinarono al divano di Jabba, si sedettero su due sedie davanti a lui e cominciarono a chiacchierare.

I due, davanti a Jabba, sembravano piccoli come bambini.
Dopo pochi minuti si alzarono, salutarono Jabba e si avviarono lentamente tra le schiave.
Fecero un paio di giri, guardandole dall’alto, toccandole, urlandosi battute grevi l’uno con l’altro.
Notai come ogni volta che uno di loro si avvicinava a una schiava, questa cominciava a muoversi, ad agitare il culo, quelle nude a far ballare le tette mentre stavano a quattro zampe, e a emettere dei mugulii attraverso le palle rosse che avevano fissate in bocca.

Ogni volta che uno dei due uomini si allontanava, la schiava guardava terrorizzata Jabba.

Alla fine, quasi contemporaneamente, i due scelsero ciascuno una schiava.
Jabba schiacciò un bottone e con uno scatto secco gli anelli di metallo del muro si aprirono.
I due afferrarono le catene come se fossero guinzagli e, sempre ridendo e urlandosi battute, uscirono dalla porta tirandosi dietro le due schiave, che li seguirono trotterellando.

Nel salone ora regnava il silenzio, turbato solo dal pesante respiro di Jabba.

– ecco ‘ sussurrò la signora ‘ mio marito pretende che le schiave facciano del loro meglio per farsi scegliere’ –
i piccoli occhi scuri di Jabba giravano lenti sulle schiave rimaste
– e punisce quelle che non si sono date abbastanza da fare –

Jabba con una mano prese un telecomando, e le schiave lo guardarono tremando

– certo’ ‘ aggiunse la signora, sussurrando ma sorridendo divertita ‘ in verità le sceglie un po’ a caso’ ma serve a mantenere la disciplina, no? –
– assolutamente ‘ sussurrai anche io, senza distogliere gli occhi dalla sala.

La tensione e la paura arrivavano anche a noi, a ondate.
Guardai Francesca, che osservava la scena con occhi sbarrati.

Tlack! Tlack!
Scattarono due anelli, e due catene caddero a terra.
Le due schiave prima scossero la testa, poi provarono adire qualcosa che non fu altro che un sordo mugolare, ma quando Jabba schiccò le dita tutte e due lentamente si alzarono e lo raggiunsero.

Le altre schiave si rilassarono, probabilmente per lo scampato pericolo, e si misero tutte nella stessa posizione: in ginocchio, rivolte verso Jabba, con le mani chiuse a pugno e appoggiate a terra: insomma come fanno i cani ben addestrati quando si siedono.
Tutte quelle donne, vestite in modo così diverso, e tutte in quella tessa identica posizione, mi eccitarono moltissimo.
La signora se ne accorse e mi chiese ‘ vuole andare? -, ma io scossi la testa: il desiderio di vedere era troppo forte.
Avrei avuto tempo, più tardi, per sfogarmi.

Le due schiave erano in piedi, davanti a Jabba.
Tremavano.
La prima aveva probabilmente sui trent’anni, era piccolina, di carnagione scura, mediterranea, capelli neri e sciolti sulle spalle, ed era nuda.
Aveva le gambe corte e il culo tondo, e due grossi seni pieni, leggermente penduli, con i capezzoli piccoli e scuri.

L’altra era leggermente più giovane, più magra, pelle chiara e corti capelli biondi.
Era vestita in gonna e camicetta neri, ma a un cenno di Jabba si spogliò in un attimo, rivelando un culo stretto e alto, e due seni piccoli ma pieni, con areole rosa e larghe.

– la punizione per non essersi date abbastanza da fare con i clienti ‘ sussurrò la signora
– la cambiamo ogni settimana, più o meno. Se no si abituano’ – ridacchiò

Per la prima volta sentii la voce di Jabba.
Da un corpo così grande e impressionante, uscì una vocina flebile, quasi femminile.

– dieci ‘ disse la vocina

le due schiave tremarono, ma non si mossero.
Jabba indicò la brunetta.

– ecco’ ciascuna somministra la punizione all’altra’ – mi spiegò la signora ‘ e deve metterci tutto l’impegno possibile, se no sarà lei a subire, oltre alla sua punizione, anche la punizione dell’altra. Non ci crederà, ma dopo un po’ le ragazze cominciano a sviluppare un odio reciproco, che impedisce loro qualsiasi tipo di alleanza o amicizia’ e più si odiano, più noi cerchiamo di metterle in punizione insieme’ spesso alla fine sono più cattive e rabbiose di quanto potremmo essere noi’ – aggiunse, scuotendo la testa.

Io non replicai, osservavo solo, ipnotizzato.
Questa evidente, sfacciata e violenta esibizione di potere e sottomissione mi aveva eccitato come non ricordavo mi fosse mai capitato.
Mi trattenevo a stento dal saltare l’elegante balaustra, entrare nella sala e abusare di una qualsiasi delle schiave.
Sospirai.

Jabba fece un molle cenno con la mano destra.
La biondina si mise di profilo, così che anche le schiave ancora incatenate potessero vedere.

Poi, lentamente, si afferrò i capezzoli con l’indice e il pollice di ciascuna mano.
E tirò verso l’alto.
Le tette piccole e sode si stirarono e allungarono, ma lei continuò a tirare, strizzando gli occhi per il dolore fino a che Jabba non fece un cenno.
E rimase ferma.

Francesca tremò, credo immaginando il dolore della schiava.
Dopo una pausa che sembrò non finire mai, Jabba fece cenno alla brunetta.
Lei si avvicinò a un tavolino, e prese in mano una lunga canna, flessibile, come se fosse di legno morbido o di bambù.
La bionda la osservò, e iniziò a tremare.

La bruna si mise di fianco a lei, e guardò Jabba, che annuì impercettibilmente.

Il colpo arrivò fortissimo.
La brunetta mirò bene, e la canna impattò esattamente dove doveva, nel solco tra il seno, tirato verso l’alto, e il petto.

Il rumore fu uno schiocco secco, ma fu coperto da una specie di urlo che le altre schiave fecero attraverso le palle rosse che chiudevano le loro bocche.

– devono contare ‘ mi spiegò la signora, e io capii che quel suono era un ‘uno!’.

La biondina si piegò, emise un urlo soffocato, cercò di tossire, ma riprese la posizione, di nuovo alzando le tette tirate per i capezzoli e aspettando.
Le sue gambe iniziarono a tremare.
Ma ciò che mi colpì davvero fu lo sguardo di odio e rabbia che lanciò alla brunetta.

La brunetta aspettò il cenno di Jabba, che arrivò.
Di nuovo colpì, e di nuovo le schiave urlarono, soffocate, il numero del colpo.

Quando finalmente arrivò il decimo e ultimo colpo, la biondina era caduta a terra tre volte, non era riuscita a trattenersi e all’ottavo colpo si era pisciata addosso, piangeva, tossiva.

Il suo petto e i seni erano coperti da dieci strisce rosse.

Dopo il decimo colpo, cadde a terra, nella pozza della sua stessa urina.

Jabba attesa qualche istante, finch&egrave la bionda non sembrò essersi ripresa.
Poi fece un cenno con la mano.

La brunetta tremava, e le lacrime scendevano già dai suoi occhi, e il naso colava muco sulla palla rossa che aveva in bocca.

Ma si mise al posto della bionda.
Si afferrò i capezzoli, piccoli e scuri, e iniziò a tirare.

Le sue tette erano molto più grandi e pesanti di quelle della bionda, e lei dovette alzare i capezzoli in alto fin sopra le spalle, per poter scoprire la porzione di pelle tra le sue tette e il petto.

Guardai la bionda.
Respirava ancora con affanno, ed era leggermente piegata in avanti, e teneva una mano sui seni.
Ma era in piedi, vicino alla bruna, e teneva nella destra la canna.

E guardava la bionda e Jabba, e io vidi nel suo sguardo l’ansia e la rabbia della vendetta.
Jabba si godette quel momento.
E io me lo godetti con lui.

Poi finalmente annuì, e la bionda colpì sotto i seni della brunetta con tutta la sua forza.
Per dieci volte.
Le altre schiave contarono.
La ragazza urlò.
Jabba si leccò le labbra.
La signora rise.
Io mi afferrai il cazzo attraverso i pantaloni.
Francesca piangeva.

Quando tutto finì, rimase solo il silenzio, i singhiozzi della brunetta, a terra, rannicchiata, e i sospiri di fatica e rabbia della bionda.

Si aprì la porta, entrarono due altre schiave in tenuta da lavoro, e senza alzare lo sguardo pulirono per terra e accompagnarono fuori le due ragazze.

– quanto tempo’? ‘ chiesi alla signora, che capì subito la domanda.
‘ naturalmente dipende dalla punizione’ quella di questa settimana &egrave abbastanza dura, quindi diciamo un paio di settimane per recuperare, e un’altra settimana per tornare al lavoro’ ma per fortuna ‘ disse ‘ abbiamo sempre più schiave di quelle che servono’ – e con un sorriso malizioso osservò Francesca, che si ritrasse dietro di me.
Come a chiedermi di proteggerla.

– vogliamo proseguire, con la seconda parte della sua richiesta? ‘ mi chiese la signora, facendomi strada fuori dalla porta.

Io sorrisi, e risposi ‘ non vedo l’ora ‘ e la seguii.
La donna era alla pecorina, sul letto.
La stanza era senza finestre, il letto matrimoniale e le lenzuola bianche.
Le luci erano tutte accese.

Io ero in ginocchio dietro di lei, e la scopavo ritmicamente.
Ad ogni colpo, le gemeva e sospirava, alternando con frasi come ‘oh sì, scopami’, ‘godo’ ‘sono la tua puttana’ e altre simili.

Le diedi uno schiaffo sul culo, e lei gemette di piacere.

Mi fermai, e osservai il culo abbondante, e piegandomi leggermente fissai i grossi seni penzolanti, con i capezzoli larghi, rosa chiaro.

Poi mi afferrai il cazzo, e glielo appoggiai al culo.
Lei inspirò e inarcò la schiena, e io iniziai a spingere.

‘oh, si dai, inculami” sussurrò lei, e io spinsi con forza.
Sentii il muscolo rilassarsi e entrai dentro di lei lentamente, ma con facilità, e iniziai a scoparle il culo.

– guardatevi ‘ dissi

e la donna alzò la faccia e fissò negli occhi Francesca, che era seduta, rigida, le mani in grembo, in una seggiola di legno proprio di fronte al letto.

Anche Francesca fissò la faccia della donna che stavo inculando.

Io guardai prima il culo della donna, mentre il mio cazzo ci scompariva dentro, poi Francesca, i cui occhi erano fissi sulla faccia della donna.

Quando sentii che stavo per venire, uscii da lei ‘ non muoverti ‘ dissi, le girai attorno, mi misi in piedi accanto al letto, strinsi forte il cazzo e venni, facendo attenzione a che gli schizzi arrivassero precisi sulla faccia della donna.

Il primo schizzo, il più copioso, le arrivò sulla fronte, finendo anche sui capelli tinti di biondo e su un sopracciglio; il secondo arrivò dritto sul naso e le labbra; per il terzo mi avvicinai, e feci attenzione a colpire l’occhio destro, che lei chiuse appena un attimo prima, così che la striscia bianco pallido le rimase sulla palpebra, di traverso, incollata al mascara.

Sospirai, e le strofinai la cappella sulle guance, spremendo il cazzo dalla base, per far uscire le ultime gocce di sperma.

– non muovetevi ‘ dissi poi, e andai nel piccolo bagno della camera, dove mi sciacquai velocemente.
Poi uscii, mi rivestii.

Osservai la scena.

Al centro della camera del bordello, un letto matrimoniale, disfatto, dove avevo appena finito una scopata di tutto rispetto.
A pecorina, con la faccia rivolta verso il fondo del letto c’era la puttana che avevo scelto.

Non giovane, più sui quaranta che sui trenta, anche un po’ sovrappeso.
Era nuda, le tette grosse, pendevano molli sotto di lei, i capelli tinti di biondo e lunghi erano spettinati sulle spalle, e la sua faccia troppo truccata, col rossetto sbavato era coperta da strisce biancastre.

Di fronte a lei, seduta con la schiena rigida, sedeva Francesca.

Era lì da un’ora, da quando avevo fatto entrare la puttana, l’avevo fatta spogliare e avevo iniziato a scoparla.

Francesca prima aveva probabilmente temuto che volessi coinvolgerla in una cosa a tre, ma quando aveva capito che avrei ‘solamente’ scopato la puttana davanti a lei si era immobilizzata, cercando di non farsi notare, immagino sperando che la puttana mi prendesse abbastanza da non farmi venire voglia di far fare qualcosa anche a lei.

Presi un’altra seggiolina, e mi sedetti vicino a loro, di lato, così che potessi guardarle tutte e due.

Francesca seduta e vestita, la puttana nuda, a pecora, con in faccia il mio sperma che si seccava piano piano.
Restammo immobili e in silenzio per quasi un minuto.

– come ti chiami? ‘ chiesi all’improvviso, rivolto alla puttana
– Samantha ‘ rispose lei
– non il nome che usi nel bordello, il tuo vero nome ‘

Lei esitò appena un istante, poi rispose ‘ Nathalie –

E per la prima volta emerse uno strano accento, probabilmente del nord, certamente di un altro paese.

– da dove vieni? ‘ chiesi, e Nathalie confermò la sua origine straniera, di un paese del nord.
– raccontami la tua storia ‘ dissi
Lei iniziò, come se avesse già raccontato quella storia più volte.
Io annuii, perché avevo verificato con i proprietari del bordello e avevo scelto lei prorio per la sua storia.

Ero una giovane studentesse, al mio paese ‘ spiegò Nathalie ‘ e dopo l’università mi venne offerta una borsa di studio per specializzarmi. Accettai, e venni qui.
Dopo due anni, ottenni la specializzazione e iniziai a lavorare in una grande azienda.

Vedere quella donna, sentire che aveva un’istruzione superiore, sentire il suo accento, e nel frattempo vederla lì, nuda, con il culo all’aria e il mio sperma sul naso, mi fece sentire un brivido al basso ventre
Peccato aver appena finito di scoparla, mi dissi, magari tra un po’ potrei ricominciare.

Ma lei non si accorse di nulla, e proseguì.

Dopo poco tempo che lavoravo, conobbi un ragazzo, mi innamorai, e andai a vivere con lui.
Lui aveva dei giri strani, aveva dei debiti con degli strozzini e io firmai a garanzia dei suoi debiti.
Ma poco dopo l’azienda trasferì la sede all’estero, io rimasi senza lavoro e non riuscii più a pagare i debiti.
Venni processata e il giudice mi diede vent’anni di schiavitù.
Me ne mancano ancora cinque.

– e dopo la sentenza, cosa successe? ‘chiesi io

venni comprata da un uomo.
Era appena stato lasciato dalla moglie, non voleva avere altre storie sentimentali ma voleva una donna, e aveva deciso di prendere una schiava.
Io ero bella, intelligente, giovane, straniera.
Spese molti soldi, ma mi comprò.
Ma io non accettai la schiavitù.
Mi ribellai, e per due anni lui provò in tutti i modi a domarmi.
Con le buone, e con le cattive, ma io non accettai mai di sottomettermi.

All’improvviso la sua voce perse il tono neutro, e divenne roca e spezzata.

Allora’ allora lui un giorno mi prese, e mi riportò alla casa d’aste.
Venni venduta.
Mi comprò’ mi comprò il’ questo.

E dicendo così alzò lo sguardo, come a indicare l’intero bordello.

E da allora’ da allora sono’ qui.

– e qui, sono riusciti a domare la tua indole ribelle? ‘ le chiesi, sorridendo

Lei scosse appena la testa, annuendo.
Subito’ voi’ lei non può immaginare cosa’ come’ io’ loro hanno’

La voce si ruppe, e una lacrima scese dagli occhi, e io la seguii fino a che si mescolò con il mio sperma, ormai secco sulla sua guancia.

– hai più rivisto il tuo primo padrone? –

solo una volta’ venne qui, chiese di me, e mi presentò la sua nuova schiava’ e le fece raccontare la sua giornata, e lei lo fece, e insistette su come fosse buono il padrone, su quanto tempo libero avesse, sui regali e i viaggi che avevano fatto insieme, e su come fosse felice di servire un padrone così buono e gentile.
Poi lui’ lui’ disse che aveva pagato il mio culo per tutto il giorno, e chiunque avesse voluto avrebbe potuto scoparmi’ e quindi lui e la schiava mi portarono in un salottino, dove loro’ loro’

La puttana adesso piangeva, piano.

Loro mangiavano e bevevano e rimasero lì, tutto il giorno, mentre un cliente dopo l’altro’ mi’ mi… davanti a loro… che ridevano e…

Alzai la mano e la fermai.

– ancora una domanda, poi potrai andare –
Parlai alla puttana, ma lo feci guardando fisso Francesca.

– cosa diresti a una schiava, appena comprata, che si ribella al suo padrone e non accetta suo destino? –

La puttana capì.
Guardò Francesca, e le disse ‘ non’ no’ no’ non lo sai’ non immagini cosa può succederti’ qui’ o in posti, ci sono posti… molto peggiori di questo’ sei fortunata, credimi’ non immagini nemmeno quanto’ questo posto’ ho visto fare’ succedere cose che’ –
Non riuscì a proseguire, e abbassò lo sguardo singhiozzando.

– va bene, alzati ‘ dissi a quel punto ‘ abbiamo finito, puoi andare –
– grazie, grazie’ spero che’ sia stato tutto di suo gradimento’ –
– sì, grazie ‘ risposi sorridendo
– allora’ potrebbe ‘ la puttana abbassò la voce, sussurrando timorosa, come se qualcuno potesse sentire ‘ se glielo chiedessero, potrebbe dire che’ –
– certo ‘ annuii ‘ dirò che sei stata davvero obbediente, brava e partecipe, e che tornerò certamente altre volte ‘
– grazie’ grazie’ – disse lei, poi raccolse da terra i suoi vestiti e uscì dalla camera.

Durante tutto il viaggio di ritorno io non dissi nulla, e Francesca rimase in silenzio, nel sedile accanto a me.

Quando entrammo in casa, finalmente mi rivolsi a lei.
– allora? –

– io’ io’ – le prime parole di Francesca dalla mattina furono appena sussurrate ‘ io’ non voglio’ io non voglio’ io voglio andare a casa mia’ io me ne vado –

e così dicendo si girò, aprì la porta e iniziò a camminare, semplicemente, lentamente, verso il cancello.
Io la seguii, lentamente, e dopo che ebbe fatto tre passi misi la mano in tasca, e schiacciai il telecomando.

Il collare emise un piccolo trillo, e un’ondata di dolore percorse il corpo di Francesca, inaspettato, e violento, e lei cadde a terra, contorcendosi.
Tenni il pulsante premuto per alcuni secondi, durante i quali lei gridò e urlò, a terra.

Poi lasciai il pulsante, mi avvicinai a lei e la alzai lentamente, la abbracciai e la riportai lentamente in casa.
Chiusi la porta, sempre abbracciandola, e lei provò a spingermi via, ma con un gesto appena accennato, e poi alzò i pugni e mi colpì sul petto e sulle spalle, mentre io la tenevo sempre tra le mie braccia.
Poi abbandonò la testa sul mio petto, e pianse.

Io la strinsi, piano, e la accarezzai sulla schiena e sulla testa.

– sssshhh’ ssssshhh’. ‘ sussurrai ‘ piano, piano’ calmati adesso’ –

poi le presi dolcemente la testa tra le mani e le alzai la faccia, guardandola fisso.

– non c’&egrave nulla che tu possa fare. Nulla. L’hai capito, vero? ‘

e lei annuì.

– non costringermi a fare qualcosa che non voglio. Non costringermi a venderti, a prendere un’altra al posto tuo’ sai, quando ti ho comprata credevo di volere te, solo te. Ma sai, da un po’, ho capito che alla fine potrei davvero avere un’altra, come schiava, e sarei felice ugualmente’ sei importante, davvero, sei molto importante per me’ ma ho capito che non sei né unica, né indispensabile’ e tu, l’hai capito, questo? –

di nuovo, Francesca annuì.

Eravamo uno di fronte all’altra, i nostri volti si sfioravano, i nostri respiri erano caldi sule nostre facce.

E lentamente abbassai la mano destra lungo la sua schiena, dove era stata ad accarezzarla, fino all’inizio dei suoi pantaloni.

La guardavo fissa negli occhi.

Poi infilai la mano, lentamente, dentro i pantaloni, sostai le mutandine e con il dito medio arrivai fino al suo buco del culo, dove mi fermai.

– chi sei, tu? ‘ le chiesi avvicinandomi ancora di più, fino a toccarle il naso con la punta del mio.

Francesca abbassò lo sguardo e sussurrò ‘ la sua schiava, padrone –

E io spinsi lentamente il mio dito dentro il suo culo, stretto e secco, e lo infilai fino alla seconda falange.
Francesca si irrigidì per il dolore e l’intrusione.

– stringi forte ‘ le dissi

restammo così, fermi, per un paio di secondi.
Poi sentii il suo ano contrarsi, con forza, lungo tutto il mio dito

– voglio che tu faccia lo stesso con il mio cazzo. Adesso ‘ dissi, e non mi mossi.

Il tempo si fermò, io con la mia faccia appoggiata alla sua fronte, lei con lo sguardo basso, mentre la tenevo abbracciata con la sinistra e la mia mano destra era nei suoi pantaloni, e il dito medio infilato nel suo culo.

Poi, finalmente, Francesca alzò la testa, guardò un punto dietro le mie spalle, sussurrò ‘sì, padrone’, e iniziò a slacciarsi la camicetta.
– passo a prenderti alle tre ‘ le dissi mentre uscivo al mattino per andare al lavoro ‘ fatti trovare pronta e vestita elegante ‘ e mi chiusi la porta dietro le spalle.

Erano passati pochi giorni da quando eravamo stati al bordello, ma tra noi non c’era quasi stata interazione.
Ero uscito sempre presto, tornando tardi la sera, stanco e con ancora del lavoro da fare.

Francesca mi aveva aspettato sveglia, mi aveva servito la cena che aveva preparato e mi aveva fatto un pompino mentre, sul divano, finivo di lavorare al computer.

Piacevole, certo, ma nulla di speciale.

Oggi mi ero preso il pomeriggio libero, e avevo deciso di dedicarlo a lei.
Cio&egrave, a me, cio&egrave, a noi.

Alle tre arrivai a casa, aprii la porta e gridai ‘ andiamo! ‘

Francesca mi raggiunse.
Indossava una giacca grigia, una camicetta bianca con gli sbuffi sulle maniche che uscivano dalla giacca chiusa fino al collo, un paio di pantaloni grigi e delle scarpe nere, lucide, con la suola spessa in gomma, simili alle scarpe da uomo, e niente calze, lasciando che i pantaloni lasciassero scoperte le caviglie.
Si era lavata i capelli che erano neri e lucidi, e aveva un filo di trucco.

Era oggettivamente bella; non bellissima, non era una di quelle donne dalla bellezza mozzafiato, tipo modella o attrice, ma era bella, femminile e affascinante e indossava i suoi abiti come un’armatura.

L’unica cosa che stonava, era il collare, stretto attorno al collo, che schiacciava e deformava il colletto della camicia.

– sei bellissima ‘ le sussurrai, prendendola sotto braccio con galanteria, chiudendo la porta dietro di noi.

Arrivammo alla macchina ‘ guida ‘ le dissi, sedendomi al posto del passeggero.

Francesca salì, e mise a posto il sedile e gli specchietti, accese la macchina e partì.
Io le davo le indicazioni, mentre con la mano battevo il ritmo di un blues di Ronnie Earl.

– posso sapere dove andiamo? ‘ mi chiese a un certo punto Francesca
– in giro ‘ le risposi ‘ sai, mi sono reso conto che fino adesso siamo praticamente rimasti in casa’ tranne le nostre due piccole uscite ‘speciali’ ‘ dissi, riferendomi alla gita in cui l’avevo attaccata al calesse e il giorno al bordello

– però, sai, la schiavitù &egrave legale’ quindi non &egrave che uno non possa andare in giro con la propria schiava –

Francesca guidava, in silenzio, con lo sguardo fisso sulla strada.

– lo so cosa stai pensando. Che non hai mai visto in giro un padrone con uno schiavo. E nemmeno io. Me ne sono reso conto, tutti sappiamo che la schiavitù esiste ed &egrave legale, ma né tu né io conosciamo qualcuno che ammetta di avere uno schiavo e, soprattutto, qualcuno che si faccia vedere in giro con degli schiavi. Come mai, secondo te? –

di nuovo, Francesca non rispose continuando a guidare.

– c’&egrave un motivo, sai. Lo spiegano sui forum. Poiché molte persone, come te e come me’ cio&egrave come me prima di’ prima di ‘noi” sono contrarie alla schiavitù, i proprietari di schiavi evitano di farsi vedere in giro con gli schiavi –

guardai fuori dal finestrino

– guarda’ non lo immaginiamo neanche, ma chissà quante delle persone che vediamo ora per strada o in macchina possiedono degli schiavi’ –
la guardai
– ma c’&egrave un’altra cosa. Alla fine, i proprietari di schiavi hanno deciso che non era giusto che non potessero uscire con i loro schiavi, e allora, piano piano, quasi naturalmente, sono nate delle zone ‘salevers free’, cio&egrave delle zone in cui l’accesso a padroni con schiavi non solo &egrave tollerato e permesso, ma addirittura &egrave, in modo molto gentile, sconsigliato, potremmo dire, l’accesso a coloro che sono privi di schiavi’ ecco, stiamo andando in una di queste zone –

Guardai Francesca, e intuii un brivido di paura nel suo sguardo, e vidi una piccola contrazione nella mascella.
Non sapeva cosa sarebbe successo, e come sempre il timore dell’ignoto &egrave più forte della paura di ciò che si conosce.

E intuire, più che vedere, la sua preoccupazione mi fece subito venire il cazzo duro.

Arrivammo a quella che sembrava l’entrata di un grande complesso commerciale.
C’era una guardiola, e l’ingresso era chiuso con una sbarra.
La guardia buttò uno sguardo nella macchina, notò (me ne accorsi) il collare di Francesca e alzò la sbarra.

Parcheggiammo.
Uscimmo dalla macchina, nel grande parcheggio, illuminati dal sole del primo pomeriggio, l’aria era tiepida.

Francesca rimase ferma, in piedi, accanto all’auto.
Io aprii il bagagliaio, presi un guinzaglio e lo fissai al collare di Francesca, che mi guardò fisso senza dire nulla.

– andiamo ‘ dissi, e mi incamminai verso l’ingresso del centro commerciale, dando uno strattone al guinzaglio.

Avanzammo così, io davanti, con il telefono in una mano per controllare alcune mail, e il guinzaglio nell’altra; dietro di me Francesca, che mi seguiva passo passo, il guinzaglio teso attaccato al suo collare.

Prima dell’ingresso al centro commerciale mi fermai davanti ai carrelli.
Mi frugai in tasca, presi una moneta e la gettai a terra.
– prendi un carrello – dissi
Francesca mi guardò, poi lentamente si accucciò, raccolse la moneta, liberò il carrello e, dopo un mio strattone al guinzaglio, mi seguì spingendo il carrello

Le porte automatiche si aprirono ed entrammo.
Io mi sforzavo di non girarmi, di non guardare Francesca.
Ma girai appena la testa per vedere la nostra immagine riflessa.
Io davanti, e lei dietro di me.
Lei che spinge un carrello, e io che la guido con il guinzaglio.

Per prima cosa entrammo nel supermercato.
Tra gli scaffali, molte persone che facevano la spesa.
Sentii Francesca rallentare e il guinzaglio tendersi, mi girai la vidi bloccata, in piedi.

Era la prima volta che usciva tra la gente da quando &egrave diventata una schiava, e probabilmente era emozionata, umiliata e rabbiosa.

Io tirai il guinzaglio ‘ andiamo ‘ dissi, e lei mi seguì.
Attorno a noi notai altre persone accompagnate da schiavi.
Alcuni, pochi, li tenevano al guinzaglio, altri semplicemente si facevano seguire, docilmente.

Mentre camminavamo indicai i prodotti che volevo e proseguii, lasciando che fosse lei prenderli e metterli nel carrello.

Alla cassa, mentre pagavo notai il collare al collo della cassiera, e vidi come tutte le cassiere, e anche gli inservienti del supermercato, indossassero il collare.
Sono tutti schiavi, mi resi conto.

Pagai, e Francesca mise la spesa nei sacchetti.
Mi avviai, e lei mi seguì, sempre al guinzaglio, portando i sacchetti.

Arrivammo davanti a una caffetteria, di quelle fighette di una catena internazionale, e decisi di entrare.

Al muro, accanto alla porta, era fissato un anello di metallo, a circa un metro da terra.
Accanto all’anello un cartello con il disegno stilizzato di un cane e la scritta ‘io aspetto qui’.
Per terra, una ciotola di metallo piena a metà d’acqua.

Senza dir nulla, mi avvicinai all’anello e vi annodai il guinzaglio.
Mi girai verso Francesca, e dissi ‘ tu aspetti qui –

Lei mi guardò fisso negli occhi, prese il guinzaglio con una mano, fece per dire qualcosa, si trattenne, contraendo la mascella

– giù ‘ aggiunsi, indicando il marciapiede ‘ mi aspetti qui, ma a quattro zampe –

Restammo fermi alcuni istanti.
Lei mi fissò, e io vidi distintamente la rabbia e l’odio nei suoi occhi.
Restai fermo, immobile.

Lentamente, Francesca si abbassò.

Piegò le gambe.
Si inginocchiò a terra.
Mi guardò di nuovo.
Io feci un cenno con il mento, quasi di incoraggiamento.
Lei abbassò lo sguardo verso terra, poggiò sul marciapiede prima la mano destra, poi la sinistra.

Restò così, inginocchiata, con il sedere appoggiato ai talloni, le mani a terra.

Mi guardò.

– alza il culo ‘ le dissi, muovendo appena la mano.

Lentamente, come se fosse schiacciata da un peso, Francesca raddrizzò le gambe e alzò il sedere, mettendosi a quattro zampe sul marciapiede.

– va bene così? ‘ mi disse, ed erano le prima parole che mi rivolgeva dalla mattina, e le uscirono gutturali, dal profondo della gola, quasi un ringhio rabbioso.
– no ‘ risposi sorridendo appena ‘ devi stare appoggiata sui gomiti –

e Francesca ubbidì, abbassandosi sui gomiti, inarcando così la schiena e alzando il culo.
I lunghi capelli, sciolti, toccavano terra, e vederla lì, vestita elegante, a quattro zampe sul marciapiede, legata a un anello per cani, con i pantaloni grigi che le tirano sul culo e la giacca tesa sulla schiena mi fece quasi commuovere, tanto la trovai bella e quasi romantica.

– non ti muovere, mi raccomando, faccio in fretta ‘ le dissi ‘ ah, se hai sete bevi pure ‘ aggiunsi, indicando la ciotola d’acciaio con l’acqua posata accanto al muro.

Entrai, e mi sedetti a un tavolo dal quale potevo tenere d’occhio il marciapiede.
Francesca restava là, ferma immobile, quasi una statua: mi ricordò un’installazione, mi venne in mente Jeff Koons.

Ordinai un caff&egrave americano.

– &egrave sua quella schiava là fuori? ‘ mi chiese un cameriere, che, notai subito, indossava anche lui un collare
– sì, perché? ‘
– ha bisogno di nulla? Vuole che le porti fuori qualcosa? ‘
– no, grazie’ – dissi, e il cameriere fece per allontanarsi ‘ anzi’ aspetti ‘ lo richiamai
– sì? ‘
– avete qualcosa di salato? Magari del riso bianco? ‘
– beh, sì, credo sia rimasto dall’ora di pranzo’ –
– bene, me ne porti un piatto. Qui da me. Non serve che lo scaldi. Me lo metta in un piatto piano ‘

dopo pochi minuti il cameriere tornò, e mi mise davanti un piatto con una buona porzione di riso bianco, freddo.
– del sale, e del peperoncino ‘ dissi, e il cameriere me li portò

aprii la saliera, e cosparsi il riso di sale, e poi aggiunsi una passata di peperoncino.
Presi un cucchiaio e mescolai ben bene.

– lo porti alla mia schiava là fuori ‘ dissi al cameriere ‘ e le dia queste istruzioni. Deve finire tutto entro cinque minuti, quando io uscirò dopo aver bevuto il caff&egrave. Non voglio trovare nemmeno un chicco di riso sul piatto. E non deve usare le mani, né alzare i gomiti da terra. Le dica che io la controllerò da qua –

il cameriere non fece commenti né sembrò interessarsi della cosa.

Era uno schiavo anche lui, probabilmente aveva visto ben altro, e l’ultima cosa che voleva era immischiarsi nei problemi di altri schiavi.

Lo osservai uscire, posare il piatto davanti a Francesca e parlarle.
Lei lo osservò, dal basso in alto. Gli chiese qualcosa.
Lui rispose facendo cenno verso di me, Francesca si girò verso la vetrina e io da dentro la salutai con la mano e sorrisi.
Lei disse ancora qualcosa al cameriere, che scosse la testa, allargò le mani in un gesto di impotenza, girò le spalle e tornò dentro.

Francesca rimase lì, a guardare quel piatto di riso a terra, sul marciapiede davanti a lei.
La gente le camminava accanto, senza degnarla di più di uno sguardo veloce e distratto.

Alla fine abbassò la testa e avvicinò la bocca al piatto.
I capelli le finirono a terra e nel piatto, e non vidi la sua bocca prendere il primo boccone di riso.
Ma dopo un attimo, la sua espressione cambiò.
Il riso era salatissimo e piccante.
Francesca aprì la bocca, con l’istinto di sputare, ma guardò verso la vetrina e mi vide.
Io sorrisi e feci di ‘no’ con la testa.
Francesca deglutì con uno sforzo, e lentamente si abbassò per un altro boccone.

In quel momento, una signora grassa passò sul marciapiedi, portando al guinzaglio un cane di taglia media.
Ignorando del tutto Francesca, il cane si fermò lungo il muro al quale era attaccato il guinzaglio della mia schiava, e fece una lunga pisciata.
Poi si accostò alla ciotola, e bevette.
Poi si allontanò.

Francesca aveva assistito a tutto questo restando immobile, con la testa sul piatto.
Poi prese un secondo boccone e iniziò a masticare.

Resistette per altri due bocconi.

Poi il sale e il peperoncino ebbero il sopravvento, e si girò verso la ciotola dell’acqua dalla quale aveva appena bevuto il cane.
Prese la ciotola tra le mani e bevve.

Lo so, avrei tanto voluto che bevesse stando a quattro zampe, invece che portandosi la ciotola alla bocca.
Ma era pur sempre in ginocchio, nel mezzo del marciapiede, legata a un anello di ferro alla parete dove pisciavano i cani di passaggio e aveva appena bevuto da una ciotola per cani.

Ero soddisfatto, come provava l’erezione quasi dolorosa che avevo nei pantaloni.

Pagai, mi alzai ed uscii.
Francesca era ancora in ginocchio.
Mi guardò, non disse niente.
Io slegai il guinzaglio, diedi un colpetto verso l’alto per farla alzare in piedi e mi incamminai verso la macchina.

– guida ‘ le dissi

Mentre viaggiavamo per la città, seguendo le mie indicazioni, finalmente Francesca parlò.
Lo fece a voce bassa, quasi un sussurro, e dovetti spegnere la radio che passava Dylan, per sentirla.
Parlò tenendo gli occhi fissi sulla strada e le mani strette sul volante.

– perché? Perché mi hai fatto questo? –
io rimasi in silenzio
– posso capire ‘ continuò ‘ anzi no, non posso capire’ ma riesco almeno a immaginare una ragione dietro a’ al sesso’ – scosse la testa ‘ ma questo’ questo –
sospirò, e deglutì a fatica.
Mi sembrò che lottasse contro il pianto.
– questo’ – riprese ‘ questo non ha motivo. Non lo capisco ‘ scosse la testa

Io rimasi in silenzio per qualche istante.
– vedi ‘ le dissi poi ‘ invece &egrave facile da capire. Lo faccio perché posso. &egrave il potere. La certezza di poter disporre di te, contro la tua volontà, &egrave una sensazione che mi travolge. Ed &egrave tremendamente eccitante ‘ aggiunsi, sistemandomi palesemente l’erezione che avevo nei pantaloni.

Francesca non rispose. Continuò a guidare.
– dove andiamo? ‘ chiese a un certo punto, riconoscendo la parte della città in cui eravamo arrivati.

Io la guardai, sorrisi e risposi ‘ riconosci la zona? –
Lei annuì.

– vorrei rifare alcune parti di casa mia’ – spiegai ‘ sai, mi sono convinto che vivere con una schiava richiede alcune modifiche che non sono solo un paio di ganci di ferro alle pareti o al soffitto’ e ho capito che mi serviva un architetto –

Francesca si irrigidì e io continuai ‘ e l’unico studio che conosco &egrave il tuo vecchio studio’ quindi ho chiamato, e ho preso un appuntamento per oggi pomeriggio –
Francesca si girò a gradarmi ‘ non vorrai ‘
– sì, certo ‘ la interruppi ‘ stiamo andando nel tuo vecchio ufficio –
– io non posso’ –
– oh, invece tu verrai con me’ cosa dici, l’effetto sarebbe migliore se entrassi tenendoti al guinzaglio in piedi, o a quattro zampe? –
Francesca scuoteva la testa ‘ non posso’ –
– magari invece che farti parlare ti faccio abbaiare’ o ti lego fuori dalla porta della sala riunioni, a terra, a quattro zampe’ –
– no non’ –
– potrei anche lasciarti a disposizione dei tuoi vecchi collaboratori e dipendenti, mentre io sono in riunione’ ti farebbero lavorare, o magari solo saltare, correre e abbaiare in giro’ –

Francesca rallentò, fermò la macchina a lato della strada e mise le quattro frecce.
Si girò e mi guardò.

– ti prego ‘ mi disse ‘ non farlo –
– lo sai che più mi dici che non vuoi farlo, più cresce in me la voglia di fartelo fare, vero? ‘

Francesca non rispose, ma ripet&egrave ‘ ti prego, ti prego’ –
– perché &egrave così importante? – chiesi
– perché questa ‘ disse, accennando al palazzo di uffici in fondo alla via ‘ questa &egrave la mia vita’ &egrave tutto ciò che avevo ed &egrave tutto ciò a cui spero di tornare’ non puoi togliermi anche questo’ –

– certo che posso ‘ le risposi, duro
– ti prego, tutto, ma non questo –
– ‘tutto’? ‘ chiesi
Francesca tremava leggermente ‘ non so, non so’ ma ti prego questo no ‘
– questa cosa &egrave così importane per te? Le chiesi, e lei annuì.
– e allora ‘ continuai ‘ anche il prezzo che devi pagare per averla deve essere molto alto ‘

Restammo così, in silenzio, nella macchina ferma con le doppie frecce.

– però mi piace davvero l’idea di portare la mia schiava nel suo vecchio ufficio’ non so se ho voglia di rinunciarci’ –
– ti prego ‘ sussurrò Francesca ‘ ti prego ‘
poi alzò lo sguardo, fece un respiro e chiese ‘ cosa vuoi in cambio? ‘
– da te? ‘ lei annuì
– cosa posso volere? Ho già tutto, di te’ – poi guardai fori dal finestrino, riflettendo.

Non stavo fingendo.
Avevo davvero voglia di portarla nel suo vecchio ufficio, e farla umiliare davanti ai suoi vecchi dipendenti e collaboratori.
Ma in quel momento Francesca mi stava dando dato una grande opportunità, e non volevo sprecarla.
Avrei sempre potuto tornarci, in quell’ufficio.

– vediamo ‘ cominciai ‘ vediamo’ ecco cosa potresti fare, se vuoi convincermi a non portarti nel tuo vecchio ufficio –
mi girai e la guardai, poi iniziai a elencare

– voglio pisciarti addosso. Voglio pisciarti in bocca. Voglio che tu beva la mia piscia direttamente succhiandola dal mio cazzo, e che ti faccia frustare mentre lo fai. Voglio che la lecchi da terra, fino all’ultima goccia. Voglio che mi supplichi di farlo, che me lo chieda per piacere. Voglio che mi ringrazi mentre lo faccio, e che tu sia la donna più felice del mondo, mentre lo fai. Voglio vedere la tua gioia più sincera mentre ti piscio addosso e in bocca, e voglio le tue lacrime di gratitudine mentre dopo tutto questo ti inculo mentre ti spingo la testa nella tazza del cesso –

Tacqui.
Francesca mi guardava tremando.
Deglutì.
Io sospirai.

– va bene, come non detto, andiamo all’ufficio – dissi

Lei mi guardò un’ultima volta, poi tolse le quattro frecce e disse, in un sussurro ‘ no. Andiamo a casa -.

Nella scena seguente, Francesca era nuda, aveva la testa infilata nel water, e vomitava rumorosamente, alternando i rigurgiti di vomito a incontrollabili singhiozzi di pianto.

Io ero in piedi dietro di lei, nudo e col cazzo duro.
Nella mano destra il frustino di cuoio.

Con un colpo di frusta sulla schiena la obbligai ad alzare il culo.
Mi inginocchiai dietro di lei, le appoggiai il cazzo al buco del culo e dissi ‘ allora? ‘ accompagnando la domanda con un’altra frustata.
II colpo lasciò un segno rosso sulla schiena di Francesca, che si aggiunse ai molti altri che le si incrociavano sulla sua schiena e le natiche.

– allora? – ripetei

Francesca girò lentamente la faccia sopra la spalla sinistra.
Aveva i capelli bagnati e attaccati alla faccia, le lacrime agli occhi e lunghi fili di bava e vomito le uscivano dalla bocca e dalle narici.

La puzza di vomito e urina riempiva l’aria.
Gli occhi di Francesca erano vuoti, le pupille scure quasi senza luce.

– allora? ‘ chiesi per la terza volta, agitando la frusta.
Francesca aprì appena la bocca, prese fiato e sussurrò

– ti prego’ – e si fermò, piangendo.
Io alzai la frusta e la colpii sul culo, con forza.
Francesca gridò, ma non si mosse.
– ti prego ‘ ripet&egrave ‘ ti prego’ inculami –
io annuii
– ti prego’ inculami’ inculami subito’ –

si fermò.

Le lacrime riempirono i suoi occhi e singhiozzò.
Io sorrisi, la afferrai per i capelli dietro la testa, completamente fradici di piscio, li strinsi con forza e le spinsi la testa giù, dentro il water.
Quando sentii la sua fronte fermarsi contro la ceramica bianca, spinsi forte con il cazzo, esaudendo il suo desiderio.

Poco dopo, quando sentii che stavo per venire, con la destra le tenni la testa schiacciata dentro il water, mentre con la sinistra tirai l’acqua.

Le venni nel culo, grugnendo di piacere, mentre lei cercava di respirare con l’acqua che le ricopriva la faccia.

– lavati ‘ le dissi, tirando fuori il cazzo ‘ e fila in cucina, ho fame -.

Nei due giorni successivi non successe nulla.

Francesca era apatica e distante.

Io non avevo né tempo né voglia di dedicarmi a lei, e quindi mi limitai a ordinarle di farmi da mangiare, lavare, stirare, occuparsi della casa e, una sera, davanti alla tv, mi feci fare un pompino.

La terza sera tornai tardi dal lavoro.

Francesca aveva apparecchiato e preparato una cena leggera.

– Porta tutto in sala, cenerò davanti alla tv ‘ le dissi.

Cenai guardando distrattamente i programmi della sera, bevendo un paio di bicchieri di vino, che mi ero fatto portare da Francesca. Lei, quando non faceva avanti e indietro dalla cucina, restava in piedi accanto a me, ferma, lo sguardo fisso sulla parete.

Alla fine della cena, le accarezzai distrattamente il culo attraverso i pantaloni, e pensai che, dopo che avesse finito di sistemare in cucina, l’avrei scopata.
Ma prima, mi dissi, mi riposerò un paio di minuti.
Avevo la testa pesante.
Troppo lavoro, e questo vino &egrave traditore, sembra leggero e invece mi ha dato subito alla testa.

– mi addormento cinque minuti ‘ sussurrai a Francesca ‘ poi svegliami’ nel frattempo metti tutto a posto ‘ feci in tempo a dire, indicando con la testa la cucina, mentre mi lasciavo cadere sul divano.

Quando mi svegliai la prima cosa che sentii fu un terribile giramento di testa, e un’improvvisa nausea che quasi mi fece vomitare.
Aprii gli occhi lentamente, e la luce sembrò arrivare direttamente nel cervello.
Strinsi gli occhi, e li riaprii più lentamente.

Feci per alzarmi, ma qualcosa mi bloccava.

Girai la testa, e vidi che ero sul mio letto, sdraiato, e che avevo i polsi bloccati da delle corde che sembravano fissate alla testiera del letto.

– ma’ cosa’ –
– liberami ‘ disse una voce alla mia destra
Girai la testa, e vidi Francesca in piedi accanto al letto.
Stava lì, ferma, rigida, e mi guardava fissa.
– liberami ‘ ripet&egrave
– ma cosa’ –
– liberami’ disse di nuovo, e per la prima volta vidi che teneva in mano il frustino di cuoio
– Francesca, calmati’ –
-liberami!!! ‘ gridò all’improvviso, e mi colpì col frustino, prima sulla pancia, poi sul petto, poi in faccia.

I colpi mi fecero sussultare; il dolore era bruciante, provai a muovermi ma le corde alle braccia mi bloccavano, e mi accorsi che anche le caviglie erano bloccate.

– aspetta’ aspetta ‘ le dissi, cercando di ragionare e di resistere al dolore che sembrava diffondersi su tutto il corpo, ma lei alzò il frustino e mi colpì di nuovo.
Cercai di girarmi per evitare il colpo, e presi due frustate sul braccio.

‘ va bene’ va bene’ basta!!! Fammi parlare’ non sono sicuro’ devo’ dobbiamo capire come fare’ –

Francesca si fermò.
Mi guardò, ancora con gli occhi spalancati; il respiro era affannato

– tu’ tu’ tu mi hai fatto’ mi hai fatto fare’ tu’ – balbettava scuotendo la testa ‘ tu mi hai fato delle cose orribili!!! ‘ gridò, e di nuovo abbassò il frustino con forza, urlando ‘ porco! Stronzo! Schifoso! Maiale! ‘ e ogni insulto era accompagnato da un colpo
– basta! ‘ gridai, quando mi sembrava di non avere più una arte del corpo che non mi facesse impazzire di dolore ‘ basta!!! Se vuoi che ti liberi devi smetterla!!!! ‘

Francesca si fermò.

– puoi liberarmi? ‘ mi chiese, finalmente
Io sospirai ‘ non lo so ‘
Lei sollevò il frustino ‘ ferma!!! ‘ gridai ‘ davvero’ non lo so’ non ho mai studiato le leggi sulla liberazione degli schiavi’ –
– cosa c’entra? ‘ mi interruppe lei ‘ mi hai comprato’ hai sempre detto che sono ‘tua” quindi puoi fare quello che vuoi, anche liberarmi!! ‘
– non lo so ‘ ripetei ‘ ascolta, quando una persona viene messa all’asta, succede perché lo stato affida a un altro cittadino, quello che si compra lo schiavo, il compito di punire lo schiavo al posto dello stato stesso’ insomma, il padrone ha il dovere di fare quello che lo stato dovrebbe fare ma non vuole o non può fare’ quindi liberare uno schiavo non &egrave così semplice’ devo’ dobbiamo studiare’ –

Francesca rimase in silenzio.

Decisi di provare a farla parlare: almeno, fino a quando parlava non mi avrebbe frustato.
– ho una sete terribile’ e un malditesta che mi spacca in due’ cosa mi hai fatto?-
– anestetico’ e sciroppo per la tosse’ nell’armadio dei medicinali’ nel vino’ ho fatto un corso specialistico di chimica biologica, all’università’ –
– cazzo’ sto malissimo ‘
– peggio per te. Adesso dimmi, cosa devo fare perché tu possa liberarmi? ‘
– se c’&egrave un modo sarà sicuramente scritto nel contratto che ho accettato quando ti ho comprata’ mi’ mi serve il computer’ –

Francesca uscì dalla stanza, diretta verso il mio studio.
Poi rientrò in quel momento con il mano il mio portatile.
– ecco ‘ disse ‘ adesso? ‘
– adesso apri l’indirizzo che &egrave il primo tra i preferiti’ ecco, quello ‘ proseguii mentre Francesca mi faceva vedere lo schermo ‘ ecco, adesso clicca su ‘accedi” –
– c’&egrave una password? ‘
– no ‘ risposi io ‘ devo usare il lettore di impronte digitali’ vai nel mio studio’ nel secondo cassetto’ una specie di chiavetta USB verde con un piccolo schermo su entrambi i lati’ –
Quando tornò mi chiese ‘ &egrave questo? ‘
– sì ‘
– e adesso? ‘
– adesso attaccalo al computer’ sì’ così ‘
– e adesso? ‘
– adesso devo far leggere al computer le mie impronte digitali’ l’indice destro sopra e quello sinistro sotto’ vedi che la chiavetta ha due schermi? ‘
– ecco ‘ disse Francesca, avvicinando il computer con attaccata la chiavetta alla mia mano legata
– non ce la faccio ‘ dissi, perché non c’era abbastanza spazio tra la mia mano legata e il muro ‘ e poi devo usare le due mani insieme’ i due indici ‘

Francesca mi guardò ‘ no ‘ disse poi

Io non disse nulla, abbassai la testa sul cuscino e sospirai
– non c’&egrave un altro modo? Una password normale? ‘ mi chiese poi
– non lo so. Probabilmente sì, ma io ho sempre usato questo’ dopo i primi giorni poi non ci sono praticamente più andato’ non ho più avuto bisogno’ –
– certo!!! ‘ disse lei, con un altro scatto di rabbia ‘ perché avevi tutto quello che volevi’ – si girò, afferrò il frustino, e questa volta mi colpì mirando direttamente al cazzo.

Anche attraverso i pantaloni, il dolore fu terribile.

Come un ferro infuocato che passava direttamente dal cazzo al cervello.

Questa volta gridai, cercai con tutte le mie forze di liberarmi dalle corde, sentii la pelle sui polsi strapparsi e le lacrime scendere lente lungo le guance.

– fa male eh? ‘ gridò Francesca, e il secondo colpo fu ancor più doloroso del primo – fa male? E questo? E questo? – gridò, cercando di colpirmi sempre sul cazzo.
Io mi agitavo e muovendomi riuscii a evitare di essere colpito in pieno, ma adesso sentivo un dolore terribile in tutta la zona del cazzo, e temevo anche di sentire il caldo di qualche goccia di sangue.
.
– se mi fai svenire non posso sbloccare il pc’ – riuscii a dire
– come facciamo? ‘ mi chiese lei, sempre con il frustino in mano
– liberami una mano ‘
– no ‘
– allora non c’&egrave modo. Aspetta!!! ‘ gridai, vedendo che stava di nuovo alzando il frustino ‘ aspetta’ una mano sola.. così la avvicino all’altra’ tocco il lettore di impronte e attivo il pc’ sarò legato con l’altra mano e le gambe’ e tu hai la frusta’ se provassi a fare qualsiasi cosa mi potresti fermare a forza di frustate’ –

Francesca riflett&egrave.
Poi lentamente si mosse.

– solo una mano ‘ disse, guardandomi e minacciandomi con il frustino ‘ e poi ti fai di nuovo legare ‘
– solo una mano ‘ annuii io
Lentamente iniziò a lavorare sul mio polso destro.
Pochi istanti dopo, sentii le corde scivolare via e mossi le dita, grugnendo per il dolore del sangue che ritornava a circolare.

– muoviti ‘ disse Francesca, spostando il pc alla mia sinistra ‘ fermo!!! ‘ gridò subito dopo, quando vide la mia mano muoversi verso il basso
– scusa’ – sussurrai ‘ mi fa male là’ – indicai con un dito il basso ventre ‘ voglio solo appoggiarci la mano sopra per un istante ‘ ti prego’ lentamente’ – e mentre dicevo così, muovevo lentamente la mano verso il mio cazzo

– metti l’indice della sinistra qui ‘ disse allora Francesca, avvicinando il pc alla mia mano ancora legata ‘ dove deve stare? Qui? Su questo piccolo schermo verde? ‘ chiese, mentre mi afferrava l’indice sinistro e lo tirava verso di se’

– adesso l’altro dito’ muoviti, vieni q ‘

Francesca aprì la bocca, si bloccò un istante, poi i suoi occhi si girarono verso l’alto e cadde distesa sul letto.

Io rimasi fermo qualche secondo, respirando piano, senza far nessun rumore.

Francesca non si mosse.

Con la mano destra, provai a toccarla sulla spalla.
Di nuovo, non successo nulla.

– mi senti? ‘ le chiesi piano
– mi senti? ‘ ripetei a voce più alta

Abbassai la testa sul cuscino, e finalmente sorrisi.

– troia!!!! ‘ gridai ‘ troia!!!!! ‘ mentre nella mano destra stringevo il telecomando del suo collare, sul quale continuavo a premere con rabbia il pulsante rosso, quello che faceva immediatamente svenire chi portava il collare.

Quello piccolo, come il telecomando dell’antifurto di un’auto.
Quello che ogni mattina mettevo nella tasca destra dei pantaloni.
Quello che avevo afferrato mentre Francesca cercava di farmi appoggiare il dito della mano legata sul lettore di impronte digitali.

– troia. Brutta maledetta troia ‘ ripetei ossessivamente, mentre con la mano tremante mi liberavo prima delle corde sul polso sinistro, poi da quelle delle caviglie.

Finalmente mi alzai in piedi, rischiando di cadere per quanto erano diventati insensibili i piedi a causa delle corde che avevano bloccato la circolazione, e osservai Francesca svenuta sul letto.
Mi sedetti sulla sedia all’angolo della camera.

E adesso? Mi chiesi.
E risi, risi forte, appoggiandomi alla spalliera, risi felice.

Ridevo perché mi era venuta in mente quella battuta, quella di Pulp Fiction, quando Travolta chiede a Marcellus Wallace, dopo averlo liberato dai due pazzi maniaci, ‘e adesso?’.

E Marcellus risponde ‘e adesso… ora ti dico adesso cosa: chiamerò qualche scagnozzo strafatto di crack per fare un lavoretto in questo cesso, con un paio di pinze e una buona saldatrice. Hai sentito quello che ho detto, pezzo di merda? Con te non ho finito neanche per il cazzo! Ho una cura medievale per il tuo culo!’.

Quando smisi di ridere mi alzai, e alzandomi sentii che tutto il corpo mi bruciava, per i colpi che mi aveva dato Francesca.
‘forza’ mi dissi ‘abbiamo un lavoro da fare” e mi avvicinai al letto, afferrando il corpo abbandonato di Francesca da sotto le ascelle e trascinandolo fuori dalla stanza. Quando entrai nella stanza, Francesca scattò verso l’angolo più lontano, accucciandosi e mettendosi in posizione di difesa.

Mi guardò, i suoi occhi scuri spalancati dalla paura.
Cercò di vedere se portassi qualcosa, un bastone, una frusta, o qualsiasi altro strumento per farle male.

Ma io in mano avevo solo dei vestiti, che lanciai al centro della stanza

– cambiati ‘ le dissi ‘ quei vestiti sono sporchi
lei non si mosse
– non preoccuparti, non ti farò nulla ‘ dissi, sedendomi a terra, appoggiato alla parete più lontana da lei ‘ voglio solo guardarti, vederti nuda l’ultima volta –

di nuovo, Francesca non si mosse, ma mi guardò interrogativa.

Io scossi la testa ‘ ti riporto alla casa d’aste ‘ spiegai, tranquillo, alzando le spalle in un gesto di rassegnazione ‘ ho chiamato, ti riprendono, mi ridanno poco meno del settanta per cento di quello che ti ho pagata’ direi che alla fine non &egrave male’ –

Francesca fece per dire qualcosa, ma ancora rimase zitta, aprendo appena le labbra.

– Non posso tenerti ‘ le dissi, calmo ‘ ho avuto paura. Potresti farmi male, intendo male davvero, non come prima’ oh, no che le frustate che mi hai dato siano state piacevoli, eh ‘ le dissi, sorridendo, e alzai la maglietta sul costato, facendole vedere le strisce rosse e bluastre ‘ ma male davvero, intendo, e non posso correre questo rischio.

Con la testa, feci un cenno verso i vestiti, che giacevano al centro della stanza ‘ dai, cambiati, non abbiamo molto tempo’ –

Finalmente, Francesca parlò ‘ ma’ cosa’ cosa’ –
– Cosa ti succederà? Francamente, non lo so. Ho chiesto, mi hanno detto che ti terranno loro fino al prossimo week end, quando &egrave in programma un’asta internazionale’ compratori anche dall’estero, tipo Emirati Arabi, Russia, estremo oriente, Africa’ se sei fortunata, finisci a lavorare in un call center in India’ non abbiamo sempre detto che quelli dei call center sono i ‘nuovi schiavi’? Oppure finirai nell’harem di un ricco emiro di Dubai’ niente di terribile, direi –

Francesca non disse nulla, ma mi guardò.
Non riuscii a reggere quello sguardo, e sbuffai ‘ lo so. &egrave molto più probabile che non ti vada così bene. Immagino che le alternative più probabili siano le miniere, i campi di lavoro’ –
Francesca trattenne il respiro ‘ o un bordello’ immagino’ mi hanno detto’ che molte delle schiave, diciamo così, occidentali e di dell’aspetto’ –

Non finii la frase.

Francesca tremava.
Scuoteva la testa.

Io presi dalla tasca il telecomando del collare, quello che comandava la scossa di dolore.

– Non farmelo fare ‘ le sussurrai ‘ per piacere, non farmelo fare’ vestiti –

Rimasi seduto, a guardarla.
Aspettai, per uno o due minuti, fino a che lei si mosse.
Si alzò, andò al centro della stanza, prese i vestiti e tornò verso l’angolo della stanza, dove iniziò a spogliarsi e a rivestirsi.
Io la osservavo senza far nulla, ma anche così, solo guardandola, mi venne il cazzo duro e iniziai a sentire caldo.
Ma rimasi fermo, fino a quando no fu vestita.
Poi mi alzai.

– Andiamo? ‘ le chiesi, e le porsi la mano.
Lei non prese la mano, ma mi seguì.

In macchina, seduti uno accanto all’altro, mentre aspettavamo che il cancello si aprisse, senza guardarla le dissi ‘ non ti arrabbiare, ma te lo voglio dire: queste insieme a te sono state le settimane più intense della mia vita, e voglio ringraziarti, per tutto ‘
Lei non rispose.

Il viaggio fu breve, e lo facemmo in silenzio, senza nemmeno la radio, senza guardarci.

Arrivammo davanti alla casa d’aste, e io mi diressi all’ingresso sul retro, al cancello dal quale, poche settimane prima, ero uscito con Francesca sul sedile di dietro della mia macchina.

– Fermati ‘ sussurrò lei

Rallentai.

– Fermati! ‘ ripet&egrave, alzando la voce.

Mi fermai sul ciglio della strada, misi le doppie frecce e per la prima volta da quando eravamo usciti dalla stanza la guardai.
Tremava.
Aveva gli occhi lucidi.
Mi guardò, poi chiuse gli occhi e sussurrò qualcosa.

– Cosa? ‘ chiesi
– ‘tienimi tu –

Io sospirai.
Spensi il motore, mi appoggiai allo schienale della macchina, sospirai di nuovo.

– Non voglio’ non voglio’ ho’ ho paura ‘ disse lei, con un filo di voce

Io iniziai a scuotere la testa

– Ho paura ‘ disse di nuovo, e iniziò a piangere, lentamente, con piccoli singhiozzi, con le lacrime che scendevano lungo le guance, tirando su col naso ‘ ho paura’ non voglio –

Io rimasi zitto.
Non per calcolo, o per strategia.
Semplicemente, non sapevo cosa dire.

La decisione di restituire Francesca mi era costata una notte insonne, mezza bottiglia del mio Bunnahabhain preferito, mille ripensamenti e dubbi, e non ero pronto a rimettere tutto in discussione.

Non sapevo cosa dire.

– Tienimi ‘ disse lei, tra i singhiozzi ‘ tienimi’ tu’io’ io’ prometto’ –
– No ‘ le dissi, senza guardarla
– No’ non rimandarmi là’ tienimi’ ti prometto che ‘
– No! ‘ dissi di nuovo ‘ non promettere niente! –

Francesca tacque.

Finalmente si girò e mi guardò, gli occhi neri bellissimi, resi ancora più profondi dalle lacrime, le minuscole rughe accanto agli occhi accentuate dalla stanchezza, le labbra pallide, i capelli spettinati, e io sentii qualcosa dentro di me, e le parole iniziarono a uscire da sole, e non provai nemmeno a fermarle

– Non promettere niente’ ti voglio, ti desidero così come sei’ ti voglio rabbiosa, ribelle, furibonda, umiliata, dolorante, piangente, voglio sentire i tuoi insulti, le tue grida, voglio sentire il tuo disprezzo, il tuo odio, il tuo dolore, la tua paura’-

E mi girai, e scossi la testa.

Francesca lentamente si avvicinò, e io lentamente feci lo stesso.
Fu lei la prima ad allungare un braccio, e la strinsi piano e lei appoggiò la sua testa sulla mia spalla e io annusai il suo odore e lei pianse, pianse forte e a lungo, e io le accarezzai i capelli e le guance, senza dire nulla.

– Andiamo’ via ‘ disse lei, accennando con un brivido all’edificio, al cancello in fondo alla strada.

Io feci per mettere in moto la macchina, ma mi fermai, mi girai verso di lei e le dissi ‘ guardami –

Lei si girò verso di me.
Io mi mossi verso di lei, come per abbracciarla di nuovo, e lei si avvicinò appena.

E io le diedi uno schiaffo.
Con la destra, a mano aperta, forte.
Lei gridò, e si portò la mano alla guancia, stupita.

– Questo &egrave per quello che mi hai fatto ‘
– Va bene ‘ rispose lei

E quel ‘va bene’ mi convinse ad accendere la macchina, fare inversione e, senza voltarmi indietro, riprendere la strada di casa.

***

A casa, seduti uno di fronte all’altra al tavolo di cucina.
Bevemmo in silenzio un caff&egrave, ci guardammo.
Finalmente mi decisi, e ruppiil silenzio ‘ tutto come prima ‘ le dissi

Francesca mi guardò fisso, poi lentamente sospirò, portando una mano al collare e infilandoci un dito, come se fosse troppo stretto, poi annuì ‘ tutto come prima ‘ e abbassò gli occhi.

– Vai a lavarti e vestirti come si deve ‘ le dissi allora ‘ ma prima metti a posto –

La osservai, mentre si alzava, prendeva le tazzine e le sciacquava e metteva in lavastoviglie, e poi puliva la caffettiera.
Le guardo il culo, la schiena, i piedi.

Ho fatto bene? mi chiesi, oppure mi sono fatto travolgere dai sentimenti, da questa follia, dall’attrazione che provo per lei? Posso aver deciso non per me, ma per lei, per evitarle chissà quale destino terribile? Posso essere… innamorato?

Poi lei finì e senza dire nulla si diresse verso il bagno ‘ non metterci troppo ‘ le dissi, e lei annuì.

– Spogliati ‘ le dissi quando tornò, e lei, che si era appena vestita, inizò a spogliarsi.

Era bella, profumava di pulito e di se’, e io la guardai togliersi la camicia, i pantaloni, le scarpe ‘ rimettile ‘ le dissi quando si tolse i pantaloni, il reggiseno e il piccolo perizoma nero.

– Qui ‘ dissi, e lei si avvicinò.

Le misi il guinzaglio, – giù ‘ e lei si mise a quattro zampe ‘ andiamo ‘ e la portai in camera.

Francesca si impegnò.
Io ero nudo, sdraiato sul letto e lei era china tra le mie gambe, che mi faceva un pompino.

Presi un cuscino, lo misi dietro la testa e la guardai, dandole le istruzioni con tono neutro, come se stessi parlando di lavoro o di un argomento qualsiasi.

– Apri gli occhi’ guardami sempre mentre me lo succhi’ brava’ usa la lingua, sia quando &egrave in bocca sia quando &egrave fuori’ accarezzami con una mano e con l’altra massaggiami piano le palle’ così, bene’ mugula’ fammi sentire come quello che stai facendo ti piace e ti eccita’ sì così va bene’ adesso leccami il culo’ –

E dicendo così allargai le gambe spingendo in avanti il culo – ‘brava’ tutto intorno’ e adesso spingi dentro la lingua e falla girare’ brava’ continua a mugulare’ ringraziami –

Francesca si fermò.
Solo un piccolo momento di esitazione, che io mi godetti tutto, ma che feci finta di non aver notato, poi mi guardò fissa e disse

– Grazie di permettermi di leccarti il culo ‘
– No ‘ le dissi ‘ con convinzione e trasporto’ –
– Grazie di permettermi di leccarti il culo ‘ ripet&egrave Francesca, e questa volta lo disse davvero con convinzione, sembrava un vero ringraziamento

– Leccati le labbra mentre lo dici ‘ e lei ripet&egrave – Grazie di permettermi di leccarti il culo ‘ e mentre lo diceva, con ancor più convinzione, si leccò le labbra, sensuale

– Ti piace vero? ‘ e mentre glielo dicevo la guardavo fisso, facendole capire che tipo di risposta volessi, e lei

– Adoro leccarti il culo ‘
– E cosa preferisci, il sapore o l’odore? ‘
– Tutto, mi piace tutto del tuo culo ‘ rispose Francesca, e si leccò di nuovo le labbra
– E allora chiedimelo ‘
– Posso leccarti il culo? ‘
– Non puoi farne a meno, vero? ‘
– No’ non posso resistere’ voglio leccarti il culo ‘
– E allora va bene, puoi farlo ‘

E lei tornò a spingere la sua faccia tra le mie gambe, il naso appena sotto le mie palle e la lingua tornò a scorrere sul mio ano, prima lenta, attorno, e poi lunga e veloce, spinta dentro.

E tutti e due sapevamo cos’era appena successo, cosa stava succedendo.

Un test, una prova.
Io ho voluto vedere se, quanto e come lei fosse davvero disposta ad accettare quello che io voglio da lei.

E lei, lei si stava impegnando per dimostrarmi che aveva deciso.

– Porta qui il tuo culo ‘ le dissi

E lei, senza smettere di leccarmi il culo, si girò su se stessa e portò il suo culo verso di me, alla mia destra.

Io alzai la mano e iniziai a sculacciarla.

Né forte né piano, ma metodicamente, uno, due, cinque, dieci, quindici sculacciate.

A ogni colpo lei sussultava appena, si irrigidiva e la sua lingua aveva un piccolo guizzo, ed emetteva una specie di ‘mmh’ soffocato, ma non disse nulla, non si ribellò, non smise di fare quello che le avevo detto di fare.

E allora io mi presi in mano il cazzo, mi accarezzai appena e sentii di star per venire

– Sto per venire ‘ dissi, roco – succhia –

E Francesca mosse appena la testa, e dal mio culo portò la bocca sul mio cazzo
.
Io con la sinistra le spinsi la testa giù, giù, con forza, mentre con la destra le diedi quattro o cinque sculacciate forti, una dopo l’altra, e mentre succedeva tutto questo, venni, urlando, e lei continuò a succhiare finch&egrave non la fermai ‘ piano, adesso, pulisci piano’ – e lei rallentò e pulì, piano.

Quando mi rilassai, e allungai la testa sul cuscino e il respiro tornò normale, le chiesi ‘ come si dice? ‘
– Grazie ‘ rispose appena lei
– Di cosa? ‘
– Di essermi venuto in bocca’ – sussurrò
– Voglio qualcosa di più volgare, che contenga le parole ‘sborra’, ‘pompino’, ‘puttana’, ‘ingoiare” – dissi, senza alzare la testa

Sentii Francesca muoversi.

Si girò, e venne a mettere la sua faccia davanti alla mia, stando in ginocchio davanti a me.
Mi guardò fisso.
Annuì.

– Grazie ‘
– Per cosa? ‘
– Per aver permesso alla tua puttana di farti un pompino e di averle permesso di ingoiare la tua sborra –

Io soprrisi, la attirai a me e la baciai.
Sapeva di buono, sapeva di lei, e sapeva anche di me.
Lei ricambiò il mio bacio.

– Te lo farei ripetere ininterrottamente per un’ora’ –
– Posso farlo, se vuoi -.
– Tornerò tardi ‘
le dissi uscendo, quella mattina
‘ tu mangia pure, io ho una cena di lavoro. Metti tutto a posto, se vuoi guarda la TV, leggi, fai quello che vuoi, poi vai a letto –

E sulla porta, prima di uscire ‘ anzi, vai nel mio letto: stanotte dormirai lì. Nuda, mi raccomando –
E uscii.

Avevo in programma di tornare a casa subito dopo la cena di
lavoro e divertirmi un po’ con Francesca, sia che fosse sveglia, sia che fosse già a letto.
Ma le cose andarono diversamente.
La cena, per colpa di un cliente, iniziò molto tardi, e si prolungò in un paio di bicchieri bevuti in un paio di locali.
Insomma, quando arrivai a casa le due di notte erano passate da un pezzo, mi si chiudevano gli occhi dalla stanchezza e sicuramente il mix di aperitivi, vino e altro non aiuta né il mio equilibrio, né la mia reattività.

Entrai in camera, mi spogliai buttando i vestiti a casaccio sulla piccola poltrona, mi imposi un passaggio veloce in bagno per lavarmi i denti, infilai una vecchia tshirt, mi sdraiai a letto e, praticamente, svenni.

Mi svegliai in piena notte, un rumore, forse, o solo un brutto sogno.

Il cellulare sul comodino segnava le 4,27.
Feci per girarmi e rimettermi a dormire, ma mi accorsi di una presenza accanto a me, nel buio della camera.

Ci volle qualche secondo, ma poi mi ricordai: Francesca!

E niente, lo sapete come succede, no?
Tu sei lì, nel dormiveglia, che stai per lasciarti andare e tornare a dormire, e magari pensi soddisfatto che hai davanti ancora tre o quattro ore buone di sonno, e ti giri e sbadigli e’ e niente.

Il cazzo.
Il cazzo, lui, si sveglia. E non c’&egrave niente da fare.

E il mio cazzo si svegliò, proprio mentre io stavo per tornare a dormire.
E io feci l’errore di abbassare una mano e accarezzarmelo appena, sotto i boxer.

E alle 4.28 di notte, mi girai.

Allungai una mano, e trovai i capelli di Francesca, il suo collo e il suo collare.
Afferrai il collare, e la tirai con forza verso di me.
Lei, che dormiva sul fianco, gridò, svegliandosi di soprassalto, e cercando di allontanarsi.

Diedi un altro strattone al collare, più forte.
Lei gridò di nuovo.
Nel buio, scalciai le coperte e le infilai una mano tra le gambe, la girai a pancia in giù e le salii sopra.

Lei, smise di gridare o ribellarsi, e rimase ferma, immobile, sotto di me. Sentivo solo il mio respiro, affannoso e eccitato, e il suo, lento e rabbioso.

Mi tolsi i boxer, con una mano le allargai appena i glutei e spinsi il mio cazzo tra le sue gambe.

Francesca inarcò la schiena, e quando spinsi in avanti mi ritrovai nella sua figa, invece che nel suo culo, come volevo.
Ma la sua figa era calda, e dopo due o tre spinte si lubrificò a sufficienza da permettermi di scoparla tranquillamente.
Mi alzai sulle braccia, e con la destra le afferrai, da dietro, prima il collare e poi i capelli.

Lei gemette e io tirai più forte.

Mi abbassai di nuovo su di lei, le infilai una mano sotto il petto e le afferrai un capezzolo, che strinsi.

Lei gemette di nuovo, più forte.

Non avevo voglia di fare nulla, volevo solo scopare, venire e tornare a dormire, e quindi la scopai ancora per qualche istante, e quando sentii di star per venire uscii da lei, mi sdraiai a pancia in su e cercai nel buio il suo collare.

Quando lo trovai, la tirai verso di me e spinsi la sua faccia sul mio cazzo.
Appena sentii il calore della sua bocca, venni.

Rimasi nella sua bocca per qualche istante, sentendo il cazzo che piano piano si rilassava, poi mi girai, tirai su le coperte e abbracciai il cuscino, pronto per dormire.

Francesca rimase ferma, nel buio accanto a me.

Poi la sentii muoversi e nel dormiveglia vidi la luce del bagno accendersi, e sentii i suoi piedi nudi attraversare la stanza, e la sentii chiudere la porta del bagno dietro di se’.

Di nuovo, mi girai per rimettermi a dormire, ma sentii lo stimolo di urinare.
Resistetti un paio di secondi, cercando di addormentarmi, ma poi sbuffai e decisi di alzarmi, per non dovermi poi alzare di nuovo.

Con addosso solo la maglietta, e nudo dalla vita in giù, mi avviai verso il bagno e, senza bussare o dire nulla, aprii la porta.
Francesca era seduta sul water, i capelli spettinati, gli occhi gonfi di sonno e, forse, lucidi di pianto.

Mi guardò in silenzio, e istintivamente si strinse nelle spalle e coprì i seni con una mano.

Malgrado tutto quello che era successo tra noi, ancora era in imbarazzo nel condividere con me un momento intimo e personale come quello di fare pipì.

Io rimasi in piedi, davanti a lei, aspettando che finisse.

Senza guardarmi, Francesca prese qualche foglio di carta igienica, si pulì in fretta tra le gambe e si alzò, tirando lo sciacquone.

Appena lei si alzò, io le scivolai accanto e mi sedetti sul water (perché io sono sempre stato un ometto pulito, e quando posso faccio pipì seduto).

Francesca fece per uscire dal bagno.
– Ferma ‘ le dissi
Lei si bloccò.

Nuda, con i capelli che le coprivano le spalle toniche, la vita stretta ma femminile, i glutei tondi e pieni, le gambe lunghe, era una vista meravigliosa.
Ma non era quello che mi interessava.

– Vieni qui ‘ le dissi, la voce ancora impastata dal sonno

Lei si avvicinò.
Rimase in piedi accanto a me, seduto sul water.
La guardai, da sotto in su.
Lei rispose al mio sguardo con un’espressione neutra, ma intuivo timore e dubbio dietro al sua forzata indifferenza.

– In ginocchio ‘ le dissi

E lei, sempre in silenzio, dopo un paio di secondi, lentamente si inginocchiò accanto a me.

– Qui davanti ‘ le dissi, indicando le piastrelle proprio davanti al water.

Francesca, già in ginocchio, si spostò di lato e si mise davanti a me.

Allargai appena le ginocchia ‘ più vicino ‘ dissi, e lei si avvicinò. Fino a che il suo ombelico quasi toccò la ceramica bianca del water.

Senza dir nulla, con la mano destra spinsi appena in giù il cazzo, verso il basso, e socchiudendo gli occhi iniziai a pisciare.
Fu una pisciata lunga, rumorosa e liberatoria, con tutto quello che avevo bevuto quella sera.
Di solito, prima di alzarmi dal water, come posso spiegarmi, lo ‘sgocciolo’ per bene, e ci passo anche un po’ di carta igienica.

Questa volta non feci nulla di tutto questo.

Quando il flusso finì, mi presi il cazzo, molle e rilassato, tra le dita della mano destra e lo alzai

– Pulisci –

Francesca mi guardò, senza capire.
Io abbassai gli occhi indicando con la testa il mio cazzo, che tenevo in mano, verso di lei ‘ pulisci – ripetei

Francesca non guardò il mio cazzo.
Rimase ferma, fissandomi con espressione neutra.
Io la guardai, poi inclinai appena la testa verso destra e dissi ‘ allora? ‘ mentre con la mano muovevo appena avanti e indietro il cazzo.

Lei mi guardò ancora, e ancora.

Poi, senza dir nulla, abbassò la testa.
Con la sinistra le scostai i capelli da davanti alla faccia e, mentre mi appoggiavo all’indietro, contro la parete, dissi ‘ guardami mentre lo fai –

Francesca si fermò con le labbra a un centimetro dal mio cazzo.

– Lecca – dissi

E lei socchiuse gli occhi e lentamente aprì la bocca e tirò fuori la lingua ‘ guardami ‘ ripetei, lei aprì gli occhi, e iniziò piano a leccarmi la cappella.

– Prima la punta, poi tutto intorno, pulisci bene ‘ e Francesca obbedì, e io sentivo e vedevo la sua lingua muoversi rossa e lenta attorno al mio cazzo, e i suoi occhi fissi nei miei, freddi e inespressivi

– Adesso succhia ‘ dissi, e quando lei preso in bocca il cazzo chiusi gli occhi, feci un respiro e mi concentrai.

Dopo pochi secondi, contraendo i muscoli, riuscii a far uscire qualche goccia di piscio che mi era rimasta dentro.

Aprii gli occhi appena in tempo per vedere Francesca accorgersi di quello che stava succedendo nella sua bocca, e cercare istintivamente di ritrarsi.

La bloccai mettendole con forza una mano sulla nuca ‘ succhia ‘ ripetei

Lei chiuse gli occhi, per un attimo non riuscì a deglutire e sembrò che stesse per vomitare, poi fece uno sforzo e ingoiò quelle poche gocce calde e acide.

Quando riaprì gli occhi, di nuovo mi parve di vedere delle lacrime pronte a scendere sulle sue guance, ma non successe nulla.

Finalmente lasciai la presa sulla sua nuca, e subito, quasi con ribrezzo, lei si staccò dal mio cazzo.

– Sei stata brava ‘ dissi, e le accarezzai la testa, come si avrei fatto con un cane, e vidi questo la infastidiva, tanto che si irrigidì e quasi mi disse qualcosa, ma si trattenne

– Sei stata brava ‘ ripetei, alzandomi, e mentre mi allontanavo verso la camera aggiunsi ‘ potremmo rifarlo, magari la prossima volta ti terrò da parte più di qualche goccia’ vedremo –

E così dicendo, mi buttai sul letto, e mi addormentai, dormendo il sonno dei giusti.
O di chi, come me, possedeva una schiava bella, disperata e intimamente ribelle, come Francesca: e quello, se non &egrave il sonno dei giusti, &egrave comunque un gran bel sonno.

Mi svegliai solo una volta, non so se dopo pochi minuti o qualche ora, quando accanto a me sentii Francesca singhiozzare e tirare su col naso, piano, cercando di non fare rumore.

Pensai di infilarle un dito nel culo, così, per distrarla, ma lasciai perdere.
In fondo, era tardi e volevo dormire.

Avrei avuto tutto il tempo, per fare quello, e mille altre piccole e grandi cose, alle quali avrei pensato domani.

Che bello, domani, pensai, e mi addormentai.

La mattina dopo mi svegliai con calma.
Non avevo nulla da fare, era sabato.
Quindi dormii fino a tardi, che poi per me non era altro che svegliarmi verso le 8.30 e cincischiare tra il sonno e la veglia fino alle 9.00.

Francesca, invece, dormiva tranquilla, accanto a me.

Quando ormai mi ero svegliato del tutto, mi alzai e aprii le tapparelle, inondando la stanza della luce del mattino.

Francesca si svegli’.

Ricordavo, da quando eravamo stati per qualche settimana pi’ o meno insieme, che lei era la tipica donna che al mattino non ti rivolgeva nemmeno la parola se prima non aveva bevuto almeno due tazze di caff’, non era stata in bagno a fare tutte le sue cose con calma e non aveva gentilmente deciso che il mondo poteva finalmente godere della sua attenzione’ scherzi a parte, Francesca era la tipica persona con il risveglio molto lento.

A differenza mia, che appena suona la sveglia sono pronto, carico e allegro. Lo so, spesso non sono il compagno ideale per la mattina.

Francesca si mosse, lentamente.
Istintivamente port’ una mano, lenta, al collo, dove sent’ il collare, e la sua faccia sprofond’ nel cuscino.
Poi afferr’ il lenzuolo, e fece per coprirsi.

– Sveglia! ‘ gridai, allegro ‘ sveglia!! ‘ ripetei, e in un colpo tirai via il lenzuolo, lasciando Francesca scoperta, nuda, a pancia in gi’.

Lei non fece nulla, se non tirare lentamente le ginocchia verso di se’, assumendo una specie di posizione fetale, sempre con gli occhi chiusi e la faccia seminascosta nel cuscino.

Vederla l’, nuda a letto, e la naturale reazione maschile del mattino, quella che gli inglesi chiamano la ‘morning glory’, mi fece venire voglia di saltare sul letto e scoparla l’, immediatamente.
Ma mi trattenni, e dissi ‘ apri gli occhi e guarda -Francesca, forse per il tono che usai, apr’ finalmente gli occhi e alz’ appena la testa verso di me.

Io, con un sorriso, mi abbassai appena i boxer e le mostrai il cazzo, duro, che puntava dritto verso di lei.Lei non fece nulla, solo un piccolo sospiro, come di rassegnazione, anticipando quello che stava per accadere

– Scegli ‘ le dissi invece ‘ o ti alzi immediatamente, ti lavi e ti vesti come dico in pochi minuti, e mi prepari la colazione’ o – mi interruppi- o’? ‘ sussurr’ lei
– O vengo l’, ti scopo, ti inculo, ti sculaccio e ti vengo in faccia’ e poi ti alzi, ti lavi e ti vesti e mi prepari la colazione ‘ risposi, sorridendo.

Francesca rimase ferma un secondo, poi vide il mio sorriso e, inaspettatamente, un accenno di sorriso le comparve sulle labbra

‘ allora’ ti faccio la colazione? ‘

Io sorrisi a mia volta, e poi annuii ‘ s’, ottima scelta ‘ e, mentre lei si alzava dal letto, aggiunsi ‘ per’ prima dagli almeno il bacino del buongiorno ‘

Francesca si avvicin’, lenta, mi guard’, si accucci’ sulle ginocchia, mi prese il cazzo nella mano destra e ci appoggi’ sopra le labbra- Buongiorno ‘ disse, guardando il cazzo ‘ ben alzato ‘ poi mi guard’, alzandosi, e mi chiese ‘ va bene cos’? ‘ va bene ‘ risposi.

Mi rimisi a letto, concentrandomi per non saltarle addosso.
Presi l’ipad, scaricai i quotidiani, iniziai a leggere mentre lei entrava in bagno.- Muoviti! ‘ le urlai ‘ lavati, truccati, mettiti gonna, camicia e scarpe chiare, senza intimo.

Non so se lo sapete, ma la sezione ‘Norme & Tributi’ del sole24ore ha un effetto terapeutico: fa ammosciare il cazzo in meno di un minuto, cos’ quando Francesca usc’ dal bagno, coperta solo da un piccolo asciugamano, e si diresse verso la sua camera, riuscii a non correrle dietro, grazie a una innovativa pronuncia delle sezioni unite della Cassazione della quale stavo cercando (inutilmente) di capire il senso.

Pochi minuti dopo Francesca si affacci’ alla camera

– Cosa vuoi per colazione? – Era bellissima.
E lo so che lo dico sempre, ma probabilmente lo era davvero, sempre bellissima.
Indossava un paio di scarpe color crema, non troppo sexy, seriose, potremmo definirle, che per’ le slanciavano le gambe fino a una gonna grigia, e una camicetta semplice, blu scuro, abbottonata fino al penultimo bottone.
Vederla cos’, e sapere che non aveva nulla sotto, annull’ immediatamente ogni effetto di ogni entenza, anche della Cassazione.

– Caff’ americano’ yogurt magro con un cucchiaino di miele e due di cereali, una fetta biscottata integrale e marmellata di frutti di bosco ‘

risposi, e tornai a leggere la sentenza della Cassazione. Dall’inizio, che avevo perso il filo.

– Se vuoi venire’ ‘ pronto ‘ disse lei, ricomparendo sulla porta, e distraendomi dai miei pensieri. Facemmo colazione. Aveva apparecchiato per due. Quando arrivai e mi sedetti, lei rimase in piedi, guardandomi dubbiosa. Avevo pensato di giocare, che so, farla mangiare a terra, o sotto il tavolo, o chiss’ cosa, ma vederla l’, cos’, vestita e pettinata, truccata e profumata, in piedi davanti al tavolo, mi fece venir voglia solo di condividere del tempo con lei.

– Avanti, siediti ‘ le dissi, indicando la sedia

Facemmo colazione, tranquillamente, lentamente, come succede nei giorni in cui non ci sono lavori, impegni, doveri o urgenze: musica di sottofondo, caff’, cose buone ma sane da mangiare, spalmare, affettare.
Come una coppia normale, abituata l’uno ai silenzi e ai rumori dell’altra, e viceversa, senza imbarazzi.

– Cosa vuoi fare oggi? ‘ le chiesi

Lei mi guard’, sospettosa.

– Quello che’ quello che vuoi tu, no? ‘ mi rispose, come a dire ‘che domande mi fai???’
– No, certo ‘ risposi io ‘ ma che ne diresti di uscire? Ti serve qualcosa? Andiamo a fare un po’ di shopping, due passi da qualche parte’- io’ come vuoi’ – poi aggiunse ‘ mi servirebbe’ delle cose per il’ bagno’ e poi’ assorbenti, credo’ una spazzola’ dei’ un pigiama? ‘ mi chiese, cauta
– Fai una lista ‘ risposi ‘ cos’ vediamo cosa fare, se andare in centro, o a un centro commerciale’ – Francesca si irrigid’.

Il ricordo dell’ultima volta al centro commerciale le pass’ come un’ombra sul viso. Io non dissi nulla.
Finimmo di fare colazione ‘ rimetti a posto tutto, poi aspettami per uscire ‘ dissi alzandomi ‘ vestita cos’ va benissimo ‘
– Ma’ non ho niente’ sotto ‘ mi disse lei
– Lo so ‘ risposi io, senza girarmi, andando verso la camera.

Mi lavai e vestii.
Il cazzo, ancora barzotto, reclam’, ma io mi imposi di ignorare lui e, soprattutto, la donna con la gonna ma senza mutande sotto che mi aspettava di l’. Jeans, camicia leggera, una giacca blu informale, un paio di scarpe scamosciate.
Porsi a Francesca una sciarpa di seta ‘ mettila al collo’ per coprire il collare ‘ spiegai.

Quando salimmo in macchina, sembravamo la tipica coppia benestante che esce il sabato mattina a fare un po’ di compere. In macchina accesi la radio, e subito inizi’ un notiziario. Commentai le notizie, e dopo qualche istante Francesca rispose ai miei commenti.
Era strano, per lei ma anche per me. Era come se avessimo vissuto in una bolla nelle ultime settimane, e per la prima volta fossimo tornati nella realt’.
Arrivammo in centro, parcheggiai, scendemmo dalla macchina e io la presi sottobraccio, e iniziammo a camminare

– Dove andiamo? Cosa ti serve? Prendiamo un caff’, prima? ‘ chiesi

In piedi al bancone del bar ‘ cosa prende, signora? ‘ chiese il barista, un bel ragazzo, giovane con un accento strano, probabilmente rumeno o albanese, e Francesca si scosse, quasi, sentendosi rivolgere la parola in quel modo rispettoso e gentile
‘ un caff’ – rispose, guardandomi dubbiosa, e quando io annuii impercettibilmente, aggiunse ‘ macchiato caldo’ e zucchero di canna’ se ce l’ha ‘
– Certo signora, immediatamente ‘ rispose il barista, sorridendole e forse flirtando appena appena con lei, che sorrise di rimando, per poi girarsi subito verso di me, spaventata. Io feci finta di non aver notato nulla.

Camminammo per il centro
.Entrammo in diversi negozi, lei acquist’ diverse cose, che pagai
.Alla fine, avevo in mano tre o quattro pacchetti, e mentre camminavamo parlavamo, commentavamo le vetrine, i bar che avevano appena aperto o chiuso, il tempo, la gente che c” in giro il sabato.-

Ho fame ‘ le dissi ‘ ‘ ormai ‘ quasi l’una’ che ne dici se mangiamo da qualche parte? La giornata ‘ troppo bella per tornare a casa’-

Lei mi guard’ appena e rispose ‘ certo -, con un tono che tradiva il sollievo dello stare lontani da casa e il dubbio, sempre presente, che avessi in mente qualche cosa di brutto.

Il ristorante era mezzo pieno, carino, semplice ma curato, noi eravamo seduti a un bel tavolo vicino alla finestra e avevamo finito di mangiare, un antipasto in due, un’insalata per me, un po’ di pasta per lei, e stiamo aspettando i caff’.
Avevamo anche bevuto un bicchiere di vino a testa.
Sereni, chiacchieravamo.

– Francesca? ‘ sentii dire da dietro la mia spalla

Mi girai. Un uomo, sui trent’anni.
Leggermente sovrappeso, stempiato, con un paio di occhiali tondi, con una specie di polo e i bermuda.

– Francesca? ‘ ripet’, guardandola e sorridendo, incerto
Lei non rispose, impietrita.

Mi cerc’ con lo sguardo.

– Buongiorno ‘ dissi, sorridente ma formale, accennando ad alzarmi presentandomi, mentre allungavo a mano per stringere la sua, che trovai molliccia e leggermente sudata

– Buongiorno’ sono Capato’ Capato Antonino’ – disse, guardando Francesca, che ancora restava ferma immobile
– Capato ‘ ripet’ ‘ ho lavorato per Francesca, nel suo studio’ tre anni fa’ fino a tre anni fa’ hehehe’ poi’ sono andato’ cio’, mi hanno mandato via perch’ hehehe’-

Capato Antonino adesso era in imbarazzo. Si umett’ le labbra, spost’ il peso da un piede all’altro, sorrise ma poi torn’ serio, non sapeva cosa dire, si pass’ una mano umida sulla fronte

‘ e scusate volevo solo’ solo salutare’ arriv ‘
– Ma no ma no ‘ dissi all’improvviso, sorridente, alzandomi, appoggiandogli una mano sul braccio ‘ si sieda, ci faccia compagnia! ‘

Francesca mi guard’, impietrita.

– No ma io ‘ balbett’ lui ‘ non vorrei ‘
– Ecco, qua, si sieda ‘ e lo spinsi praticamente sulla sedia, tra me e lei ‘ ha gi’ preso il caff’? Un caff’? Mi scusi! ‘
dissi, chiamando il cameriere ‘ un altro caff’ qui, grazie! ‘
– E lei ha lavorato’ no dai diamoci del tu’ posso darti del tu? ‘
– Ce’ certo ‘- E quindi tu hai lavorato per Francesca, tre anni fa? ‘ lui annu’, la guard’ appena, ma lei sedeva rigida, lo sguardo fisso sulla parete davanti a se’
– Per quanto tempo? ‘
– due, due anni e mezzo ‘
– e cosa facevi? ‘
– io’ io ‘ rispose lui, e guard’ di nuovo verso di lei, e io vidi sotto il sorriso tremolante, sotto la fronte sudaticcia, sotto le mani che non sanno dove stare, sotto gli occhiali un po’ unti, vidi il risentimento.

Sono bravo, io, a interpretare le persone.
E in Capato Antonino, io, vidi rabbia e risentimento.

– Io ero arrivato in studio per fare pratica con lei ‘ disse, accennando verso Francesca
– Ah, quindi lei ‘ laureato? Complimenti! ‘ dissi, e Capato, Capato Antonino, raddrizz’ le spalle con un moto d’orgoglio ‘ s’, sono laureato ‘- E quindi ha fatto la pratica con Francesca! Che bello! E com’era, come capo? ‘ dissi, sorridente

E guardai Francesca, che mi guard’ a sua volta.
Conoscevo quello sguardo.
C’era qualcosa che la preoccupava.

– Eh’ deglut’ Capato ‘ era’ hehehe’ diciamo che dopo nemmeno due settimane mi ha detto che io quel lavoro non avrei mai potuto farlo’ eheeheh’ –
– Ma no! Che cattiveria!!! Ma allora cosa ha fatto nello studio? ‘
– Il’ ho fatto’
– L’assistente ‘ intervenne Francesca, gelida, e per un attimo rividi tutta l’arroganza, la freddezza, la determinazione della donna che era ‘ il dottor Capato ‘ rimasto con noi due anni, e ha fatto l’assistente ‘
– S’, ecco’ annu’ lui ‘ archivio’ anche centralino’ fattorino’ autista’ –
– autista? ‘
– S’ la dottoressa Francesca ‘ disse indicandola ‘ mi ha spesso fatto fare l’autista della sua macchina’ una volta l’ho anche accompagnata fino in Toscana’ in vacanza’ poi mi ha fatto tornare in treno’ in seconda classe’ ehehe ‘ rise; ma non troppo

Il cameriere ci interruppe, portando i caff’.

Ci fu un silenzio imbarazzato mentre mescolavamo i caff’, rotto solo dal ‘ding ding’ dei cucchiaini che mescolavano.
Bevemmo i caff’, sempre tutti e tre in silenzio.

Capato sorrise ‘ beh io’ mi ha fatto piacere vedervi’ – e fece per alzarsi e tese la mano
– Siediti ‘ dissi
– ma io ‘- aspetta un attimo ‘ e lui sedette
– guarda ‘ dissi, e allungai la mano verso Francesca.

Lei rest’ ferma, rigida, la mascella contratta.

Con un movimento del polso le tolsi dal collo la sciarpa di seta, rivelando il collare.
Francesca rimase ferma, ma la sua guancia sinistra ebbe un tremito.

– Guarda ‘ dissi rivolgendomi a Capato
Lui guard’ Francesca, poi deglut’ rumorosamente
– Sai cos”? ‘ gli chiesi
Lui annu’, sistemandosi gli occhiali sul naso
– Ne avevi mai visto uno? – Scosse la testa
– Sai cosa significa? ‘ Annu’
– E cosa significa? ‘
– Che’ che’ – deglut’ ‘ che lei’ – indic’ con il dito Francesca ‘ lei ‘ – si ferm’, mi guard’
– Vai avanti ‘
– ‘una’ s’ schiava? ‘ sussurr’, timoroso, e incass’ la testa tra le spalle, quasi aspettandosi uno schiaffo da Francesca.
Che invece rimase immobile.

Io guardai lui, e vedo vidi le goccioline di sudore sulle tempie.
Guardai lei, che tentava di restare impassibile, ma tremava appena.

– Diglielo ‘ le dissi
Lei chiuse gli occhi.
Prese un respiro.

– S’ ‘ disse poi, guardando davanti a se’ ‘ s’. Sono una schiava. La sua schiava –
E poi, rivolta a me ‘ ti prego. Andiamo via ‘

Io non la ascoltai nemmeno.
Capato era basito.

– Ne hai mai vista una dal vivo? Una schiava’ o uno schiavo? ‘
– S’ una volta, in un ufficio’ quello che faceva le pulizie aveva’ il’ e indic’ il collare di Francesca
– E lo sai cosa fa uno schiavo, o una schiava? – Lui non riusc’ a rispondere. Scosse solo la testa.

Io sorrisi, poi lo guardai, serio ‘ semplicemente, tutto quello che gli dici di fare ‘

Ci fu un altro momento di silenzio, poi mi rivolsi a lei ‘ cosa fai, tu? ‘
Francesca tenne lo sguardo basso, fisso sul tavolo. Respir’ e contrasse la mascella.

– quello che tu mi dici di fare? ‘
– tutto? ‘ chiesi io
– tutto ‘ rispose lei, fredda
– qualsiasi cosa io ti dica di fare, farmi, o farti fare’ tu’ – lasciai la frase in sospeso

– ‘io la faccio ‘ chios’ lei, senza alzare gli occhi dal tavolo.

‘ vuoi provare? ‘ chiesi, rivolto a Catapano, percependo un tremito da parte di Francesca
– Co’ co’ come? ‘
– ‘ facile ‘ dissi io, poi mi girai verso Francesca.
La guardai, e le dissi, lentamente

‘ obbedisci al dottor Capato ‘
Lei mi rivolse uno sguardo disperato, uno sguardo che diceva solo ‘ti prego, no’.

– Come si dice? ‘ le chiesi

Francesca chiuse gli occhi.
Senza guardare, senza vedere nessuno, rispose ‘ s’, padrone ‘

– Hai visto? ‘ facile’ prova ‘
– Cosa’ cosa’-
– Quello che vuoi. Una cosa facile. Falle bere l’acqua, non so ‘
Capato mi guard’. Annu’. Prese fiato.
– Bevi’ bevi l’acqua ‘

E Francesca di nuovo mi guard’.
Come a dirmi davvero vuoi che succeda tutto questo.
E poi allung’ la mano, e senza distogliere i suoi occhi dai miei, bevette.

Io mi appoggiai alla sedia.

– ‘ brava, vero? ‘ dissi al mio nuovo amico

Lui mi guard’, poi annu’.
– Vuoi provare ancora? ‘
– S’ ‘ mi disse subito, quasi troppo in fretta.

Io sorrisi ‘ accomodati –
Lui guard’ Francesca.
E io la vidi, la cattiveria, la vendetta, la rabbia emergere dentro di lui. Che prese fiato, apr’ la bocca

– Aspetta ‘

lo fermai, e lui si blocc’ ‘ ‘ solo per provare. Non la toccare, ‘ mia. Non farle fare niente che la metta, o mi metta in imbarazzo ‘

Lui annu’.
– Il potere. Basta questo, fidati ‘

Lui guard’ la tavola, in cerca di ispirazione ‘ piega il mio tovagliolo ‘ disse poi, e Francesca, lentamente, prese il tovagliolo che era accanto alla tazzina di Capato, lo pieg’ e lo rimise dov’era.

– Bello, vero? Eccitante’ Pensa’ puoi anche solo immaginare’? –

Lui prima annu’, e poi scosse la testa.

– Ma come’ perch’ lei’ e tu’ com” successo che –
– Fatti i cazzi tuoi, dottor Capato Antonino, vuoi? ‘ risposi, duro.

E di nuovo lui fece di s’ con la testa.

– facciamo un gioco, Capato, vuoi? ‘
– facciamo finta che tu sia me. E abbia appena ricevuto la tua schiava, che ‘ proprio la qui presente Francesca’ ti piace l’idea? ‘
– s’ ‘ ripose lui ‘ s’ ‘- e se per’ la potessi avere per, vediamo’ un’ora, un’ora sola’ cosa faresti? ‘
– io’ – scosse la testa

Sorrisi ‘ lo so cosa faresti ‘ dissi, mettendogli una mano sul braccio ‘ la scoperesti, vero? ‘

Lui ormai non sapeva pi’ cosa fare o cosa dire.
Sudava, annuiva.

Francesca, in compenso, rimase seduta rigida come una statua di cera.
Le mani sul tavolo, le dita intrecciate.
Seguiva ogni mia parola muovendo appena la testa, lo vedo con la coda dell’occhio, come a dire no, no, no.
Perch’ lei mi conosce, e ormai capisce quando ho trovato un nuovo gioco e sa che, come un bambino, non avr’ pace finch’ non mi sar’ stancato del nuovo gioco.
E lei ha paura che, prima che io mi stanchi di questo, potranno succedere cose. Cose spiacevoli. Per lei.

– Banale ‘ dissi ‘ comprensibile, certo, ma banale –
‘ troppo facile’ ti aiuto io ‘

Silenzio.

– Facciamo che s’, ce l’hai per un’ora’ ma non la puoi toccare, n’ lei pu’ toccare te ‘ sorrisi, malizioso ‘ ecco, cos’ ‘ pi’ interessante, vero? Ci vuole’ fantasia, diciamo ‘
– Eh’ sussurra lui-
– Cosa faresti? ‘
– Non’ non’ –

Io non dissi nulla.
Infilai una mano intasca, presi un pezzetto di carta e una penna.
Scrissi qualcosa, mentre sia Capato sia Francesca mi guardavano.
Piegai in due il bigliettino, e feci per darlo a lui.
Poi mi fermai.

– Hai 45 minuti per pensarci ‘ dissi, alzandomi, e facendo cenno a Francesca di fare altrettanto.

Quando fui in piedi, mi rivolsi a lui, ancora seduto ‘ hai 45 minuti per pensarci e per arrivare all’indirizzo che ti ho scritto ‘ dissi, lasciando il biglietto sul tavolo ‘ ‘ casa mia. Quando arrivi, mi dici cosa hai pensato. Se mi convinci ‘
aggiunsi, guardando verso Francesca ‘ te lo far’ fare. Mi raccomando. Non sprecare un’occasione del genere in maniera banale ‘

E cos’ dicendo mi allontanai, mentre Francesca mi seguiva in silenzio.

Fuori, mi diressi verso il parcheggio.

– Ti prego, no ‘ mi disse Francesca
– Oh, invece s’ non vedo l’ora ‘
– No, ti prego, questo no ‘

Mi fermai, mi girai, la guardai.

– Questo s’. E ti avviso, comportati bene. Perch’ se mi fai arrabbiare, tolgo anche il limite del non toccarti e non farsi toccare’ e secondo me il dottor Capato Antonino avrebbe delle bellissime idee, se solo gli permettessi di metterti addosso le sue mani molli e sudaticce’ –

Francesca rabbrivid’, e rimase ferma.

Io mi incamminai, e sentii il ticchettio dei suoi tacchi dietro di me.

– ti prego ‘ la sentii sussurrare, e sorrisi.

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– Ti prego no – furono le prime parole che mi disse Francesca.

A casa, appena rientrati, mentre io mi toglievo la giacca e lei era in piedi, accanto alla porta appena chiusa.

– Ti prego no –

Io appesi la giacca, e mi girai verso di lei.

Bella, elegante, con i capelli lunghi e neri raccolti dietro le spalle, era ferma immobile.

Mi guardava fisso.

Cercava di restare calma, ma vidi che deglutiva a fatica.

Bene, vediamo, pensai.

– No che cosa? – le chiesi

Lei scosse la testa: naturalmente sapevamo tutti e due a cosa si riferisse, ma la mia domanda indicava chiaramente che volevo divertirmi con lei.

Vidi nei suoi occhi un accenno di ribellione, il desiderio di mandarmi a quel paese e tutto, ma si trattenne.

– No… non voglio quel… quella persona… qui –

– Antonino? –

– Sì. Lui –

– E perché no? Mi sembra una così brava persona… e tu l’hai trattato male, vero? –

Francesca non rispose

– E secondo me devi un po’ farti perdonare… non credi? –

Lei tacque

– Non credi? – ripetei, questa volta in tono meno scherzoso

Lei abbassò gli occhi

– ti prego, no – sussurrò di nuovo

Io sospirai, come se fossi stanco di una lunga discussione.

Ma mi avvicinai a lei, le presi il mento tra le dita e la fissai

– nemmeno a me è molto simpatico, in realtà, in dottor Antonino… –

– e allora perché…? –

– lo sai perché. Dimmelo tu, perché –

Lei mi guardò fisso.

Con una mano allontanò le mie dita dal suo viso, prese fiato e disse, a bassa voce

– perché sei una persona cattiva. Perché hai visto che questa… questa cosa… mi ferisce. E ti piace. Perché vuoi vedermi umiliata, vuoi vedermi soffrire, vuoi vedermi star male… perché sei solo una merda. Ti basta, o devo andare avanti? –

– no no, mi basta. Anche troppo, direi –

– però ho ragione, no? – sibilò Francesca

– però hai ragione – risposi, e mi diressi verso il soggiorno

Mi sedetti sul divano, e guardai l’orologio – sarà qui a momenti…. – la guardai e le chiesi – allora, cosa devo fare? –

– mandalo via – rispose decisa

– e perché dovrei rinunciare al mio divertimento? Lo ha detto tu, che l’ho fatto solo perché mi diverte… –

Francesca non rispose.

Fece due passi, fino a mettersi in piedi davanti a me.

Poi, lentamente, si inginocchiò.

Sempre lentamente, e tenendo lo sguardo fisso su di me, si mise a carponi.

– Padrone – disse infine – mandalo via. Farò tutto quello che vuoi –

Io la osservai, in silenzio.

Poi, lentamente, mi alzai e le camminai attorno, osservandola.

Mi fermai dietro di lei, dove la gonna tirava sul culo che, senza mutande sotto, aderiva perfettamente alle sue forme.

– Il problema è, cara mia – le dissi infine – che io posso già farti fare tutto quello che voglio… –

Lei rispose senza girare la testa, parlando verso il divano vuoto – sì, ma lo farò meglio. Mandalo via. Ti prego –

Non risposi.

Presi il guinzaglio, mi sedetti di nuovo sul divano e fissai il guinzaglio al suo collare.

Poi presi un libro, un’analisi, alquanto superficiale tra l’altro, degli aspetti economici della conferenza di Postdam, e iniziai a leggere.

Restammo così.

Io seduto sul divano, con il libro aperto e il guinzaglio, mollemente tenuto tra le dita.

Lei a quattro zampe davanti a me, ferma.

Dopo qualche minuto, la posizione cominciò a diventare dolorosa, e iniziò a muoversi sulle ginocchia e a inarcare la schiena.

– Ferma – le dissi senza alzare la testa dal libro – non muoverti, nemmeno un muscolo –

Francesca si bloccò.

Dopo un tempo che sembrò infinito, a me per la inutile e fastidiosa prosopopea dell’autore del libro, per Francesca probabilmente per la scomodità della posizione, suonò il citofono.

Mi alzai per andare ad aprire.

Francesca mi guardò.

– Chi è? – chiesi

– Sono… Antonino… – rispose una voce metallica

– Entra – risposi, schiacciando il pulsantino con la chiave

Francesca si girò – avevi detto –

– Non avevo detto niente – le risposi, brusco – e adesso prendi in bocca il guinzaglio e vieni qui – aggiunsi, battendomi una mano sulla coscia destra, come si fa quando si chiama un cane

Lei non si mosse.

– Hai tre secondi per ubbidire – dissi, a voce bassa – se non sei qui entro tre secondi, ti punirò come non puoi immaginare, e chiederò ad Antonino di aiutarmi… –

Francesca tremò.

Poi si avvicinò al divano, prese in bocca il guinzaglio e venne a mettersi accanto a me.

A terra, a quattro zampe.

– Brava – le dissi, e le diedi due carezze sulla testa, che lei cercò di evitare.

In quel momento suonarono alla porta.

Aprii.

– Buon… buongio… – disse Antonino, ancora più accaldato e balbettante di quanto fosse al ristorante, ma si bloccò di colpo, quando vide Francesca, a terra, al guinzaglio, accanto a me.

– Buongiorno Antonino – lo salutai sorridendo – Francesca, saluta il dottore –

Francesca alzò lo sguardo, che aveva tenuto rivolto a terra fino a quel momento, e sussurrò – buongiorno dottore – e poi di nuovo abbassò la testa

Io guardavo Antonino.

Sembrava che stesse per avere un infarto, o per venirsi nei pantaloni.

O tutte e due le cose insieme, probabilmente.

– Antonino – gli dissi – devo darti una notizia. Ci ho ripensato –

Mentre dicevo così, sentii Francesca fremere accanto alla mia gamba

– Ci ho ripensato – ripetei – e tu sei un bravo ragazzo e tutto… ma, vedi, io sono piuttosto possessivo… e l’idea di condividere con te Francesca, anche senza che tu la tocchi… beh, non mi piace –

Lui mi guardava, non sapendo cosa dire, e poi di nuovo guardava Francesca, a terra.

– Quindi – continuai – temo che il nostro pomeriggio finirà qui… mi spiace, sarà per un’altra volta… –

– Ce.. certo… no, naturalmente io… – balbettò lui

– Prima che tu vada… – lo interruppi – un piccolo gesto, per farmi perdonare di averti fatto venire qui inutilmente – sorrisi

– Francesca – dissi, con voce dura – girati –

Francesca mi guardò, poi, lentamente, girò su se stessa, con la faccia verso la stanza e il culo verso la porta.

– Adesso appoggia la faccia sul pavimento –

Francesca eseguì.

– Abbassati – dissi ad Antonino, che lentamente si piegò sulle ginocchia, accucciandosi davanti al culo di Francesca, coperto dalla gonna, tesa, che era anche risalita lungo le cosce – è senza mutande – aggiunsi, e Antonino emise un rantolo

– Alzati – gli dissi, e lentamente si alzò, sudato e rosso in faccia

Con un colpo al guinzaglio, feci girare Francesca – il dottore se ne sta andando. Salutalo –

– Arrivederci dottore – sussurrò Francesca

– Aaaa… arrive – stava dicendo Antonino, quando gli chiusi la porta davanti.

Lasciai cadere a terra il guinzaglio, e tornai in soggiorno.

Lei rimase ferma, davanti alla porta.

Capii che piangeva, silenziosamente, dai sussulti delle spalle.

Attesi.

Poco dopo, Francesca riprese in bocca il guinzaglio e tornò, camminando carponi, verso di me.

– Siediti – dissi, e lei si sedette sul divano, accanto a me

Presi in mano il guinzaglio, e iniziai a giocarci.

Poi la osservai, e scoppiai a ridere – cazzo! – dissi – ho temuto che gli venisse un infarto…!!! –

Francesca provò a dire qualcosa, ma ebbe un singhiozzo di pianto ma fece anche una mezza risata, e quasi soffocò, e di nuovo rise.

– Dimmelo – le dissi, cercando di accarezzarle una guancia, mentre lei si discostava appena – dillo – ripetei

– Sei una merda. Mi fai schifo – mi disse infine, con tono duro e guardandomi con aria di sfida

– Sì, immagino che tu lo pensi – risposi – e hai tutti i motivi per farlo –

Mi appoggiai al divano – ma torniamo a noi –

Lei non rispose

– Cos’è che hai detto, per convincermi a cacciare via il povero Antonino? –

– Che avrei fatto tutto quello che vuoi… – rispose stancamente lei

– Ma tu fai già quello che voglio… quindi? –

– Quindi – rispose lei, rassegnata al mio piccolo, inutile e umiliante gioco – farò tutto quello che vuoi.. ma meglio –

– Tutto tutto? – le chiesi, guardandola e sorridendo

Lei ebbe un brivido, prima di rispondere – lo sai. Tutto quello che vuoi –

– Bene – risposi io – allora, chiedimelo –

Francesca si alzò dal divano, e poi si inginocchiò davanti a me.

Mise le mani dietro la schiena, mi guardò e disse – cosa vuoi fare, padrone? –

Io mi piegai in avanti, poggiando i gomiti sulle ginocchia e avvicinandomi al suo viso

– Voglio, voglio – sorrisi – voglio… e tu ti impegnerai per farlo “meglio”, come hai detto tu, anzi, meglio che mai –

Sorrisi, prolungando l’attesa

– Voglio – ripresi, alzando un dito della mano per ogni frase – voglio frustarti; voglio scoparti: voglio incularti, e venirti in bocca; voglio pisciarti addosso e in bocca, e voglio che ingoi la mia piscia, fino all’ultima goccia. E voglio che tu faccia tutto questo felice, con gioia, e ringraziandomi ogni volta che potrai. Questo è quello che voglio –

Francesca non rispose, rimase ferma.

Solo una piccola lacrima scese dal suo occhio sinistro.

Io sorrisi – andiamo? – le chiesi, allungando un braccio e prendendola per mano.

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