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Basta! Non ce la facevo più! Un vero anno horribilis mi aveva stroncato, aveva scosso le mie certezze nel più profondo di me e, ciliegina sulla torta!, anche un filotto di sfighe assortite mi aveva lasciato basito, quasi stupito di esserne -nonostante tutto- sopravvissuto.
Mi veniva in mente lncipit di un romanzo di Emmanuelle Arsan, autrice della saga di Emmanuelle tanto cara a quelli della mia generazione: “Ormai anche la masturbazione, in città mi faceva tossire”
Ecco, mi sentivo proprio così: con un disagio diffuso, crescente, una totale insofferenza e voglia di cambiare: cambiare ritmi, facce, riti, luoghi… aria, in una parola.
L’anno era appena cominciato ed il mio fisico anelava al caldo ed al sole di cui, nell’ultima estate, non aveva potuto godere per un coacervo di casini e complicazioni; per cui mi infilai in un’agenzia di viaggi e diedi all’impiegata due soli parametri: una sola settimana (i miei impegni non mi permettevano una fuga più lunga) ed un luogo assolato e CALDO!
Una rapida ricerca nei fax, dopo qualche domanda mirata a capire meglio i miei gusti, le fecero trovare un luogo che non avevo mai sentito: un villaggio turistico a Marsa Alam.
«E dove diavolo è?»
«E’ sulla costa continentale dell’Egitto, affacciato sul Mar Rosso»
Prese una carta geografica e mi indicò un certo punto, abbastanza in giù, non lontanissimo dal confine col Sudan.
Per me, “mare+Egitto” era Sharm el Sheik o luoghi lì intorno e non avevo mai neanche pensato che potessero esistere luoghi al fuori del Sinai; anzi, non mi ero mai proprio posto il problema e basta!
Il pacchetto di volo A/R, soggiorno di sette notti “all inclusive” (tre pasti al giorno, più spuntini e bevande analcoliche a volontà) era offerto ad un cifra -complice anche la bassissima stagione!- decisamente molto interessante, per cui accettai.
Il sabato fissato per la partenza, sarei partito alla volta di Malpensa per imbarcarmi sul volo che, dopo quattro ore, mi avrebbe scaricato sulle rive del Mar Rosso, ma nell’attesa attinsi alle mie ultime riserve di energia nervosa, tanto da dubitare di arrivare vivo alla data della partenza.
Il crollo della mia autostima, poi, aveva sgombrato la mia mente da ogni fantasia di conquista femminile e, per godermi una settimana di ricarica e rigenerazione, saccheggiai gli scaffali del mio libraio di fiducia, immaginandomi a rosolare tranquillamente al sole in compagnia di buone letture, tra una nuotata e l’altra.
Erano previste diverse escursioni: alcune che comportavano anche oltre le quindici ore di pullman -decisamente molto al di là della mia sopportazione e parecchio al di fuori del mio concetto di relax e divertimento!- ed altre che invece mi intrigavano, come due escursioni nel deserto: una a dorso di cammello ed un’altra in sella a dei quad, quelle buffe moto a quattro ruote.
Dicevo, quindi, che partii il sabato per andare a Malpensa e, a pochi chilometri dall’arrivo, mi fermai a fare il pieno alla mia auto (o meglio, un’auto che ho provvisoriamente, in attesa che la mia venisse riparata per un guasto importante), alla colonnina del self-service.
Scesi, mi stiracchiai, aprii il tappo, presi la pompa e cominciai a premere la leva della pistola che però, stranamente, non ‘affondava’ dentro il bocchettone, ma restava appena appoggiata.
Interruppi il rifornimento e riflettei sulla stranezza di quel bocchettone; poi capii: stavo facendo rifornimento DIESEL in un’auto a BENZINA!
Mezzo litro diesel su quaranta di benzina non sono un dramma, ma mi avvilii ancora di più: ero decisamente scoppiato!
Arrivato al parcheggio fuori dall’aeroporto, decisi di ridurre il volume dei miei bagagli lasciando in auto il giaccone (tanto la navetta del parcheggio mi avrebbe portato al terminal!), salii sul pulmino del parcheggio ed, in dieci minuti, mi trovai ad attendere nell’area gruppi la consegna del biglietto aereo per poi poter fare il check-in.
Distrattamente, misi le mani nelle tasche della felpa che indossavo ed ebbi un sussulto: non avevo sentito il rassicurante ingombro della mia macchina fotografica digitale, mia abituale compagna.
Mi rasserenai, ricordando che non l’avevo nella felpa in quanto era nel giaccone che… Occazzo!!!! Era restato in macchina!!
Così appioppai la mia valigia ad una famigliola in paziente attesa accanto a me, presi un taxi, tornai al parcheggio e recuperai l’apparecchio, ovviamente bestemmiando tutto il tempo come il pappagallo di un pirata.
Alla fine, quando dio volle, ci imbarcammo e, dopo quattro ore, raggiungemmo il Marsa Alam International Airport.
Da lì un’ora di pullman e raggiungemmo, alla fine il resort.
Il tempo di una rapida doccia in camera e poi a cena, prima di andare nel teatro per avere tutta una serie di utili informazioni, anche se la cosa mi pesò non poco.

Per fortuna la lingua più usata nel villaggio è l’italiano ed almeno non avevo la noia di dover ricominciare a comporre frasi in inglese.
Il giorno dopo, finalmente, cominciai la vacanza come-dico-io: allungato su un lettino in spiaggia, con il sole, un buon libro e nessuno tra i piedi, scacciando -anche se con educazione- quei poveri cristi degli animatori che cercavano di coinvolgermi in attività varie.
Dopo tre giorni, mi ero ricaricato un pochino ed avevo anche fatto la cammellata nel deserto, cominciando quindi a familiarizzare -il minimo indispensabile!- con altri ospiti.
Continuavo a non voler nessuno tra i piedi, ma ovviamente notai la famigliola coi due maschietti piccoli, o il vecchio che-sapeva-tutto-lui, l’immancabile signora-così-chic e via elencando, divertendomi quanto, di solito, io faccia soffermandomi a osservare gli altri.
Il quarto giorno, la motorata; dopo un viaggio di quaranta minuti, siamo scesi dal pullman ed abbiamo raggiunto lo schieramento dei nostri quad: dodici rossi per due persone e due verdi per me ed un altro, da soli.

Indossate sciarpe e occhiali ed allacciati i caschi, abbiamo avuto dieci minuti per familiarizzarci con quei ‘cosi’ e poi, formato il convoglio, siamo partiti.
Dopo un chilometro o due, mi sentivo abbastanza padrone del mezzo, perciò cominciai a rilassarmi ed a divertirmi davvero.
Facemmo alcune soste in punti particolari e durante una di queste avvenne una cosa che diede inizio alla parte inaspettata della vacanza.
Ci eravamo fermati in un uadi (letto prosciugato di un antico corso d’acqua), ai piedi di un’alta duna di sabbia finissima -come lo zucchero!-, incuneata tra due blocchi di roccia, e quasi tutti decidemmo di scalarla per la quindicina di metri della sua altezza.
Arrivati faticosamente in cima, godemmo del panorama, molti di noi scattarono foto e poi ricominciarono a scendere.
Decisi di aspettare che scendessero quasi tutti, per fare una panoramica dei quad e della gente accanto e perciò, scattata la mia foto, scesi con attenzione nella sabbia cedevole.
Arrivato in fondo, mi fermai per valutare un’altra inquadratura e mi sentii spingere via un piede, cadendo a sedere sulla sabbia.
Sorpreso, vagamente spaventato ed un briciolo irritato mi girai con un feroce «Eccheccazzo!’» scoprendo che era stata una donna, scivolandomi addosso, a farmi perdere l’equilibrio.
Lei mi guardò con espressione contrita e colpevole, mentre il marito si profuse in scuse, chiedendomi di perdonarli, perché aveva -lei- perso l’equilibrio.
Non mi sembrava una cosa così grave, in fondo, per cui sorrisi alla coppia, rassicurandoli che ero stato brusco solo per la sorpresa.
Poi rimontammo in sella e ripartimmo ma, mentre andavamo, un angolo della mia mente rifletteva sul banale episodio.
Richiamai alla mente il loro aspetto: intorno ai cinquanta, lui alto e con la barba corta, brizzolata come i capelli, occhiali con la montatura dorata, fisico ipotonico da travet, molliccio: lei piccolina, con un bel sedere ed un discreto seno -ricordavo vagamente di averli visti in spiaggia- ed un’aria da peperina.
Mi aveva colpito l’espressione estremamente colpevole, quasi,,, succube di lei e il profondersi in scuse perfino eccessive di lui per un banale… piccolo incidente, un errore, in fondo, fatto da lei.
Un tarlo mi si insinuò nella mente e mi trovai a sorridere.

L’ultima sosta, prima di finire l’escursione e tornare al pullman, fu presso dei nomadi, dove prima assistemmo alla preparazione del pane arabo su una pietra e poi il lavoro di filatura e tessitura nel quale erano intente le due figlie nubili.
Alla fine, entrammo in una tenda e ci sedemmo tutti in circolo, su bassi cuscini, dove ci avrebbero servito un bicchiere di dissetante the alla menta, carico e bollente.
Mentre gli altri si attardavano a valutare l’acquisto di tappeti e monili prodotti dalla piccola tribù, fui tra i primi a sedermi e vidi, a poco a poco, occuparsi tutti i posti.
Alla mia sinistra, ad una quarantina di centimetri, venne a sedersi una tipa ossigenata e starnazzante, accompagnata dal marito con la tipica espressione della vittima di tale esuberanza verbale; a destra, invece, venne alla fine a sedersi la famosa coppia.
Lui si sedette per primo e mi resi distrattamente conto, con la coda dell’occhio, che si era seduto ‘comodo’ rispetto alla persona alla sua destra, tanto che la moglie si incuneò nello stretto spazio tra me e lui, praticamente a contatto con la mia coscia.
Mi guardò con un’aria imbarazzata, feci balenare un rapido sorriso e mi spostai di una ventina di centimetri, per non lasciarla proprio pressata tra me ed il marito.
Lei mi ringraziò con uno sguardo timido e si scostò un pochino da lui, restandomi sempre molto vicina ed incrociando le caviglie.
Uhmm… Possibile?
Incuriosito, allargai un pochino le ginocchia, fino a venire a lieve contatto con la sua gamba: nessuna reazione.
Allora mossi come casualmente la gamba e lei non si sottrasse allo sfioramento.
Volsi lo sguardo verso di lei e vidi che mi guardava con uno sguardo… modesto, quasi vergognoso… succube, ecco!
Osai: la mia mano le strinse brevemente il ginocchio e le feci un sorriso sicuro, da ‘macho’.
Mi rispose con un sorriso timido.
Distogliendo lo sguardo, incrociai quello del marito, che era di accettazione ed approvazione.
Possibile mai…?
Ero perplesso, ma la mia vacanza rigeneratrice si apriva, forse, a prospettive decisamente divertenti.
Decisi di ignorarli ma, muovendo la testa ogni tanto, percepivo con la coda dell’occhio i loro sguardi vagamente ovini su di me.
Fuori restai con unspressione impassibile, la mia tipica faccia-da-poker, ma dentro di me stavo sorridendo, immaginando gli sviluppi e studiando le mosse del gioco.
Alla fine, tornammo al pullman e decisi di ignorarli per tutto il viaggio.
Tornammo al resort che erano passate le otto da un po’, appena il tempo di andare in camera, farsi una doccia per levarsi di dosso la polvere e sbrigarsi a raggiungere il ristorante e cenare, prima che chiudesse.
Per cui, salutai con un rapido cenno della mano alcuni miei compagni nell’avventura e, li ad una ventina di minuti, entrai nella sala da pranzo.
Cominciai subito a girare tra i vari tavoli del buffet, facendomi undea di cosa mangiare ed alla fine scelsi una porzione di ravioli di magro, come primo.
Posai il mio piatto su un tavolo vicino al banco della pasta ed andai a prendermi da bere.
Tornato che fui, ebbi la sorpresa (?) di trovare la coppia seduta al mio tavolo.
«Disturbiamo?» mi chiese lei, sempre con quello sguardo modesto, vagamente ovino.

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