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La signorina Giada

By 31 Dicembre 2013Ottobre 13th, 2021No Comments

Mi chiamo Rosa, ho 54 anni, sono una madre di famiglia, una sposa fedele, una donna realizzata.
Insegno lettere nella scuola media del mio quartiere. Mio marito ha una piccola società di software che gli da grandi soddisfazioni, non abbiamo problemi economici e le mie due figlie teenager sono la nostra consolazione e felicità.
Però da qualche anno è come se il mio matrimonio fosse andato in panne.
Da quando mio marito Francesco ha lasciato il lavoro come dipendente per cominciare questa sua avventura imprenditoriale ha smesso di avere interesse per il sesso e quasi non mi guarda più. L’anno scorso, le ho contate, abbiamo fatto l’amore sette volte. Poco più di una al bimestre. Torna a casa alle nove di sera, cena in silenzio e poi torna al computer per controllare la posta e scrivere le risposte.
Quando viene a letto, verso mezzanotte, è stravolto, non mi cerca e non mi tocca, si gira dall’altra parte e si addormenta in un lampo.
È un brav’uomo, non mi fa mancare niente, adora le sue figlie, cerca di fare il meglio che può, ma io mi sento trascurata dal punto di vista sessuale.
È vero che alla mia età, con due gravidanze, senza attenzioni maschili, mi sono lasciata andare. Ho accumulato qualche chilo in eccesso, forse troppi, il mio girovita è esploso e il mio seno è diventato enorme.
La settima di reggiseno alle volte non è sufficiente a contenere tutta la massa strabordante delle mie carni tremule.

Non ce la faccio a fronteggiare la parte restante della mia vita senza sesso, o quasi.

Ho pensato di tradirlo.

C’era questo vicino del settimo piano, cinquantaduenne, bello, elegante, signorile, che incontravo sull’ascensore e che sempre mi faceva i complimenti. Quanto ero elegante, come sembravo più giovane, se avevo perso qualche chilo (no), come mi donava il mio nuovo colore di capelli.
Era sposato con una brava signora, che però era molto malata e aveva bisogno di cure continue che lui provvedeva.
Poi la scorsa primavera la signora è mancata e io, pur con grandi sensi di colpa, mi ero fatta l’idea che a quel punto, dopo un ragionevole periodo di lutto, la sua corte sarebbe diventata più audace e saremmo finiti per avere una storia, torrida e colpevole come piacciono a me.
Ma la prima volta che l’ho rincontrato, dopo la vedovanza, ho trovato un uomo distrutto, curvo, invecchiato, del tutto disinteressato alle allusioni e alle battute di prima e che a malapena reagiva alle mie condoglianze.
Allora ho capito che non c’era niente da fare e mi sono rifugiata nei miei sogni ad occhi aperti.
Sono sempre stata una donna dalle fantasie galoppanti, ma adesso mi costruivo un mondo di sensualità e eccitazione che accompagnavo con masturbazioni sempre più furiose. Mi comprai un dildo (non vi dico la difficoltà per acquistarlo: dovetti ricorrere a un vecchia amica del liceo che me lo ordinasse on line) e lo usavo con grande intensità, accompagnando gli orgasmi con le mie fantasie, così potenti da sembrare reali.
Cominciai immaginandomi un principe arabo che mi catturava con un solo movimento del braccio senza nemmeno arrestare il suo cavallo al galoppo, mi trascinava nella sua tenda nel deserto, mi gettava a terra sopra i lussuosi tappeti persiani, mi prendeva con forza e determinazione, soggiogandomi con la potenza delle sua mascolinità prorompente.
Di solito venivo quando si toglieva la veste davanti a me, nuda, indifesa, esposta, col suo enorme cazzo svettante e prepotente.
Ma mi accorsi presto che dopo una settimana o poco più la fantasia diventava routine e non serviva più a eccitarmi al punto di venire. Così dovevo continuamente modificarla per seguire le libidini che prendevano corpo nella mia testa.
Dopo l’arabo ci fu il camionista anziano, sporco e sudato, in canottiera, che mi strappava i vestiti di dosso e mi scopava con furia senza minimamente curarsi di me e dei miei desideri, palpandomi le tette con le mani sporche di grasso.
Poi ci fu il mafioso che mi teneva legata a una sedia e mi carezzava i seni con indifferenza.
Il mafioso si trasformò presto nel poliziotto che mi teneva ammanettata che mi penetrava da dietro col suo sfollagente.
E fu la volta del pappone di cui ero una delle puttane, che entrava in una stanza nella quale mi trovava legata al letto con le gambe aperte e che mi scopava o mi sodomizzava con tutta la calma del mondo e l’atteggiamento di chi sta facendo un lavoro fastidioso. Lo immaginavo di mezza età, meridionale, con una camicia bianca aperta, uno stecchino tra i denti e una catena d’oro al collo, gli occhiali da sole e un’espressione annoiata.
Questa fantasia si accompagnò presto a una variante: il pappone entrava nella stanza con un’altra della sue laide puttane fatta e strafatta, con il trucco che colava sulla sua faccia, appoggiata alla sua spalla. Una delle spalline del suo quasi inesistente vestito le cadeva scoprendo una tettina che lei non si preoccupava di ricoprire.
La volta successiva l’immagine della ragazza prese autonomia.
Ora era lei a tenermi le gambe aperte.
Mi scostava le grandi labbra o le natiche per un accesso più facile per il nostro pappone. E l’immagine di quelle mani femminili con le unghie dipinte di rosso piantate nelle grandi labbra della mia fica depilata non mi abbandonò più (io a quel tempo non ero depilata nella realtà, ma invece lo ero nella fantasia).
Poi la figura del pappone perse spessore e si ritirò sullo sfondo, mentre la protagonista dei miei voli onirici e masturbatori divenne sempre più la donna, ora non più puttana ma dominatrice, che con un frustino in mano alternava la scudisciate sul mio culo esposto, alla penetrazione con dildo o dita nei miei orifizi.
La figura della dominatrice nella mia testa prese contorni più definiti mano a mano che passavano le settimane, garantendomi sempre potenti orgasmi che non accennavano a perdere intensità. I suoi capelli da biondi divennero neri, i suoi occhi più penetranti, l’età cominciò a scendere: dapprima cinquanta, poi trenta, poi venticinque. Poi una teenager, dallo sguardo vizioso e senza pietà e dal sorriso maligno.
E la mia mente non riuscì più a scacciare l’immagine del suo corsetto di cuoio rosso che fasciava un corpo adolescenziale, tettine appuntite, lunghe gambe magrissime e un sederino quasi infantile, di un biancore abbagliante.
Cosa mi stava succedendo, non lo sapevo proprio. Io non sono lesbica.
Non avevo mai provato una vera attrazione per le ragazze, né per le pratiche di sottomissione o umiliazione. Certo, un po’ di curiosità nell’adolescenza, come tutte, ma alla fine i maschi mi piacevano enormemente di più e con loro mi sono sempre fatta rispettare e il sesso è sempre corso sui binari di uguaglianza e pari dignità.
La vita intanto andava avanti.
Con i pomeriggi liberi e le ragazze a scuola o in biblioteca a studiare io mi annoiavo.
Il notebook che mio marito mi aveva regalato, credo perché segretamente non voleva che usassi il suo Pc, mi permetteva di navigare in internet alla ricerca di quelle ricette di cucina, di quegli outlet dai prezzi favolosi, di quella chat room di insegnati che si scambiavano le loro opinioni.
Ricordo benissimo quando tutto è cominciato.
Quel pomeriggio d’estate faceva caldo, molto caldo. Io ero in slip e reggiseno, annoiata, depressa, incazzata.
Stavo cercando in internet delle ricette con lo zafferano perchè ne avevo comprato in eccesso e non sapevo come impiegarlo, a parte il solito risotto, ma persi presto interesse.
Mi venne la tentazione di fare un giro per i siti porno, verso i quali avevo una vera avversione e nutrivo un grande disprezzo per coloro che li frequentavano. Ma ero madre di due adolescenti: non avevo forse il diritto di controllare a quali pericoli sarebbero potute andare incontro?
Cominciai a navigare. Digitai ‘porno’ su Google e mi apparvero un’enormità di link. Anche alcuni di una perversione rivoltante. ‘Scopamiamoglieputtana.it’, Cazzineriperdonnebianche.com’, ‘Leccamilafica.it’ tanto per fare un esempio. Non potevo credere che qualcuno potesse trarre piacere da cose così volgari o addirittura disgustose. Poi vidi ‘Fighecaldeperlesbiche.it’. Che schifo! Che vergogna! Che linguaggio volgare! Mi sentivo avvampare. Ci cliccai sopra per cancellarlo, ma devo aver sbagliato (una sbaglia alle volte, no?) e sono entrata nella chat room. Che fare? Pensai di uscire subito, ma poi considerai che se ero arrivata fin lì tanto valeva dare un’occhiata per vedere che razza di pervertiti abitavano questi sordidi bassifondi del Web.
I dialoghi erano volgari ma noiosi. Tutte queste lesbiche cercavano sesso, con nickname sfacciati, tipo ‘lesbicaculona’, Puttanadolescente’ e altre vergogne innominabili. Chissà cos’avranno pensato vedendomi loggare col mio nickname ‘mammafelice64”
Poi mi accorsi che la regina del chat era questa ‘signorina Giada’ alla quale tutte si rivolgevano con grande rispetto, cercando di attirare la sua attenzione. Ancora non so spiegarmi perchè, ma cliccai sul suo nome e il suo profilo apparve a video.
Dio mio! Il corsetto di cuoio rosso! Quello delle mie fantasie masturbatorie!
La foto di questa giovinetta molto simile alla ragazza dei miei sogni appariva a tutto schermo.
La sua pelle era un filo più scura e i suoi capelli più chiari della ragazza delle fantasie, ma lo sguardo era altrettanto penetrante e il sorriso altrettanto satanico. Allacciato in vita c’era il busto di cuoio rosso che tante volte avevo immaginato, quasi uguale, solo che nella foto la signorina Giada portava slip e reggiseno che nei miei viaggi onirici non c’erano.
La guardai con più attenzione.
Era giovanissima.
Aveva dei capelli biondo scuro fantastici, lunghi fino a metà schiena, che incorniciavano un viso di un ovale perfetto, labbra carnose dipinte con un rossetto rosso sfacciato e atteggiate in un sorriso inquietante, gambe lunghissime e scarpe col tacco undici. I suoi occhi erano verde-grigio, penetranti, indimenticabili. Pareva avessero il potere di scavarti l’anima e devo ammettere che non mi sentivo affatto a mio agio guardando questa immagine.
C’era qualcosa che non capivo, un potere sconosciuto, una forza misteriosa che mi faceva abbassare gli occhi anche solo davanti alla sua foto.
Il suo profilo diceva pochissimo: che era sarda, aveva 19 anni e che era spogliarellista. Stavo quasi per cliccare il bottone ‘esci'( e Dio sa negli ultimi sei mesi quanto ho rimpianto di non averlo fatto), ma invece, dopo qualche esitazione cliccai ‘chat privata’. Mi apparve una finestra con un cursore che blincava e scrissi ‘Ciao’.
Rimasi seduta come una ebete guardando lo schermo, fino a che apparve le risposta.
– Mi spiace, ma non sono interessata alla vecchie baldracche.
Davvero persi le staffe, indignata. Avrei dovuto chiudere subito, ma dovevo pur difendermi:
– Prima di tutto non chiamarmi baldracca! Io sono una donna onesta, sposata con due figlie, insegno alle medie, sono educata e rispettabile. E, secondo, non sono una lesbica: volevo solo farti una domanda!
– Già, sì, voi vecchie troie siete tutte uguali. Ve la tirate tanto ma alla fine l’unica cosa che vi interessa è leccare la mia sexy e giovane fica.
Mi morsi le labbra, disgustata. Perché non ho chiuso la chat in quel momento? Quante volte l’ho rimpianto? Ma in qualche modo sentivo di dovermi difendere:
– Ma no, io sono la madre di due figlie adolescenti e volevo solo controllare cosa succede in questa chat room! Per la loro sicurezza!
– Hai visto il mio profilo e la mia foto?
– L’ho vista, sì. Il tuo profilo non dice molto, però.
– Pensi che io sia gnocca?
– Mi sembri molto carina.
– Non carina, stronza. Gnocca, fica. Vuoi vedere un’altra mia foto?
– Va bene.  (Perché avrò scritto così? Non me lo so spiegare).
Mi arrivò un messaggio sullo schermo chiedendomi se accettavo di scaricare un file. Ancora una volta mi chiesi che cosa stessi facendo, io che ero una rispettabile signora di mezza età. Avrei dovuto chiudere subito, ma invece, chissà perché, cliccai ‘Yes’.
Quando il file fu scaricato lo aprii e quello che vidi mi colpì come una frustata. Lei era nuda, il seno fantastico, da diciannovenne, alto, sodo, con i capezzoli rosa puntati orgogliosamente in alto. Aveva un piercing ad anello all’ombelico e il suo pube rasato rivelava due turgide grandi labbra adolescenziali alla sommità di gambe lunghissime. Rimasi a bocca aperta.
– Allora, puttana? Cosa dici adesso? Mi trovi gnocca?
Mi tremavano le mani e fui contenta che lei non potesse vedere la mia reazione.
– Beh, sì. Il tuo corpo è molto attraente e capisco perché fai così colpo su uomini e donne.
– Ma che attraente! Attraente tua sorella! Io sono gnocca! E scommetto che la tua grassa fica sfondata è già completamente bagnata al solo vedere la mia foto!
Adesso basta, pensai, è ora che a questa stronza qualcuno faccia abbassare le arie. Ma non scrissi niente.
– Allora? Ho ragione, giusto?
Silenzio.
– Il gatto ti ha mangiato la lingua?
Ancora silenzio.
– Addio.
– No! Aspetta!
– Devi rispondere alla mia domanda.
– Sì!
– Sì, cosa?
– Sì lo è.
– Spiegati meglio.
– La mia vagina si sta bagnando. – (guardai con orrore quello che avevo scritto).
– Quale vagina? Tu non hai una vagina. Io ho una vagina. Tu hai una fica slabbrata. Te lo chiedo di nuovo: che cos’hai tu?
– Una fica… slabbrata.
– Così va bene, mamma delle mie palle, stai imparando. Adesso dimmi come sei vestita.
– Ho un accappatoio… (non era vero).
– E nient’altro, stupida?
– Ho anche slip e reggiseno.
– Sei troppo vestita per parlare con me. Togliti tutto. Tutto, hai capito?
– Ok. Chiudo la finestra e lo faccio.
– Ti ho forse detto di chiudere la finestra?
– No, ma non voglio che nessuno mi veda.
– Qui non si tratta di quello che vuoi tu, ma solo di quello che IO voglio! Se questo non ti va bene finiamola qui. Ciao.
– Scusa, scusa, lo faccio.
– Sbrigati, non ho tempo da perdere.
Mi tolsi slip e reggiseno davanti alla finestra aperta, chiedendomi ancora una volta se non fossi impazzita.
– Ecco, sono nuda.
– Dimmi, quella tua fica puzzolente non è per caso tutta appiccicosa e bagnata?
– Sì.
– Non ti toccare finché non ti ho dato il permesso, capito?
– Capito.
– Adesso descriviti in dettaglio, senza tralasciare nessun particolare.
– Sono castana chiara, alta uno e 65, peso 65 chili… e porto una settima di reggiseno.
– Tutto, stupida, descrivi i tuoi capezzoli e la tua lurida fica!
– Va bene – scrissi mentre arrossivo di vergogna – le mie tette sono piuttosto grandi, credo grandi come un melone con un capezzolo rosa di circa tre centimetri di diametro. E il mio pube ha un cespuglio di peli chiari.
– E quanto hai detto che pesi?
– Non mi peso da un po’. Penso 65 chili.
– Cosa!!?? Quando ti faccio una domanda mi aspetto una risposta precisa, completa ed esauriente! Sto perdendo tempo con te. Ti ho chiesto quanto pesi e tu rispondi che PENSI di pesare 65 chili? Adesso ascoltami e ascoltami bene: vai a prendere la bilancia, ti pesi e mi dici il tuo peso esatto. Subito. È la tua ultima opportunità. Sprecala ancora e questa conversazione è terminata.
Mente mi alzavo docilmente per andare in bagno a pesarmi, mi chiesi ancora come fosse possibile che mi lasciassi trattare così. Eppure in una qualche parte nascosta del mio essere questa puttanella mi eccitava oltre ogni immaginazione. Io non capivo perché e mi odiavo per questo.
– Sono tornata.
Passarono molti minuti senza risposta. Io nuda ad aspettare davanti allo schermo. Con la finestra aperta.
– Allora dimmi. Quanto pesi?
– 75.
– AAAAHHH! Una cicciona! Una maiala! Una scrofa! Aaaahhhh!!! Ma perché sto perdendo il mio tempo con una come te? Ora se vuoi continuare a parlare con me, quando ti riferisci a te stessa dovrai sempre cominciare la frase con ‘questa cicciona’ e parlare in terza persona. Per esempio: ‘questa cicciona pesa 75 chili, questa cicciona si masturba sul bidè, capito? E quando ti riferisci a me mi dovrai chiamarmi ‘signorina Giada’ e dovrai darmi del lei. Chiaro?
– Chiaro, signorina Giada – scrissi digrignando i denti.
– Adesso voglio che cominci a pizzicarti i capezzoli e a tirarteli. Li voglio belli appuntiti per me, maiala, capito?
– Capito. Cioè, questa cicciona ha capito.
– Adesso mandami le foto della tua famiglia.
Basta. Dovevo mettere un freno a tutto questo. La famiglia non si tocca.
– Mi spiace, non posso.
– Allora ciao. Ti ho chiesto una cosa semplicissima, innocente e tu rifiuti. Chiudi e rivestiti. E non mi rompere più la palle.
– No! Aspetta! Te le mando, te le mando –
Cercai nel mio pc qualche immagine della mia famiglia e trovai una foto scattata una domenica davanti alla chiesa durante il matrimonio di una mia conoscente un paio di mesi prima. C’ero io, mio marito e le due ragazze. Le mandai alla signorina Giada.
– Bene, vecchia troia, adesso ti puoi sditalinare un po’ quella fica slabbrata che hai, ma non osare venire, chiaro?
Mi toccai la patata e non potevo credere quanto fosse bagnata. Cercai di titillarmi il clitoride, ma solo dopo due o tre tocchi sentii l’orgasmo montare. Allora smisi e cercai di infilarmi un dito, poi due. Stavo diventando matta, non mi ero mai, MAI sentita più eccitata. E umiliata, anche.
– Non posso credere quanto tu sia vecchia, grassa e sfatta. È chiaro che tuo marito non ti voglia più toccare neanche con un dito. Invece le tue figlie sono carine. Sono troie come te?
Continuando a sditalinarmi con la sinistra, con la destra scrissi:
– Loro sono brave ragazze. Non sono delle troie.
– Non prendermi e non prenderti in giro. Puttana la madre, puttane le figlie. Adesso sei pronta per un buon orgasmo, brutta troia?
Ero offesa per la mancanza di rispetto per le mie ragazze, ma comunque risposi:
– Sì, signorina Giada, vorrei tanto un orgasmo.
– Cosa sei disposta a fare per averlo?
Pensai di polemizzare ancora, l’avevo fatto in continuazione e avevo sempre perso. Allora scrissi:
– Qualsiasi cosa.
– Bene. Allora hai due opzioni. La prima è che tu ti masturbi di fronte al Pc adesso, in questo momento, guardando la mia foto. La seconda invece è che tu vada nella camera delle tue figlie, ti sdrai sul letto di quella più grande, ti metta un paio delle sue mutandine e ti masturbi fino all’orgasmo. Se scegli l’opzione uno, benissimo, ma non potrai più parlare con me. Se invece vuoi avere la speranza di parlarmi ancora, devi mandarmi delle foto di te che ti masturbi sul letto di tua figlia con addosso le sue mutandine. Senza le foto esplicite io non ti risponderò più. Chiaro? Che cosa scegli?
La vergogna era insostenibile. Ma scrissi:
– L’opzione due, signorina Giada.
– Bene, puttana. Divertiti. Allora la prossima volta che mi vedi on line non provare a contattarmi senza prima mandarmi le foto. Addio. – E chiuse la comunicazione.
Un senso di abbandono si impossessò di me, mentre continuavo a masturbarmi guardando l’immagine della signorina Giada sul Pc anche dopo che la finestra si fosse chiusa. Pregai che questo fosse la fine di tutto, ma presto capii di non avere scelta.
Cercai la macchina fotografica nel cassetto della scrivania dove la tenevo di solito e, nuda com’ero, cominciai il ‘cammino della vergogna’ verso la camera delle ragazze. I miei umori colavano lungo le gambe, al punto che pensai di sporcare il pavimento. Entrai nella camera delle mie figlie e mi guardai in giro come se fosse la prima volta che la vedevo. I poster, le bambole, le decorazioni rosa… La depravazione che stavo per compiere mi colpì con una violenza inaudita e l’urgenza di un orgasmo divenne una necessità assoluta e imprescindibile. Rovistai nei cassetti di Clara, la maggiore e trovai un paio di mutandine verdi con le margherite, un paio che non metteva spesso e che non si sarebbe accorta se per qualche giorno non le avesse trovate. Sembravano così piccole! Sicuramente mettendole le avrei rovinate, allargandole irrimediabilmente… Ma invece di pensare a mia figlia non facevo altro che pensare se la signorina Giada sarebbe stata compiaciuta della mia scelta.
Programmai la fotocamera per scattare una foto ogni dieci secondi, la piazzai sulla cassettiera e cercai di infilarmi le mutandine di mia figlia. Un disastro. A malapena riuscii a sollevarle fino a coprire parta del mio sesso, ma non ci fu verso di farci entrare le chiappe. Comunque il contatto con il clitoride fu così intenso che quasi venni.
Prima di perdere il coraggio mi affrettai a sdraiarmi sul letto e aprii le gambe. Di fronte c’era uno specchio e mi potevo vedere bene. Nella cornice dello specchio era infilata una foto di mia figlia che rideva con qualche amica. Il contrasto tra quell’innocente immagine e la visione di me, delle mie gambe aperte e della mia depravazione era così intenso da essere quasi insopportabile.
Ma ormai l’urgenza dell’orgasmo si era impadronita di me. Cominciai e sfregarmi il clitoride come una cagna in calore e sentii subito l’ondata dell’orgasmo montare. Persi il controllo e cominciai a gridare, a mugolare, ad ansimare, a piangere. L’orgasmo sembrò durare per sempre, non finire mai. Si era impadronito di me e quando terminò mi lasciò quasi incosciente, svenuta, disfatta, distrutta. Quasi morta.
Ma poco a poco la libidine se ne andò. Rimase la vergogna. Mi alzai lentamente, senza forze, con le mutandine di mia figlia a mezza coscia. Guardai il suo letto disfatto e la macchia gigantesca che avevo lasciato sul copriletto. Mi sentii sommergere dalla vergogna e caddi in ginocchio singhiozzando.

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