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Nelle puntate precedenti:
Francesca, ragazza di una bellezza sconvolgente, cela dietro ad una parvenza di perversione e malvagità tutto il timore che nasconde la vita adulta che si sta delineando di fronte a lei, scaricando lo sconvolgimento emotivo sulla sua vittima preferita, Linda. Approfittando di una gara clandestina di pompini che alcuni ragazzi della scuola hanno organizzato, decide di iscriversi per mostrare le proprie eccelse qualità e, in quello che considera un colpo da genio del male, fa lo stesso anche con Linda, sicura che questo la renderà ancora più ridicola davanti a tutti. Francesca ignora, però, che questa sua idea ha portato la sfigatissima Linda a far parte di una threesome con un eccellente amante e una ragazza che la sta istruendo nella sopraffina arte della fellatio e che questo porterà ad una serie di eventi che sconvolgeranno le loro vite.

Capitolo 9

      Un lungo sospiro di frustrazione sfuggì dalle labbra voluttuose di Francesca. Appoggiò il viso tra i palmi delle mani, coprendosi gli occhi, cercando di isolare il resto del mondo dalla sua mente, ma non ce la fece. Quel dannato televisore in cucina continuava a fare chiasso, la voce di gente che recitava battute idiote che solo sua madre riusciva ad apprezzare risuonava anche in salotto. E le apprezzava per tutto il fottuto pomeriggio, seduta ad una sedia a rincoglionirsi con quelle idiote telenovelas in costume, con gente che non faceva altro che corrersi dietro per poi non fare nulla una volta acchiappato il proprio amato.

Doveva studiare per gli esami, aveva bisogno di concentrarsi e cercare di capire qualcosa sulle formule finanziarie di Excel. Aprì gli occhi, sollevando la testa, e trovò ancora sullo schermo, sopra la griglia di celle, la barra della formula che la fissava, perfida, con quel segno di uguale solitario, in attesa di essere accompagnato da qualche astrusa stringa di comandi, che sembrava un sorriso di derisione verso la sua incapacità nell’usare un programma che, secondo il suo professore, le avrebbe semplificato la vita sul lavoro.

– Semplificato un cazzo… – sussurrò astiosa verso il muro fatto di celle invece che di mattoni che occupava quasi tutto lo schermo. – Altroché da segretaria, dovevo studiare da muratore!

Sbuffò di nuovo, afferrando il mouse e posizionando il cursore sull’icona a forma di libro sulla cui copertina sembravano disegnate tre monete impilate. “Ma sarà un cazzo di grafico a coso, là… grafico a torta 3d, più che una pila di monete, oca!”, si rimproverò. Quando poi fece click, la situazione precipitò come il menu a tendina in cui comparvero una sfilza di termini finanziari che a lei sembravano insulti alla sua intelligenza limitata.

– Porca puttana… – imprecò, sconfitta.

E più cercava di concentrarsi, più il pensiero della sua esibizione della gara di pompini di domenica s’insinuava tra i suoi pensieri, finendo con il prendere possesso di tutta la sua attenzione. Sapeva di essere brava, glielo diceva ogni ragazzo a cui l’avesse succhiato, e solo un paio di ragazze potevano mettere a rischio la sua vittoria, ma sperò che le gambe molli non sarebbero venute solo a lei, quando si fosse inginocchiata davanti a Daniele, sotto lo sguardo di tutti, ma anche alle altre, facendo fare loro delle figuracce. Sì, dannazione: avrebbe fatto faville, e poi trovato un pollo che si sarebbe innamorato della sua capacità di succhiatrice che l’avrebbe mantenuta a vita. E soprattutto non avrebbe mai più dovuto vedere un dannato foglio elettronico.

Ma anche senza saper dare piacere con la bocca a livelli olimpici, il suo magnifico corpo avrebbe fatto cadere ai suoi piedi qualsiasi uomo. Era una delle ragazze più alte della scuola, slanciata, con un fisico modellato da anni di palestra. Aveva i capelli corvini, con leggeri riflessi marroni, che le scendevano morbidi fino oltre le spalle, e gli occhi erano di un nero che nemmeno le notti più scure potevano vantare. Il viso che la guardava sullo schermo era leggermente allungato, con le gote accentuate sotto gli occhi, con la mascella che sfumava in un mento appena pronunciato, sopra il quale si potevano ammirare un paio di labbra voluttuose sempre impreziosite dal rossetto. Le gambe erano lunghe e tornite, che riteneva un peccato nascondere in qualcosa che fosse più lungo di un paio di pantaloncini, e che depilava in continuazione.

Ma quello di cui andava davvero fiera, e che calamitava l’attenzione di chiunque, era il suo seno. Era incredibile quanto fosse grosso e tondo, qualcosa che faceva eccitare lei stessa quando si vedeva allo specchio nuda, reso ancora più maestoso dalla pancia perfettamente piatta. Fino a sedici anni sembrava fosse stata destinata ad avere un bel viso ed un corpo su cui lavorare per essere appetibile e basta, ma nel giro di breve tempo, che a lei, ripensandoci, sembrava quello che separava la sera dalla mattina, il suo petto aveva cominciato a lievitare, a ingrandirsi, a renderla quel gran bel pezzo di fica che adorava contemplare allo specchio. Considerava le sue tette la sua arma nucleare nella guerra della seduzione e bastava che si mettesse appena appena in posizione, mostrando per bene quelle due meraviglie, per avere il controllo di ogni uomo.

Francesca non amava indossare intimo sotto i vestiti, se non in quei giorni. Non che lo facesse per togliersi meno abiti quando faceva sesso con qualcuno, quanto piuttosto per un senso di libertà. Di ribellione. Le piaceva sentire il tessuto muoversi sulle labbra della sua vagina quando camminava, e finchè il seno fosse rimasto su da solo… Solitamente indossava una maglietta con qualche stampa, che risultava comunque illeggibile tanto veniva deformata dalle grosse tette, spesso con due punte in rilievo causate dai capezzoli piccoli ma continuamente turgidi, ed un paio di short in jeans. E amava le scarpe, quelle costose: Moschino, Armani, magari un Versace ogni tanto. Tutte rigorosamente con tacchi bassi: già gli uomini facevano fatica a guardarla negli occhi, se poi si fosse alzata al punto tale da nascondersi il viso dietro al seno…

Nel frattempo, comunque, sarebbe stato comunque meglio cercare di capire come far calcolare al computer l’ammortamento di un…

Il cellulare prese vita, vibrando, guadagnandosi uno sguardo di brace da parte della ragazza.

– E adesso chi cazzo rompe i coglioni? – strepitò, appoggiando il mouse sul tavolo prima di scagliarlo contro un muro nell’impeto della rabbia che l’aveva colta. Afferrò il telefonino, aprendo la custodia in finta pelle rosa che lo proteggeva e leggendo chi la stava chiamando. Solo il rumore del televisore impedì a sua madre di sentirla imprecare di nuovo.

Se Francesca avesse potuto scegliere chi non avesse dovuto avere il suo numero di telefono, avrebbe scelto sicuramente quel coglione di Mauro. Anzi, non avrebbe mai nemmeno voluto conoscerlo. Ebbe un brivido di ribrezzo quando il suo volto le apparve nella mente.

Certo, era colpa sua se il ragazzo aveva il suo numero nella rubrica, avendoglielo dato anni prima, non ricordava nemmeno in che occasione… forse durante una gita o una festa. In ogni caso, andava detto che lui non l’aveva mai chiamata fino a quel momento, e lei si era perfino dimenticata dell’accaduto. Nonostante ciò, lei ne aveva disgusto, come praticamente ogni altra ragazza della scuola, se non addirittura paura.

Francesca non avrebbe saputo dire quanti anni avesse davvero Mauro, ma cinque o sei in più di lei di sicuro. E nonostante questo frequentava ancora la quinta superiore per elettricisti, dopo aver provato quasi ogni possibile altro indirizzo, ed essere stato bocciato in continuazione per poca dedizione allo studio e troppa al bullismo. Sì, perché, nonostante non si potesse definire proprio brutto ma nemmeno bello, ciò che davvero rendeva difficile una buona convivenza con Mauro era il suo cocktail di profonda ignoranza, completa mancanza di empatia verso chiunque e la convinzione di avere diritto a qualsiasi cosa, compreso quello di mettere le mani addosso a chicchessia.

– E quel pezzo di merda, – sussurrò la ragazza, chiedendosi ancora se rispondere alla chiamata o se bloccarla, lo schermo dello smartphone davanti al volto, – dicono abbia un pitone in mezzo alle gambe. – Ma, pensò, doveva essere una leggenda quanto l’abominevole uomo delle nevi o i fantasmi, perché nessuna donna avrebbe fatto sesso con quello stronzo.

Tentennò nel bloccare la chiamata, chiedendosi cosa volesse. Perché improvvisamente aveva deciso di telefonarle? Doveva studiare. Doveva farlo assolutamente. Ma qualcuno urlava alla televisione in cucina, e quell’”uguale” solitario nella barra della formula continuava a deriderla… “Fanculo”, si disse, avrebbe potuto studiare anche più tardi, magari con più calma in casa e nella sua mente.

Si alzò dalla sedia con in mano il telefonino e si avvicinò alla portafinestra, aprendola e uscendo nella terrazza: sua madre sarebbe stata in cucina a guardare i suoi stupidi spettacoli, ma preferiva non rischiare che s’impicciasse nei suoi affari. E poi ne aveva piene le palle di sentire tutti quegli schiamazzi recitati, cazzo.

Una leggera brezza le accarezzò il volto e le lunghe chiome nere, soffiando via un po’ di rabbia che era montata in lei. Si appoggiò alla ringhiera, ammirando per un attimo il panorama che si apriva davanti a lei, nonostante lo conoscesse a memoria e avrebbe potuto disegnarlo a occhi chiusi.

La sua famiglia aveva guadagnato un piccolo capitale con l’azienda di trasporti e, quand’era ancora piccola, Francesca aveva abbandonato l’appartamento nel centro del paese, in un vicolo, per abitare in una villetta con i muri esterni in pietra, in una zona periferica. Avevano abbandonato le comodità, aveva pensato allora, ma crescendo aveva compreso che, in realtà, avevano guadagnato molto più in tranquillità: a parte qualche trattore durante i periodi di sfalcio dei prati, o una manciata di escursionisti desiderosi di percorrere qualche sentiero poco battuto, non c’era praticamente nessuno nei pressi della loro abitazione. La campagna si apriva attorno alla casa, prati divisi da fosse e rogge attorno alle quali crescevano bassi salici piantati in file ordinate; la mattina, quando una bassa foschia scivolava tra i fili d’erba, spesso si udivano i richiami di caprioli usciti dai boschi delle montagne ad ovest. Il paese era raggiungibile in una mezz’ora a piedi ed in un attimo con lo scooter che le avevano regalato per i sedici anni lungo la strada che il suo stesso padre aveva fatto asfaltare dagli operai del comune, coprendo gli avvallamenti della strada sterrata devastata da decenni di traffico composto da mezzi agricoli.

La ragazza fece scorrere il pollice sullo schermo, accettando la chiamata. Appoggiò il telefono all’orecchio. – Pronto? – chiese, accorgendosi che la sua voce aveva un’inflessione di astio appena percettibile che credeva di aver perso in quegli istanti di contemplazione del paesaggio.

Per qualche motivo, la voce che rotolò fuori dal piccolo altoparlante diede alla ragazza l’idea di una creatura informe, simile a quelle di gelatina dei film dell’orrore, che si rivoltasse su sé stessa, con un suono liquido quando si contorceva. Le parole erano strascicate, come se un colpo di spugna sonora sbavasse i fonemi, sfumandone uno nel successivo, rendendo le parole piatte e il tutto una cantilena fastidiosa.

– Eeeh… Francesca… – biascicò il telefono. Alla ragazza sembrò che le sue orecchie si stessero riempiendo di ovatta tanto quella voce era priva di inflessioni e monotona nel tono. Già si pentì di avere accettato la telefonata. – Perché non fai aspettare tanto, bella fica?

No, si corresse la ragazza: nella voce di Mauro, in realtà, poteva riconoscere fino all’ultimo grammo di desiderio di metterla a pecorina e sfondarla con violenza. Una smorfia di disgusto si disegnò sulle sue labbra sensuali. – Senti, Mauro, non ho tempo per te.

– Oh, non hai tempo per un cazzone come il mio? – domandò l’altro. – Lo hai mai visto? Ti mando la foto, dopo, così poi ne hai voglia e corri qui a succhiarmelo.

“Che coglione…”, pensò lei. No, sarebbe stato meglio restare in casa a venire scema davanti allo schermo del computer con il sottofondo di gente che blaterava di amori mancati e corna piuttosto che perdere il proprio tempo con Mauro. Spostò il dito sul tasto rosso per sbattere virtualmente la cornetta in faccia all’idiota, quando lo stesso pronunciò sei parole che la fecero desistere all’ultimo istante.

– Io so chi si scopa Linda.

Francesca portò il telefono all’orecchio. – Lo so anch’io: con una donna. L’ho vista un paio di giorni fa baciarla mentre saliva sulla sua auto.

Mauro rise, ma il suono che emise fece di tutto tranne che rallegrare la ragazza. – No, ti stai sbagliando. Non è una donna.

– Cosa… – mormorò Francesca, confusa. La ragazza era convinta, da una serie di avvenimenti accaduti nella sua vita, di essere dotata di un cervello dalle scarse capacità, come per l’uso di programmi informatici. In realtà, in quel momento, avrebbe potuto constatare che non lo era affatto, per lo meno per quanto riguardava il calcolo delle conseguenze in base alle informazioni che aveva a disposizione. Il fatto che Linda facesse sesso con un uomo aveva fatto scattare una lampadina di allarme nella mente di Francesca: la bionda si stava davvero addestrando per i pompini? Era intelligente, Linda, non una capra come lei, si disse. Lei era autodidatta, ma la nerd probabilmente poteva avere accesso ad informazioni che Francesca non avrebbe nemmeno potuto immaginare.

No, si disse, cercando di calmare il cuore che, improvvisamente, aveva cominciato a correre come un forsennato. Linda non aveva mai visto un cazzo prima di allora, e non poteva certo recuperare l’esperienza che lei poteva vantare in tutti quegli anni. E poi, da quando un uomo si preoccupava di come gli venisse fatto un pompino? Bastava che si trovasse l’uccello nella bocca di una ragazza e che quando lo tirasse fuori non avesse segni di denti, e poi tutto il resto era grasso che colava. Se Linda non glielo avesse tranciato via, lui non avrebbe fatto tante storie una volta venuto nella sua bocca o in faccia. Un uomo che non la sa leccare non va a rompere le balle ad una donna perché non sa succhiarlo, si convinse, con un sorriso.

Sì, decise, non avrebbe avuto senso preoccuparsi di Linda durante la gara. Quelle da tenere d’occhio erano Vincenza e Marina. O Martina. O come cazzo si chiamava quella bionda simpatica quanto le dita negli occhi.

– Ma sei sicuro… non te lo stai inventando?

– Li vedo con il binocolo dalla finestra della mia casa. Mi piace guardare Linda quando fa i compiti. Mi zangolo perché Linda è una bella figa.

La ragazza ebbe un brivido a pensare che qualcuno osservasse Linda e si masturbasse guardandola studiare. Quanto doveva essere malato?

Il malato ignorava i pensieri della mora, ma chiese: – Io lui lo conosco. Tu vuoi sapere chi è?

Francesca ci pensò mezzo secondo al massimo. – Sì, dimmelo. – rispose. Conoscere il nome del pessimo amante di Linda sarebbe stato ottimo per prenderla per il culo dopo aver fatto la sua infame figuraccia alla gara di pompini. La ragazza sorrise. “Tizio non ha provato a insegnarti a fare i pompini? Ma, dopotutto, che avrebbe dovuto aspettarsi da una come te: che glielo avresti succhiato bene? Tanto valeva limitarsi a scoparsi ed accontentarsi.”

Mauro emise di nuovo quella risata fastidiosa. – Pensi che sono scemo? Mica te lo dico così, gratis.

– E allora cosa vuoi? – chiese lei, tagliente.

– Ci incontriamo al Bar Griso tra mezz’ora. – rispose lui, e chiuse la comunicazione.

Francesca sbattè le palpebre, fissando sorpresa lo schermo dello smartphone. Lui l’aveva fregata, lo riconosceva, lasciandola con l’acquolina in bocca, desiderosa di conoscere il nome del coraggioso che si scopava Linda. Ma andare al Bar Griso, quella bettola di terz’ordine? Ne valeva la pena? Con Mauro, soprattutto?

Poi lo sguardo della ragazza scivolò oltre le vetrate della portafinestra e si posò sul tavolo in salotto, dove lo schermo del computer era ancora illuminato e il segno di uguale continuava a guardarla, sogghignando. Il bel viso di Francesca venne sconvolto da una smorfia di fastidio. Mise il cellulare in tasca, entrò, prese le chiavi del motorino e disse a sua madre che sarebbe uscita un momento. La donna annuì senza distogliere gli occhi dal dramma amoroso di Fernando e Carmelita.

Francesca era seduta sul suo scooter, parcheggiata accanto al Bar Griso. Qualcuno era convinto che quel nome derivasse dal termine “grigio” in qualche dialetto settentrionale, ma i più istruiti sostenevano che fosse in realtà uno dei cattivi dei Promessi Sposi. La ragazza non aveva idea di chi avesse ragione, ma di certo, guardando il locale dall’esterno, non avrebbe scommesso sulla seconda ipotesi. A meno che i camionisti e i motociclisti non amassero leggere noiosi libri scritti secoli prima.

Era entrata lì dentro una sola volta con un ragazzo che sfoggiava un barbone e si credeva una specie di ribelle contro il sistema, senza mai specificare cosa diavolo fosse questo “sistema”, ma si era dimostrato il tipico imbecille che pensava di essere alternativo sebbene sembrasse fatto con lo stesso stampino con cui erano stati creati milioni di altri suoi simili. In ogni caso, quella bettola era il suo ambiente naturale: sporca, buia, con un pesante odore di alcolici, lo schiocco delle palle da biliardo che si scontravano intervallato da bestemmie e imprecazioni. L’unica cosa che le mancava per sembrare uno di quei bar da film americano era la puzza di fumo, ma, a quanto ne sapeva lei, quand’era piccola, le sigarette erano state bandite nei locali pubblici.

Il locale si trovava nella periferia di Caregan, nella contrada di San Dario, affacciandosi sulla SS50, dove chiunque avesse avuto bisogno di fermarsi poteva trovare ristoro presso il Griso, se non era particolarmente schizzinoso. Ovvio, pensò la ragazza, se davvero fosse stato questa fogna che sembrava, le forze dell’ordine l’avrebbero fatto chiudere, o appioppato multe su multe: se ciò non accadeva, significava che non era così disgustoso come sembrava a lei. Nonostante questo, non ci sarebbe entrata se non costretta, soprattutto per la clientela.

Una macchina rallentò davanti al bar, uscendo dalla Statale senza nemmeno mettere la freccia e parcheggiando accanto ad un vecchio pickup scassato. Era una Subaru sportiva blu con quella ridicola aletta in fondo, sul bagagliaio, nemmeno fosse stata una macchina da Formula1. Aggrediva la vista tanto era tirata a lucido, senza un granello di sporco sulla carrozzeria, mentre i finestrini erano oscurati come a nascondere l’identità del conducente; sembravano vibrare tanto era elevato il volume della radio della macchina, intento a vomitare musica metal il cui testi sembrarono alla ragazza gente che vomitava a 120 decibel. Francesca non ebbe difficoltà ad indovinare chi ci fosse a bordo: non che ci fossero tanti imbecilli in zona che giravano con auto da trenta e passa mila euro facendo più fracasso di una gara di rally.

– Dev’essere bello essere il figlio di un assessore della provincia divorziato. – mormorò con una forte dose di acida ironia. Non scese dal motorino, ma attese che fosse Mauro a raggiungerla. In fondo lei era una donna, ed un minimo di rispetto quel cretino doveva pur portarglielo, soprattutto se voleva qualcosa per la sua informazione.

La portiera si aprì, riversando nel parcheggio onde sonore dolorose come pugni nel petto della ragazza. Ci volle qualche secondo prima che l’uomo decidesse che quelle grida più adatte ad un film dell’orrore lo avessero soddisfatto e desse fine a quello strazio spegnendo la radio. Uscì dall’abitacolo mettendo faticosamente una gamba fuori, poi afferrò il tettuccio e si spinse fuori, mostrandosi in tutta la sua altezza.

Ed era davvero alto, constatò di nuovo Francesca. Non era due metri, ma uno e novanta lo raggiungeva senza problemi. In più, era magro da fare paura, come se la rabbia che lo animava bruciasse calorie meglio di qualunque corso di aerobica che la ragazza avesse mai frequentato. In pieno contrasto con la macchina costosa, indossava abiti di poco prezzo, spesso scelti la mattina dall’armadio con la luce spenta, o più probabilmente raccolti dal pavimento dove li abbandonava la sera precedente, senza la minima concezione di come abbinare colori e stili.

Non chiuse a chiave la macchina ma si diresse verso Francesca mettendo le mani nelle tasche della maglia con cappuccio, nemmeno avesse avuto sedici anni, e alzando le spalle, come per sembrare ancora più alto, quasi volesse sembrare ancora più aggressivo. Sarebbe stato uno sforzo inutile, pensò lei: bastava guardarlo in faccia per desiderare di attraversare la strada e passare sull’altro marciapiede, anche con il rischio di farsi investire da un camion. Il viso era magro e allungato, con gli occhi azzurri e i capelli biondi tagliati corti. Ma quello che spiccava su tutto era il ghigno sbilenco che gli distorceva il volto in continuazione: Francesca non riusciva a comprendere se fosse quello dell’eccitazione sessuale, di derisione, o tutto insieme uniti alla smorfia di un attacco cardiaco. In ogni caso, le dava i brividi, e le sembrava l’equivalente dei colori brillanti negli animali velenosi per indicare quanto fosse mentalmente instabile.

Mauro si avvicinò a pochi passi da lei, nella sua bocca semiaperta si vedeva una caramella muoversi, sospinta dalla lingua, intrisa di saliva. La ragazza scommise con sé stessa che adesso l’avrebbe chiamata “bella figa”, come chiamava qualsiasi ragazza minimamente chiavabile. Anzi, avrebbe scommesso che chiamava pure sua madre “bella figa”.

– Bella figa, hai fatto bene a venire qui. – la salutò lui. Il volume della voce era basso, sibilante, come quello che avrebbe avuto un serpente.

– Sì, sì. – tagliò corto lei. – È bello essere qui con te, in questo splendido luogo. Adesso che mi hai fissato le tette e hai materiale per una zangolata questa sera, dimmi chi è il coraggioso che si fotte Linda e lasciami tornare a studiare.

Lui rise, o per lo meno emise un verso vagamente paragonabile ad una risata beffarda. – Allora vuoi diventare intelligente anche tu come quella bella figa? Perché non preferisci invece imparare questa nerchia? – domandò lui, estraendo le mani dalle tasche e portandosele all’inguine, come se stesse mostrando il premio finale di un quiz.

Francesca non avrebbe voluto guardarlo in faccia perché era sicura che, mentre lui si sarebbe sparato una zangolata immaginando di coprirle le tette di sborra, lei avrebbe avuto gli occhi sbarrati nel letto, incapace di prendere sonno con l’immagine di quel ghigno nella mente. E ancora meno avrebbe voluto abbassare lo sguardo sul suo pacco, ma lo fece.

Deglutì quando, sotto il tessuto di tela beige di un paio di pantaloni di infimo valore, notò un inconfondibile rigonfiamento che partiva dal centro dell’inguine e scivolava nella gamba sinistra. Probabilmente, pensò la ragazza, non indossava le mutande nemmeno lui…

Doveva essere lungo più di una spanna, riconobbe, ed era ancora moscio…

Improvvisamente Francesca sentì un forte malessere tra le gambe che, come un crampo, si diffuse fino allo stomaco, quasi avesse mangiato molto senza bere a sufficienza… Pensò che un sorso capace di spegnere quel fastidio avrebbe potuto facilmente trovarlo lì, tra le gambe di Mauro.

D’accordo, era un coglione, dava fastidio a sentirlo parlare e se non ti insultava era perché era intento a metterti le mani addosso ma, forse, anche lui aveva una qualche qualità nascosta. O nemmeno troppo celata.

Ok, non avrebbe mai confessato alle sue amiche di essersi scopata Mauro, e se fosse girata la voce avrebbe negato perfino davanti all’evidenza, ma una cavalcata su quel cazzone… Dopotutto, era convinta che una con un paio di tette come le sue avesse il diritto di accoppiarsi con un uomo che possedesse le sue stesse perfezioni, sebbene virate al maschile, e non aveva mai trovato nessuno che rispecchiasse quelle caratteristiche.

Certo, non gliel’avrebbe data come se nulla fosse, ma la scusa di pagarlo per il nome che l’aveva portata fino a quel buco di bar non l’avrebbe fatta passare per un’arrapata che si scopava chiunque, anche perché non si sarebbe aspettata nessun’altra richiesta da uno come lui.

– Dai, non mi importa nulla del tuo uccello, – disse, faticando a distogliere lo sguardo proprio dal soggetto della sua frase. Sentiva in realtà la sua fica cominciare a bagnarsi, come se fosse stata una bocca pronta a degustare qualche leccornia. – dammi quel nome e poi lasciami andare!

Quella raccapricciante risata uscì nuovamente dalla bocca di Mauro. – Solo perché sei una bella figa ti do il nome senza volere niente? Io voglio una cosa, o niente nome.

– E cosa? – domandò lei.

Il ghigno si allargò ulteriormente, perdendo ancora più la sua labile illusione di intelligenza e rivelando la vera natura del desiderio dell’uomo. Non sarebbe stato necessario spiegarlo con le parole, anche solo considerando come Mauro fissò l’inguine della ragazza.

Lei si sentì improvvisamente indisposta nei suoi confronti, come se il suo cervello avesse ripreso il sopravvento sulla sua vagina e la ragione cominciato ad avere più voce del bisogno di soddisfazione sessuale. Valeva davvero la pena di abbassare le proprie difese davanti ad uno come Mauro, che sembrava l’ultima persona al mondo a cui affidare la propria sicurezza? Francesca poteva nominare parecchi ragazzi ben poco raccomandabili che si era portata a letto, soprattutto per il suo interesse, e che sua madre non avrebbe approvato, ma nessuno si avvicinava all’essere sbavante davanti a lei. Buona parte dei ragazzi che si consideravano dei bastardi che lei conosceva non erano altro che sciocchi che credevano di poter impressionare una donna imprecando e fingendo di essere dei duri, ma nessuno di loro era anche solo lontanamente al livello di Mauro. Lui era pericoloso.

Ma, in fondo, cos’avrebbe potuto farle? Di certo non l’avrebbe picchiata, soprattutto se quei due neuroni che aveva nella testa gli avessero fatto presente che, trattandola bene, lei avrebbe accettato di farsi fottere di nuovo. Dopotutto, come avrebbe potuto resistere a quel grosso, lungo…

Francesca non riuscì di nuovo a tenere lo sguardo lontano dal grosso, lungo cazzo. Detestava Mauro, lo temeva, ma lo voleva… no, comprese deglutendo di nuovo, il tessuto delle mutandine che iniziava a inumidirsi: lo doveva avere dentro di sé.

Fissò per un istante o due di troppo il pacco dell’uomo, poi concesse, quasi senza accorgersene, il pagamento che lui imponeva, facendolo sogghignare e rispondere con qualcosa che lei non intese ma suppose, con quel poco di intelletto che ancora non era stato sommerso dal desiderio, che non fosse stato un cortese complimento.

***

Francesca temeva che Mauro l’avesse fatta andare al bar Griso per scoparla in uno dei gabinetti.

Non sarebbe stata la prima volta che, per un suo tornaconto, si trovava a soddisfare un ragazzo, accettando la sua proposta di farlo in un bagno pubblico: la cosa di solito era breve, una sveltina che la soddisfaceva poco, lui che si svuotava le palle diventando suo schiavo, almeno per un po’. Non lo avrebbe ammesso, ma fare sesso in un ambiente simile la disgustava, e non tanto per il fatto che avrebbe preferito farlo in un letto, per quanto molti non riuscissero a capire che, magari, sarebbe stato possibile cambiare strategia, adottandone una più dolce nel secondo caso. Era proprio il trovarsi in una stanzetta di un metro per un metro e mezzo per tre metri, al cui centro svettava una tazza in cui la gente svuotava intestino e vescica, a disgustarla. Per non parlare del fatto che lei avrebbe dovuto accompagnare lui in un’area in cui si entrava solo ed esclusivamente se dotati di cazzo o di figa, solitamente il primo caso, con gente che li guardava male o, peggio, con lo sguardo libidinoso tipico di chi pensa ad altre persone intente a fare sesso.

In effetti, era più l‘essere vista come una ninfomane incapace di tenerla nelle mutande a darle veramente fastidio, anche più del trovarsi con le sue belle scarpe in mezzo a gocce di piscio di sconosciuti per una scopata tanto scarsa che le sarebbero bastate un paio di sue dita e la foto di qualche sportivo un po’ carino per provare più piacere.

Mauro, in realtà, non aveva intenzione di portarla dentro al bar. Invece si allungò mentre lei era ancora intenta a immaginare cosa avesse davvero in mezzo alle gambe, la afferrò per un braccio con ben poca grazia, la tirò giù dal motorino, e la guidò verso la sua auto, la Subaru.

Francesca non amava particolarmente fare sesso in un’auto: era alta un metro e ottanta, e quelle dannate scatolette sembravano essere state inventate per metterci nani e gnomi da giardino. Cavalcare qualcuno era scomodissimo, con la testa piegata a causa del tettuccio, succhiarglielo era un tormento per la presenza del volante e dell’asta del cambio. Una zangolata, magari, sarebbe stata una cosa ancora fattibile, se non si considerava il brutto vizio del maschio a spruzzare letteralmente seme in ogni dove, macchiando tutto. Ma in fondo l’auto era sua, così come la bega che l’avrebbe smerdata. Ecco, un ditalino sarebbe stato molto piacevole, ma dubitava molto che Mauro fosse uno di quelli che trovassero il vero piacere nel dare orgasmi ad una donna. O, meglio ancora, una sessione di baci. Quello sì, l’avrebbe apprezzata molto.

Poi pensò che non avrebbe infilato la sua lingua nella bocca di Mauro. No: per qualche motivo le ricordava una dannata tagliola per orsi, di quelle dentate che si vedevano nei cartoni animati. Arrugginita, con peli di animali e sangue secco e…

Si accorse che superavano l’auto e, proseguendo così, una dopo l’altra, anche le altre parcheggiate. Arrivarono in fondo allo spiazzo e la trascinò oltre l’angolo dell’edificio del bar, in un vicolo in ombra, pieno di spazzatura e oggetti rotti e arrugginiti. Il fondo era una gettata di cemento nuda, fatta con poca grazia, il cui centro era facilmente indovinabile da una striscia di sabbia portata dall’acqua quando pioveva.

– Dove diavolo mi…

– Zitta, bella figa. – gl’impose lui, aggiungendo uno strattone che le strappò un grido e la fece incespicare. La ragazza capì che Mauro non l’avrebbe più lasciata andare, e che se non avesse avuto ciò che voleva sarebbero stati probabilmente pugni e calci.

Non vide altra alternativa al seguirlo e accettare quello che voleva fare. E tutto quello per un cazzo di nome… Fanculo a Linda e al coglione che se la scopava.

Il vicolo divideva il bar da un capannone prefabbricato che doveva avere almeno cinquant’anni, di metallo arrugginito, le finestre con buona parte dei vetri rotti o completamente mancanti. Con un’occhiata all’interno attraverso una porta divelta, Francesca vide il pavimento coperto da terra soffiata all’interno dal vento e trasportata dalla pioggia, su cui erano cresciute alcune erbacce dall’aspetto malaticcio. Macchinari imbrattati e che non avrebbero più funzionato nemmeno dopo una profonda revisione le fecero supporre che all’interno di quel capannone venissero riparate automobili o, più probabilmente, a giudicare da un grosso copertone alto quanto lei, trattori.

Un macilento gatto dal pelo sporco sollevò il muso lordo di sangue dalla carcassa di quello che doveva essere stato un grosso topo, soffiò contro di loro, poi, comprendendo che non avrebbe potuto fare nulla per fermarli, s’infilò correndo sotto alcune assi di legno marce, saltò su una cassa di metallo che un tempo doveva essere nero ma ora era per lo più arancione di ruggine e tarlata dall’azione delle intemperie e balzò in una finestra rotta, scomparendo nel capannone. Un paio di piccioni espressero ad alta voce la loro disapprovazione per il passaggio del felino nel loro territorio.

All’improvviso, la ragazza si sentì spingere e la sua schiena sbatté contro il muro di cemento del bar, tra una pila di fusti di una marca di birra che non aveva mai sentito nominare e dei bancali impilati che emettevano un odore nauseabondo e su cui, da anni, dei rampicanti avevano ormai messo radici, riempiendoli di foglie morte e ospitando quelli che sembravano nidi d’uccello abbandonati da tempo.

Guardò Mauro che continuava a tenerla per un braccio, mentre la mano libera trafficava con imbarazzante difficoltà sul bottone dei pantaloni. Imprecò un paio di volte finchè la rotellina di plastica non uscì dal taglio nel tessuto.

Lei scosse il braccio perché lui la lasciasse. Mauro abbandonò i pantaloni, fissandola con astio. Francesca ebbe un attimo di timore, ma poi cercò di riprendere il controllo della situazione, o almeno farlo credere all’uomo. Con un ultimo movimento si liberò dalla presa.

– Anch’io ho una voglia pazzesca di fare l’amore con te, Mauro, – disse, rendendosi conto in quel momento quanto le fosse passato ogni eccitamento e avrebbe preferito inseguire il gatto per nascondersi con lui in qualche buco pieno di ragnatele. Ma sapeva che non poteva dire allo stronzo davanti a lei che aveva cambiato idea, o, se fosse stata fortunata, si sarebbe risvegliata in un ospedale, – ma abbiamo un accordo. Voglio quel nome.

Si aspettava che avrebbe preteso prima il rapporto e solo dopo gli avrebbe rivelato chi era il poveraccio che non aveva trovato di meglio della fica di Linda, e magari anche allora avrebbe voluto qualche altro servizietto per dirlo.

E invece Mauro, ora con tutte e due le mani libere, riprendendo ad abbassarsi i pantaloni, disse: – Tommaso Varotto. Ci andavo a scuola insieme. Una volta l’ho picchiato. – come se stesse parlando del tempo. I pantaloni scivolarono lungo le gambe.

Francesca aveva le dita attorno all’elastico degli short, quando sentì il nome. Si bloccò di colpo, tutta la sua attenzione a cercare nella sua memoria dove avesse già sentito quel ragazzo. – Chi… – mormorò, con gli occhi che avevano smesso di mettere a fuoco il mondo esterno a favore di quello mentale.

– Tommaso Varotto. – ripeté Mauro, questa volta con la noia di ripetere un concetto nella voce. Afferrò i pantaloncini in jeans della ragazza e, senza troppa grazia, glieli abbassò con uno strattone.

Francesca ebbe un sussulto, strappata dai suoi pensieri. Sentì improvvisamente l’aria fredda del vicolo in ombra accarezzarle le labbra della sua fica e ad asciugarle il desiderio che le imperlava, ma a differenza delle altre volte la sensazione fu ben poco piacevole. Abbassò lo sguardo e, oltre il suo grosso seno, poté notare che a Mauro l’aria fredda non stava facendo affatto effetto.

Solitamente, quando aveva davanti a sé un uccello in erezione, lo prendeva con una mano, sorridendo all’uomo che ci era attaccato, dicendogli che era davvero grosso, e accarezzandolo. In quel caso, però, la mano avrebbe voluto portarsela alla bocca, gli occhi sgranati.

Quello che puntava minaccioso contro la sua passera non era un cazzo, quanto piuttosto quello che si poteva considera il terzo avambraccio di Mauro. Doveva essere lungo almeno il doppio di un normale, confortante uccello, e questo senza considerare la circonferenza: Francesca non sarebbe stata sicura di riuscire a cingerlo completamente anche usando entrambe le mani. Vene viola e blu, disposte apparentemente a caso, rompevano il colore rosa della pelle, che si apriva svelando una cappella viola, minacciosa, appena più grossa dell’asta. Un taglio longitudinale, che negli altri ragazzi che Francesca si era fatta si notava solo se si teneva il cazzo a cinque centimetri dagli occhi, nella punta di Mauro aveva le dimensioni di una asola da camicia.

La ragazza deglutì a quella vista, terrorizzata. Chi aveva messo in giro la voce che Mauro fosse superdotato e basta doveva essere abituata a farsi sbattere dai cavalli, pensò. E pensò pure che per prepararsi ad accogliere dentro di sé un cazzo del genere sarebbero state necessarie delle lunghe ed estenuanti sessioni di fisting.

– No, Mauro, aspetta… – lo implorò, cercando di allontanarlo con le mani contro il suo petto. Essere riempita di botte le sembrò un’alternativa migliore dell’essere riempita con quell’anaconda.

Ma lui non l’ascoltò: le mise una mano sulla bocca, zittendola, mostrando del suo splendido viso solo gli occhi terrorizzati che imploravano pietà. L’altra mano si infilò sotto la maglietta, risalendo fino ad un grosso, turgido seno che strinse come gli artigli di un’aquila si serrerebbero attorno alla sua preda. Poi Francesca percepì l’ingresso del suo utero aprirsi sempre più, al pari di una bocca intenta a sbadigliare. No, anzi, le passò per la mente l’immagine che aveva visto anni prima in un documentario di un serpente che disarticolava le mascelle per poter inghiottire un uovo di struzzo.

Si alzò in punta di piedi, come se questo potesse diminuire la spinta che quella trave stava imprimendo alla sua fica, un grido roco che saliva dal suo petto quasi il cazzo la stesse riempiendo al punto tale da spingerle l’aria fuori dai polmoni. Mai più si sarebbe lamentata di un cazzo di dimensioni normali: le sue tette sarebbero state solo per amanti capaci, non superdotati, si promise mentre i suoi occhi iniziavano ad inumidirsi più velocemente di quanto lo facesse la sua passera.

Le sembrò che Mauro volesse metterglielo dentro tutto, lo sentì sbattere contro la sua cervice, un dolore che si propagò fino alla calotta cranica e poi rimbalzare indietro, azzannando ogni fibra del suo corpo. Iniziò ad ansimare, ma non certo per il piacere, mentre lui iniziò a uscire per quelli che sembrarono quindici centimetri, e poi rientrare fino in fondo. Letteralmente fino in fondo.

Francesca cominciò a sentire lo stimolo a rigettare, ma provò a trattenersi. In effetti, trovò il senso di nausea allo stomaco più gradevole di quello che percepiva nel suo inguine, e cercò di concentrarsi sul primo per non pensare al secondo.

Lo sentì rientrare dentro di sé, non velocemente, ma con forza, i muscoli della sua fica che gemevano per il dolore e la fatica di riuscire a dilatarsi a sufficienza. Per un attimo pensò che dovesse provare la stessa sensazione di essere impalata, e si aspettò di trovarsi la cappella di Mauro che la sfondava nel vero senso della parola, uscendole dalla schiena e inchiodandola al muro. Se non fosse stata zittita dalla mano sulla bocca, avrebbe implorato aiuto anche ai motociclisti nel bar, disperata.

Sentì le piccole labbra tirarsi mentre il cazzo usciva di nuovo, quasi non avessero la forza di restare attaccate al resto della sua passera, il resto del canale che collassava al vuoto lasciato dal glande in ritirata. Sembrava le avessero applicato all’inguine una di quelle macchine per il sottovuoto…

Forse solo in Mauro l’eiaculazione precoce poteva essere considerato un pregio. Dopo una decina di colpi inferti al sesso della ragazza gliene diede uno ancora più forte che la fece strillare, poi si fermò, appiattendosi contro di lei, i seni bollenti che si schiacciavano contro il petto dell’uomo.

– Ti vengo dentro, bella figa. – commentò lui, chiudendo gli occhi e lasciandosi sfuggire un grugnito di piacere.

Francesca non aveva avuto bisogno dell’avviso, sentendo il cazzo dentro di lei come percorso da una vibrazione e poi un liquido caldo invaderle la figa. Sperò con tutta l’anima che Mauro avesse finito.

E fu così. L’uomo sembrava non conoscere il concetto di coccole, o anche solo di ringraziamento: una volta raggiunto l’orgasmo, lasciò il seno su cui sarebbe rimasto il segno per qualche giorno, tolse la mano dalle labbra della ragazza, che respirò avida di ossigeno, e fuoriuscì da lei quasi si fosse accorto all’improvviso di aver penetrato per errore il tubo di scolo di una fogna.

Lei, improvvisamente libera, senza il doloroso sostegno di lui, con le gambe che le cedettero, si accasciò sulla pila di bancali, afferrando i rampicanti e ritrovandosi il viso nelle foglie secche e i nidi di uccello dismessi. – Cazzo… – sibilò, stordita, mentre sentiva il seme di Mauro cominciare a colarle fuori dalle grandi labbra e scivolare lungo la gamba destra.

Mauro aveva indossato di nuovo i pantaloni e se li stava allacciando. Alzò lo sguardo verso la ragazza che aveva appena devastato per due secondi di piacere. Lei lo fissava a sua volta, la bocca aperta, sul viso sudato l’espressione di chi è appena sfuggito dagli alieni per un soffio e non riusciva a crederci. Lui sorrise, di nuovo quell’osceno ghigno. – Ti è piaciuto, bella figa. – constatò, incapace di comprendere che una donna avrebbe potuto preferire qualcosa di diverso da un avambraccio conficcato nel proprio sesso.

Francesca non rispose, sia per la mancanza di fiato, sia per il fatto che le uniche parole che le giravano nella mente riguardavano la sfrenata vita sessuale della madre di Mauro e sarebbe stato meglio non scatenare la sua ira: dopo la sua passera, non voleva che anche il resto del suo corpo venisse martoriato.

– Tommaso Varotto. – ripeté, finendo di alzare la cerniera lampo. Senza salutare o aiutare la ragazza, si voltò e si diresse verso l’uscita del vicolo, ma dopo qualche passo si fermò, girandosi verso Francesca. Il ghigno si era allargato ancora di più. – Adesso sai cosa fare se hai bisogno di me. – Poi si voltò e uscì dal passaggio.

Francesca rimase forse un minuto appoggiata a quella puzzolente catasta di bancali marci e lerci, cercando di non mettersi a singhiozzarsi. Sentì la macchina del suo orribile scopatore accendersi e un attimo dopo le gomme stridere mentre abbandonava il parcheggio.

Non aveva mai sperimentato un dolore simile alla fica, e sperò che non sarebbe mai più accaduto. Anche il seno destro le doleva, e pensò che quello stronzo l’avesse stretto al punto tale da lasciarle il segno delle dita: se le fosse passato per la mente di togliersi la maglietta e fare il pompino alla gara in topless, adesso la cosa era da escludere completamente. Così come escludeva categoricamente di chiamare Mauro per qualsiasi motivo. Assolutamente.

Con una smorfia si sollevò dai bancali e con una ancora più intensa si accosciò per sollevarsi i pantaloncini. Imprecò nel vedere la sborra che le era colata lungo una gamba e le intrise gli short quando li alzò, macchiandoli. Per lo meno, era solo liquido di quello stronzo, e non suo, magari rosso. Una volta a casa si sarebbe fatta il più profondo bidet della sua vita, oltre ad una doccia di mezz’ora, e gettato quei pantaloncini nella spazzatura.

Appoggiandosi al muro del bar, la ragazza arrancò verso il parcheggio, ancora stordita, zoppicando. E tutto quello per conoscere il nome di uno che scopava Linda. Cazzo…

Eppure, si disse, era convinta di aver già sentito parlare di questo Tommaso…

CONTINUA…

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