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Racconti 69Racconti Erotici Etero

Una notte memorabile

By 19 Settembre 2014Febbraio 9th, 2020No Comments

Era una notte come tante in una città come troppe. Solita nottata in BIANCO! Non che poi cambiasse più di tanto dagli ultimi cinque anni…. “Dio…”, pensai, “A malapena ricordo come &egrave fatta una donna…”.
Il Bar ne era pieno, ma per mia sfortuna era anche pieno di tizi che mi superavano quanto a pettorali, eleganza, ecc. Non era un duello equo. Per niente. Mi scolai l’ennesimo te freddo al limone, iniziando a pensare alla possibilità di rompere il ciclo di esenzione dalla consumazione di alcolici e di concedermi un coca e rum… Stavo per mettermi ad urlare. Non per la scarsità di donne o per la concorrenza sin troppo pesante, no. Era invece dovuto a un sentimento assurdo, la netta, assoluta, inconfondibile percezione di essere fuori posto. Avevo davanti ragazze di quasi ogni etnia possibile e immaginabile. Nessuna che si fermasse a pensare anche solo a me: l’impermeabile indossato come un mantello, seduto al tavolo in angolo del locale.
E io avevo sinceramente smesso di provarci: la sera prima mi ero beccato un paio di vocaboli belli pesanti per una battuta che la ventiquattrenne, occhialuta, bionda, con un seno apprezzabile e un sedere da sballo, non aveva compreso…. Stavo sinceramente ponderando l’idea di tornarmene a casa. Erano appena le dieci e quarantasette minuti. -In bianco…-, sussurrai, sperando di allontanare l’anatema che si era abbattuto sulla mia vita sessuale.
Rimasi a contemplare la porta, facendo una summa della mia vita. ventisettenne, privo di una ragazza o anche solo di una sveltina senza impegno da circa cinque anni, confinato in un monolocale. Ma cosa stava succedendo? Cosa mi aveva spinto in quel locale? Presi ad ascoltare il mio respiro. Nonostante praticassi la meditazione, non lo facevo per trovare pace ma solo per procrastinare e lo sapevo. Attendevo che qualcosa,qualunque cosa, desse un pizzico di vita alla serata.

D’un tratto la porta si aprì. Visione fenomenale emersa dalle nebbie della disperazione, la giovane donna dalla carnagione color ebano avanzò nel bar. Non fui certo l’unico a notarla, n&egrave l’unico a magnificare il sedere fasciato dai jeans, abbondante ma non eccessivo, il volto, meravigliosamente sottile, come cesellato, o il seno non particolarmente grande ma comunque discreto, contenuto dalla maglia. Non ebbi alcuna fatica a figurarmi le sue curve sotto gli strati di tessuto. D’altronde, neppure gli altri avventori di sesso maschile del bar (e anche qualche donna, diciamolo) non poterono fare a meno di contemplare quella bellezza. Lei, apparentemente indifferente, marciò verso il bar, mostrando i capelli sciolti lisci sulle spalle. Il mio membro incominciò a svegliarsi dal torpore. La bella andò al bancone, ordinando d’autorità qualcosa. Subito gli altri maschi le furono addosso, contendendosela. Io, forse consapevole dell’impossibilità di competere, rimasi fermo. Bevvi l’ultimo sorso di t&egrave, cercando di decidermi se ordinarne altro o no. Procrastinai, di nuovo.
All’improvviso mi accorsi che molti avventori erano tornati a sedersi o a guardare il microschermo televisivo all’angolo del locale. La barista li guardava come con compatimento e la bella statuaria d’ebano continuava a bere il suo Mojito senza dare segno di vita. Se non fosse stato per il progressivo svuotarsi del bicchiere, l’avrei detta una statua. Per un solo istante, mi concessi di sperare. Speranza vana: aveva respinto tutti gli altri, impietosamente, nessuno escluso. Aveva schiantato al suolo le aspettative dei predatori alfa del locale. Chi ero io per provarci con una come lei? D’un tratto si alzò dalla sedia. Di certo per andarsene a casa, pensai, sprofondando nello sconforto. Non feci a tempo a considerare le altre possibilità che si sedette. A un tavolo di distanza da me! UN FOTTUTISSIMO TAVOLO DI DISTANZA!
Pensai di provarci ma, improvvisamente capii. Tutti gli altri erano stati scartati senza misericordia per una sola ragione: la loro insistenza, i loro pettorali, le lauree, il bell’aspetto… a quella donna non sembrava importare questo. Le interessava qualcos’altro: qualcosa che io possedevo, ironicamente, in grande, enorme abbondanza.
L’indifferenza, la pazienza del predatore.
O dell’illuso deluso, nel mio caso.
Annuì al nulla, pensando che non avevo comunque nulla da perdere: l’orologio segnava le 22:59. Anche volendo tornare a casa, un’occasione così non sarebbe mai riapparsa. Estrassi con un gesto misurato un giornale. Presi a leggerlo. Il ragno prese a filare la tela… Passarono i minuti. Ordinai un’acqua minerale. Credo che metà del locale mi abbia guardato male in quell’istante… In quella metà non c’era la superba femmina che, seduta al suo tavolo, metteva in mostra il seno, inquadrato in una camicetta che teneva sotto il maglione. A giudicar dal suo comportamento e dallo sguardo avevo davanti una predatrice e una meretrice…
Una vera troia.

L’acqua arrivò a dar sollievo alla mia sete. Il mio pene invece stava urlando la sua disperazione. Rimasi calmo, costringendomi ad attendere. La tipa beveva con quella sfrontatezza assoluta, tipica delle donne che vogliono una notte brava. Sentii i suoi occhi su di me. Mi costrinsi a non rispondere ai suoi segnali. Una, due, tre occhiate. La giovane pareva realmente interessata a me. Non potevo, non dovevo perdere. Sorrisi maleficamente, occultato dal giornale. Rumore di passi, tacco 12 sul terreno. La danza della vedova nera &egrave cominciata. Passò distrattamente davanti al mio tavolo per buttare un fazzoletto, o qualcosa del genere. Continuai a fissare il giornale mentre ogni singolo esemplare maschio di Homo Sapiens Sapiens (anche se molti ormai erano irrimediabilmente Erectus) si girava verso la stella del locale. Un quintetto di donne di varia estrazione sociale, etnica e politica uscì dal quadretto. Due lesbiche si baciarono senza troppo pudore, probabile disperato tentativo di riguadagnare un po’ d’attenzione. La barista le guardò con compatimento. La scena &egrave tutta per quella. Finalmente abbassai il giornale. Lei mi stava osservando nel momento in cui abbassai il Corriere, appena capì di essersi esposta, tentò di riprendere una posa da indifferente. Inutile: ormai era andata. Commenti piovvero riguardo il risultato di una partita di calcio (che io non guardavo n&egrave guardo ad’oggi). Un biondo e un tizio dai capelli da metallaro vennero quasi mani. Il biondo uscì, facendo plateali gesti di somma antipatia universalmente noti. Io e la vedova nera siamo concentrati solo sulla nostra partita di scacchi. D’un tratto compresi che rischiava di perdere interesse e decisi: o tutto o niente. Mi alzai. Andai al bagno, urinai (non ne avevo realmente bisogno ma, dato che ero lì…), mi rimisi in ordine, tornai al posto. I nostri occhi si incrociarono. Lo sguardo di lei era una muta domanda. “C’&egrave posto nella tua notte per una tigre, leone?”. Il mio sguardo era indifferenza e curiosità, sentimenti che lasciavo trapelare in maniera studiata. Presi la borsa e uscii, lasciando le monete sul tavolo. Mentre la barista si affannava a raccogliere il tutto, mi resi conto che la bella nera mi seguiva ancora. Ora entrava in atto la fase finale del grande piano. Intanto, il mio pene si era trasformato in una picca di ferro… Non dovetti attendere molto. Ero fuori a guardare il panorama e lei arrivò, i tacchi che sbattevano sulle pietre. Mi avvicinò con calma, la prudenza di una tigre che si prepara ad azzannare alla gola la preda.

-Sì?-, chiesi io con calma studiata appena la ebbi accanto, -La conosco?-.
Lei sorrise, gli occhi che erano biglie di ossidiana, la pelle bruna del viso che faceva da splendida cornice ai denti bianchi, il naso piccolo, ben fatto davvero. -No, ma sarei lieta di presentarmi… Katherine.-, rispose lei. Mi porse la mano. Un disperato tentativo di tregua. La feci attendere un solo secondo, che a lei dovette sembrare un secolo, prima di stringerla con la mia. Annusai per qualche istante il suo profumo, un misto di qualche essenza da donne molto costosa e l’aroma naturale della pelle africana, o domenicana, in quel caso. -Alex.-, dissi, presentandomi. Lei cercò di recuperare un po’ di controllo sulla situazione ma era chiaro che, se io ero eccitato, lei doveva esserlo di più… -Lei fuma?-, chiese Katherine, cercando di recuperare una parvenza di contegno. Mi offriva una sigaretta, il nettare dei dipendenti da nicotina. Non era il mio caso. -No, grazie.-, dissi sorridendo. Sorridendo a sua volta, s’infilò una paglia tra le labbra e l’accese. Nella mia immaginazione vedevo quelle stesse labbra stringersi attorno a una parte del mio corpo che in quel momento gridava vendetta per cinque anni di astinenza. Ma dovevo assolutamente fare con calma. -Tutti mi si sono gettati addosso, nel locale.-, iniziò lei strappandomi alle mie riflessioni. Il maglione non poteva nascondere le sue forme. Non aveva un grammo di grasso…, -Perch&egrave lei no?-, chiese sbuffando una nuvola di fumo. -Lo vuole davvero sapere?-, chiesi io. -S’.-, rispose lei, senza esitare. Non bastava: stava cedendo ma dovevo portarla al limite. Cinque anni sono troppo per uno come me. -Davvero?-, chiesi ancora. Come per intimidirmi, lei avanzò di un mezzo passo verso di me. Non era abituata a dover pregare, era la predatrice nel suo ambiente e lì aveva smesso di esserlo da troppo. -Sta forse prendendosi gioco di me? S’, voglio sapere perch&egrave?-, chiese ancora lei. Nel calmo silenzio della sera potevo sentirla respirare pesantemente. Una donna eccitata che aspetta un maschio…
Ma non il primo che passa.
Una troia selettiva.

-Allora?-, chiese lei. Sentivo che la rabbia stava montando. Con sicurezza piantai il mio sguardo nel suo. -Ci sono due categorie di persone, Katherine. Quelle che si mettono in mostra e quelle che non lo fanno.-, spiegai. -Ma perch&egrave…-, era confusa, glielo si vedeva in faccia. Dimentica della sigaretta, aveva preso a fissarmi, con trepidazione. -Facciamo quattro passi.-, dissi. Mi avviai senza aspettare il suo consenso. Lei prese a seguirmi. -Mi scusi ma… non capisco.-, disse confusa e decisamente in panico. -Diamoci del “tu”, ti prego. Mi fa sentire vecchio, il lei.-, dissi io, -Ho solo ventisette anni…-. Lei sorrise. -Ok… anche io sono relativamente giovane, verso i ventisette ma non mi hai risposto.-, disse, evidentemente in difficoltà. La predatrice &egrave caduta nella rete, pensai.

Senza parlare, le presi la sigaretta, mandai affanbagno tutte quelle stupide regole e feci un tiro. Prima che potesse opporsi, le soffiai il fumo sul viso. Lei mi osservò, in bilico tra una rabbia gelida e le lacrime. Mi sentii dio per qualche istante prima di baciarla. Era talmente scioccata che ci mise ben due secondi a rispondere al bacio. Io intanto esploravo la sua bocca con la mia lingua. Lei fremette quando le misi una mano sulla nuca, costringendola a continuare il bocca a bocca. Quanto tempo che non limonavo… La via attorno a noi era deserta, completamente vuota… Mi staccai da lei ansimando. Katherine era nel mio stesso stato. -Capisci, ora?-, chiesi con un sorriso. Lei si leccò le belle labbra. -Oh sì….-, fece. La presi per mano, conducendola sino al mio monolocale, pochi passi più in là. Ridevamo come ubriachi baciandoci. Le mie mani presero a palpeggiarle le natiche. Katherine gemette, infilandomi una mano nei calzoni. Entrai sotto la camicetta e il maglione, trovando conferma di quanto già sapevo: non portava il reggiseno. Le sue tette accolsero la mia mano fremendo. -mmmmh…-, mugolò lei mentre aprivo la porta di casa. Aveva preso a segarmi con una mano, reggendosi a me, come ubriaca con l’altra. Attraversammo il corridoio che portava al mio letto, una piazza e mezza di relax, spogliandoci alla velocità della luce. Il suo maglione e i miei calzoni non arrivarono oltre i primi due passi dentro casa. Le mie scarpe resistettero sino alla porta del bagno. I suoi pantaloni e le sue scarpe arrivarono sino alla cucina. Portava un tanga blu che si volatilizzò con la rapidità di un pensiero, così come le mie mutande. La bloccai contro un muro, nuda come mamma l’aveva fatta. Una frase in sanscrito le attraversava il busto dalla spalla destra al collo. Non ero interessato a sapere cosa volesse dire. Ero troppo preso nel metterle una mano tra le gambe. -Sei un lago…-, mormorai mentre ci baciavamo. Lei sorrise, i bei capelli come una colata di inchiostro sulle spalle. -Anche tu mi sembri bello eccitato…-, sussurrò prima di chinarsi e ingoiarmi il pene. Prese a farmi un pompino da primato, con espressioni facciali e tutto, come se fosse una pornostar. Rischiai di godere e la fermai appena in tempo. La gettai sul letto, mentre lei osservava appena la mia stanza; qualche libro, un set di katane giapponesi, una libreria di fumetti. Non fece commenti, tant’&egrave che non ne avrei ascoltati: mi immersi tra le sue gambe dopo che lei mi diede il via libera, in quanto era pulita da AIDS e quant’altro, roba che oggigiorno &egrave sottovalutata di brutto… La sua fica era scura e depilata fuori ma caldissima, umida e rosa dentro. La penetrai con la lingua, dopo averci infilato due dita per qualche minuto. Persi anche a strizzarle i capezzoli e a torturarle il clitoride. Lei urlava di piacere, stava gridando. Grazie al cielo che la stanza l’avevo fatta insonorizzare… -S’… ti prego, lecca tutto! Fammi godere come una troia…. S’!-, stava urlando. Intanto avevo appurato che era dei Caraibi: il suo odore era più dolce di quello delle africane… non che importasse: era la prima scopata che facevo da tanto. Bastava quello. -mmmmmh,,,-, fece quando la feci godere per la prima volta. Succhiai tutto il suo piacere mentre lei, mettendosi a 69 aveva preso a succhiare me. La lasciai fare prima di ordinarle di fermarsi. Intuendo cosa volessi, si mise a pecorina, a carponi sul letto. Mi disse che aveva la pillola, che non rischiavo niente, ecc ecc. La penetrai, prendendola con forza per affondare di più dentro di lei. Lei gridava di piacere, una vera sirena… Le presi i capelli, tirandoglieli. Godette di nuovo. Uscì da lei. Volevo godere in un’altro posto. -Cosa fai?-, mi chiese. Le spalancai l’ano, divaricando le natiche, insensibile ai suoi falsi lamenti. La sodomizzai senza pietà.- Così impari, troia!-, dissi. -Sono la tua troia… di più…-, gemette lei, presa dal godimento. Le assestai una sonora sculacciata. Iniziai a muovermi dentro di lei sempre più. Lei s’inarcò, mormorando oscenità in spagnolo. Stavo venendo e volevo venire in un’altro posto. -Vienimi in faccia!-, implorò lei, totalmente uscita di senno. Mi aveva letto nel pensiero. Le avvicinai il pene al volto, pochi scrolloni da parte sua e venni con uno schizzo colossale che le inondò il volto e impiastricciò i capelli. Sorrise. Rimanemmo intontiti dallo scarso aflusso d’ossigeno e dal piacere.
Presi rapidissimo un pennarello dal comodino, usavo quel pennarello indelebile fine come segnalibro, ma ora… Scrissi il mio numero sull’interno coscia di Katherine. -Hai un ragazzo?-, chiesi. -Io… Sì.-, disse dopo una breve esitazione. I ruoli si erano rovesciati: io il padrone, lei la schiavetta. -Da ora non più.-, dissi perentoriamente, -Te ne andrai a casa così come sei, con solo la camicetta, i calzoni e le scarpe. Non ti pulirai la faccia e io mi terrò il tuo bel tanghino…-. -Ma io vivo ancora con i miei e,,, mio padre &egrave fuori ma mia madre…-, gli occhi della bellezza tropicale si riempirono di lacrime. -Prendere o lasciare.-, dissi io, consapevole di quanto fosse dura una scelta del genere, -Considera che, se accetti, le cose si faranno molto, molto interessanti. Se rifiuti, io non ho problemi a rifarmi una vita.-. Era un mezzo bluff ma Katherine non sapeva. Almeno non ancora.

Attesi qualche secondo. Pazientando. La fissavo negli occhi, spietato. Non avrei ceduto e nemmeno lei voleva cedere. Le passai la mano dal collo al seno, strizzandolo all’improvviso. Pur lasciando andare una smorfia di dolore, lei non proferì parola.
Dura a cedere…
-Immagina per un’istante. Quanti locali ancora dovrai girare per trovarne uno come me. Perché so cosa cercavi: uno che non ti prendesse per un pezzo di carne. Uno che non stesse al gioco. Magari lo troverai, ma sarà un damerino, un fantoccio. Tu non vuoi questo. Per quanto lo sentirai orribile da pensare e da dire, tu, Katherine Sei.Una.Troia. E fidati. Non vuoi una vita normale… neanche io la desidero. Ora scegli pure.-, sussurrai al suo orecchio mentre piantavo tre dita nella sua fica aperta. Lei sussultò, ancora non so se per la frase o per le dita ma si alzò e disse che le serviva un po’ di tempo. Se ne andò come avevamo convenuto. Sorrisi, afferrando la Katana ed estraendola. I prossimi giorni si sarebbero rivelati… interessanti. Contemplai la lama per qualche secondo, cercando come un riflesso della purezza di cui quelle lame erano investite secondo le leggende. Purezza che in quest’epoca non esiste più. Ne io ne Katherine eravamo puri ma ero certo che la mia vita, dal punto di vista sessuale sarebbe stata purificata. Oh sì… Mi rimisi le mutande e mi gettai a letto, stringendo il tanga di Katherine, attendendo che chiamasse. L’avrebbe fatto. Ed ero molto, molto paziente. Katherine non chiamò ne il giorno dopo né la settimana successiva. Attesi. Sapevo che avevo lasciato un segno sulla bella ventiseienne d’ebano con tendenza alla troiaggine estrema.
Non che avessi realmente qualche aspettativa: attendevo per attendere, consapevole che lei avrebbe anche potuto non richiamare mai. Una parte di me sapeva che aveva i suoi buoni motivi per non richiamarmi. Comunque, stavo tornando a casa, alle cinque di pomeriggio dal mio scarso lavoro e, prossimo a rientrare, sentii lo squillare del telefono. Dato che non era un numero noto, risposi con prudenza.

-Pronto.-, dissi in tono neutro. -Sono io.-, fece la voce di Katherine all’altro capo della linea. -Hai deciso?-, chiesi andando dritto al punto. Silenzio, per circa dieci lunghissimi secondi. La sensazione del vuoto, prima delle parole che devono essere dette. Sicuramente sa meglio di me che non ci saranno proroghe o attenuanti di sorta. Ha voluto giocare col fuoco e si &egrave scottata, pur essendole piaciuto moltissimo…
-Io… potrei provare a…-, balbettava, non terrorizzata, semplicemente sull’orlo d’una scelta che non poteva, proprio non poteva controllare. Poteva dire no, ignorare la verità che conoscevamo entrambi e ripartire ognuno per la sua strada. Poteva anche dire sì e accettare le conseguenze. Non che fosse facile, naturalmente. -Allora?-, chiesi, senza quasi tradire alcuna emozione. In realtà, il mio pene stava già iniziando a rivendicare quel che riteneva ormai territorio di suo regio diritto. -Io vorrei provare.-, disse. Io la gelai sibilando una famosissima frase di un vecchio film. -Fare o non fare. Non esiste provare.-.

Il vento spazzò la strada. Mi rifugiai in casa, presagendo il temporale. Il silenzio calò di nuovo. Attesi con pazienza. Lei appese. Mi limitai a premere il tasto di fine chiamata. Per qualche strano, stranissimo motivo, sentivo che il nostro gioco era entrato in una nuova fase. Da lì non c’erano più scappatoie. Certo, poteva essere che avesse appeso come un rifiuto. Forse il prezzo era troppo. Io non lo credevo. L’avevo letta come un libro aperto.

La suoneria del telefono mi impedì di proseguire nel soliloquio. La lasciai in attesa qualche secondo prima di rispondere. -Ho deciso.-, sussurrò lei. Era tesa, tesa e impaurita. -Sì?-, chiesi io con vago accenno d’impazienza. Serviva a ridarle fiducia. M’importava di lei, alla fine. Forse non era solo la classica donna da scoparsi il sabato sera. Forse ci sarebbe stato di più. Secondario, del tutto secondario e fuori luogo. Se volevo vincere il premio, dovevo mantenere la guardia alta.
-Accetto…-, mormorò Katherine con un tono che sembrava in bilico tra la tiepida ammissione di colpa e la sincera gioia di una confessione d’amore. -Dove sei?-, chiesi io. -A casa, ci sono mia madre e mia sorella minore…-, rispose. -Bene. Vieni da me. La strada la conosci, no?-. -Devo mettere qualcosa di particolare?-, chiese lei con tono civettuolo. -No, così come sei andrà più che bene.-, risposi. Lei chiuse la chiamata dicendomi che sarebbe giunta in fretta. Io mi feci una doccia lampo e attesi. Pianificando le prossime mosse come se fosse una partita di scacchi o di Go (gioco di strategia cinese risalente al 500 a.C.).

Il campanello mi annunciò l’arrivo di Katherine. Aprì trovandomela davanti avvolta in una giacchetta, una maglia a maniche lunghe nera con una di quelle scritte a cui non bado mai, dei calzoni che la fasciavano come un guanto e le stesse scarpe dell’ultima volta. Sorrisi e sorrise anche lei. L’abbracciai, premendole le labbra contro le sue. Non era pronta a quello slancio d’affetto e, quando si riprese, mi distaccai.
La feci sedere in cucina e cominciammo a parlare. La parte 2 del mio piano poteva dirsi prossima a partire. -Allora. Facciamo così: io ti faccio una domanda, tu ne fai una a me. Se uno non risponde, l’altro può fare un’altra domanda.-, dissi. Lei cercò di opporsi. -Sembra un’interrogatorio…-, disse. Sorrisi, accompagnandola in cucina dove avevo un tavolo con 2 sedie. -Lo &egrave.-, dissi, -Ma varrà ogni singola parola, vedrai.-. -Comincia pure.-, le dissi una volta seduti. La bella ragazza si prese qualche secondo prima di chiedere che lavoro facessi. Le risposi che lavoravo in falegnameria. Le chiesi del suo. Impiegata a tempo parziale in una misconosciuta azienda di alimentari. Toccava a lei: le mie relazioni precedenti. Due, entrambe terminate da anni. Le chiesi del suo rapporto col suo ragazzo. Lei disse che era un chirichetto: tutto casa e chiesa, amor romantico e cortese. Un damerino, appunto. Continuò dicendo che stavano insieme da due anni e non avevano ancora combinato nulla, solo un paio di baci “audaci”(come li definiva lui). Per trovare dei veri uomini era costretta ad andare a caccia. Toccava nuovamente a Katherine che mi chiese delle mie passioni. Le elencai metodicamente lo zen, la letteratura, i romanzi di fantascienza e la poesia giapponese, Haiku.

Rimase impressionata, permettendomi di preparare l’attacco successivo. Sapevo che era prossima a esplodere. Le serviva una scopata. Ne aveva un bisogno viscerale e la cosa mi avrebbe permesso di inchiodarla, di leggerla come un libro aperto. Le chiesi delle sue origini. Domenicana, di buona famiglia, emigrata in Europa da ben prima della sua nascita, ecc. Toccò a lei. Chiese invece del mio rapporto con l’alcool e i tabacchi. Le spiegai della mia situazione. Capii subito quanto ci tenesse realmente a quella cosa: se avesse realmente voluto andarsene, avrebbe potuto accampare questa come scusa. Non l’aveva fatto, mi poneva in vantaggio. Presi a chiederle del suo tatuaggio visto la notte in cui c’eravamo conosciuti. Era una frase che significava grossolanamente “mai un fallimento, sempre una lezione”. Annuii, consapevole che il gioco era durato abbastanza. Lei mi chiese infatti quanto ancora avrei voluto continuare con quella faccenda. Io dissi che sarebbe durata il tempo necessario. Infine, la mia ultima domanda riguardava il suo reale affetto verso il suo boyfriend. Cercò di dissimulare ma la realtà era che era quasi nullo. Stava con lui più per compassione che altro, evidentemente. Mi andava bene, sapevo abbastanza. La fase 2 entrava nella sottofase attiva.

Le chiesi di chiamare il suo ragazzo. Lei chiese perch&egrave. Io mi limitai a dirle che il tempo delle parole era finito. Iniziai a fischiettare una vecchia canzone degli AC/DC, You shook me all the night long, parlava grossomodo di quello che io e quello schianto di femmina avremmo fatto di lì a poco.
Lei intanto aveva selezionato il numero ma esitava a chiamare.
Capii che aveva bisogno d’aiuto. Un conto era ponderare l’abbandono di ogni certezza, un conto era metterlo in pratica. Mi alzai, prendendole la mano in cui teneva il telefono, cercando di incoraggiarla. -L’hai detto tu che &egrave uno un po’ freddo a letto.-, iniziai, usando un monumentale eufemismo. -Ma mi ama… dio, quasi mi venera…-, fece Katherine. -Sì, ma non ti dà quello che vuoi. Continuare a tradirlo non farà bene a te e continuare questa storia non farà bene a lui. Dovete rompere. Per entrambi.-, dissi io baciandola sulla guancia. Lei gemette appena, sussurrando qualche parola in spagnolo. Non afferrai ma il senso era chiarissimo. -Inoltre, non mi dirai che non ti &egrave piaciuto, l’altra notte.-, infierii io, impietosamente. Vidi uno strano lampo nei suoi occhi. -L’altra sera… io…-, esitava, la sua coscienza faceva a botte con quello che realmente voleva ma che non era capace di ammettere. -Hai goduto e pure tanto.-, dissi io, -Ora tutto sta se vuoi ripetere un’esperienza così, magari anche amplificarla, oppure tornare al trantran di sempre.-. Lungo silenzio, di uno, due, tre minuti. Lei semplicemente mi prese per il colletto della maglia e mi attirò a se. Il bacio durò qualche minuto. Quando ci staccammo, chiamò. Sentivo chiaramente che era eccitata come una cagna in calore ma c’era anche altro: il sollievo di non doversi più nascondere. -Non risponde.-, disse appendendo la chiamata. Annuii, con calma. -Richiamerà lui.-, dissi, -Ora andiamo di là.-.
La mia camera era identica a quel giorno. Katherine prese in mano la Katana, come preoccupata di ferirsi. Curiosa però al tempo stesso. -Taglia davvero?-, chiese infine. -Scoprilo.-, dissi io. Lei estrasse la lama dalla guaina e la puntò nella mia direzione. Con calma assoluta feci scorrere il pollice sul filo. Il taglio era minimo. Lei prese a succhiarmi il pollice mentre mollava la presa sull’arma che io ora reggevo. Presi il fodero, la rimisi al suo posto e mi concentrai sulla nera meravigliosa che avevo davanti. -Un uomo così… estremo.-, disse lei, come riflettendo. -Molto più di quel che pensi.-, dissi io. Presi a spogliarla freneticamente. Mi gettai sul letto con lei dopo aver disseminato i nostri vestiti in tutta la stanza. Katherine prese a baciarmi il petto, la pancia, scese sull’addome e arrivò al pene. Prese a succhiarlo con avidità. La lasciai fare. Raggiunsi i suoi calzoni, approdati su un comodino e tolsi il telefono dalla sua tasca. Lo posai sul comò. Tutto era pronto per la fase finale. Presi il tanga blu di quella notte da sotto il mio cuscino e lo usai per legarle le mani. Si lasciò fare dopo avermi fatto un pompino da primato. La guardai. Legata a un pomello del letto, le gambe aperte come l’ultima delle puttane, desiderosa di sesso all’ennesima potenza… sarebbe stata accontentata. -Fottimi!-, implorava, -Fammi venire!-. Annuii, infilandole due dita nella fica già bagnata. Katherine guaì di piacere mentre aggiungevo un’altro dito. -Credi di riuscire a sopportarne un’altro?-, chiesi. Non attesi la risposta. Non mi importava: lo feci entrare. La domenicana si mise a urlare dal piacere. Sbrodolò succhi vaginali sul mio copriletto. Le infilai le quattro dita in bocca mentre procedevo mettendole un cuscino sotto il ventre e mordendole i capezzoli già eretti.
Mi preparai a penetrarla. Il telefono suonò proprio in quell’istante. La slegai, facendole segno di rispondere. Stavo per dirle di non muoversi: l’avrei chiavata col suo fidanzato in videoconferenza. Non che servisse dirglielo: quella ragazza aveva già capito. -Ciao Marco.-, disse lei, intervallando i respiri con ansimi inequivocabili, -Sì sto bene.-, fece, -Mi sto… facendo scopare a sangue…. dal mio… nuovo ragazzo.-, disse, ansimando mentre la pompavo. I commenti del tizio al telefono incominciarono, una sequela infinita di “ma” e “perché” vari. -Non… mi fai… mai godere…. Devo sempre…. andare fuori a… cercare qualche…. vero uomo!-, disse lei inviperita ed eccitata. Venne una prima volta con un grido strozzato che l’ormai dichiarato ex doveva aver sentito. -Non… me…ne… frega un cazzo…. di essere… vergine al…. matrimonio! Devi… piantarla con…. queste…. stronzate!-, gemette lei mentre le massaggiavo lo sfintere con le dita. La sentii gemere mentre le infilai un dito nell’ano. Stava venendo di nuovo e io stavo davvero faticando a contenermi. -Oh sì… ti prego… continua!-, gridò lei, ignorando bellamente l’ex al telefono. Che peraltro non si arrendeva. Meglio così… Per dare il tocco finale, presi il cellulare e urlai: -VUOI STARE ZITTO CHE STO SCOPANDO A MORTE LA TUA TROIA DI EX?!!!?-, prima che lui potesse rispondere. Probabilmente avevo assordato il tizio all’altro capo della linea ma finalmente mi ero sfogato. Katherine sorrideva beata come non mai, accogliendo le mie sollecitazioni con entusiasmo. Le piantai il membro nella vulva, rinunciando temporaneamente al suo secondo altare di venere. Venni dopo poche spinte e venne anche lei. Rimasi dentro di lei accasciandomi sul letto. -Non so… se sei stato tu… o la chiamata. Ma &egrave stata la trombata più bella della mia vita.-.sussurrò Katherine baciandomi. -Il meglio deve ancora venire.-, dissi io, riconquistando una respirazione decente. Eravamo entrambi sudati e stanchi ma felici e rilassati.
Le dissi poi di rivestirsi ma non di farsi una doccia: saremmo usciti a cena, un ristorante abbastanza lussuoso ma non pacchiano.
Tutti dovevano sapere che lei era mia. E lei lo voleva: l’avevo definitivamente conquistata.

Andammo a mangiare all’Arancia Rossa, un ristorantino non da poco. Per tutto il tempo mangiammo pensando entrambi, ne ero certo, a quello che avremmo fatto dopo! E credetemi: ci fu di che divertirsi.
Mentirei se dicessi che durante la cena all’Arancia Rossa non provai fitte di gelosia ogni volta che un uomo spiava il decolt&egrave di Katherine.
La cosa mi preoccupò alquanto: lei stava divenendomi sempre più legata. Io sino ad allora avevo mantenuto un’atmosfera di distacco. Non che potessi più farlo…. Fatto sta che pagammo il conto e tornammo al mio monolocale. Fu allora che lei mi raccontò del suo ritorno a casa la notte in cui c’eravamo conosciuti. -&egrave stato terribile, ma anche bellissimo! Una tipa che non conoscevo ha notato la mia faccia… avrei voluto sprofondare, sparire…-, immaginavo bene la sua vergogna, -Poi un tizio ha notato che non avevo reggiseno e mi ha fissato le tette per tutto il tempo che ha potuto stando fermo. Infine mia madre mi ha rimproverata per essere tornata senza dare mie notizie ma, dato che c’era poca luce, non ha notato il mio stato. &egrave stata una vera tortura!-.
Annuii, compiaciuto dalla sua volontà che però era ancora avvolta in un bozzolo, scossa dai troppi cambiamenti avvenuti e da quelli che dovranno avvenire. -Però ti &egrave piaciuto.-, dissi. Non era una domanda: sapevo che le era davvero piaciuto quel che era successo e, dopo qualche istante, Katherine annuì. -&egrave stato… eccitante. Una volta a letto mi sono masturbata come un’ossessa!-, disse riuscendo a stento a trattenersi dal ridere. La baciai, lentamente e con passione, costringendola a fermarsi. -Niente come quello che faremo.-, dissi quando ci staccammo riprendendo a camminare. -Stanotte?-, chiese la giovane con la lussuria scolpita negli occhi. -Non solo… i prossimi mesi ti piaceranno, vedrai.-, dissi io a mo’ di risposta. Lei sembrò bearsi della risposta. Mentre camminavamo non parlammo per qualche minuto. D’un tratto mi resi conto che Katherine stava diventando qualcosa di più di quella che veniva definita una scopa-amica, la nostra stava diventando qualcosa di più di una relazione basata sul solo sesso.
Stava diventando amore.
E lo sapevamo entrambi.

Ero sinceramente molto, molto preoccupato: tutte le relazioni a lungo termine da me iniziate erano sempre finite… male. C’erano stati bei momenti ma poi, in un modo o nell’altro, finiva male.
Inutile dire che lei notò il cambiamento del mio stato d’animo.
Mi chiese quindi cosa non andasse. Risposi senza timore. Lei rise dicendo che la nostra non era una relazione, almeno non ancora. Eravamo arrivati a casa mia, intanto e il mio pene mi stava ricordando che avevo lasciato qualcosa in sospeso… Lei mi prese la testa, portandomi a baciarla. Per qualche istante mi andò anche bene che fosse lei ad assumere il comando: ogni buon stratega deve sapere quando ritirarsi. Entrammo in casa, con lei che si strusciava senza vergogna contro di me. Esattamente come volevo che fosse.

Mi appoggiai a una parete, costringendola a chinarsi per succhiarmi l’uccello mentre le stringevo impietosamente i seni ormai liberi dalla schiavitù degli abiti. Chiusi la porta con una mano mentre dirigevo il ritmo della pompa con l’altra. Era davvero brava a succhiarmelo: usava la lingua per arrivare in punti che neppure io potevo dire di conoscere appieno, lo mordicchiava appena, come per farmi paura, col solo risultato di eccitarmi di più. Mi stava facendo venire. La feci alzare e le abbassai di colpo i calzoni e le mutandine. Presi a sodomizzarla sul pavimento prima ancora che potessi davvero pensare a cosa stessi facendo. Non che a Katherine dispiacesse: le contrazioni del suo sfintere mi dettero modo di comprendere che stava godendo di quella pratica quanto me. Blaterava oscenità in spagnolo, mordendosi le labbra per non urlare. Le strizzai un seno con una mano. Stavamo entrambi emettendo versi animaleschi e il corridoio non era insonorizzato.
In quel momento non ce ne fregava nulla.
Ero piantato nella giovane domenicana come un piolo… presi a masturbarla finché non venne. -Vienimi… davanti…-, implorò lei. Uscì dal suo ano, piantandomi nella sua vulva con calma. Tempo un paio di passaggi e venni con un grido primordiale e almeno tre schizzi di sperma. Katherine gemette un “Sì” gutturale. Godemmo accasciandoci sul pavimento, l’uno dentro l’altra, fusi per qualche istante in un solo essere.

Rimanemmo fermi per minuti, o forse ore. -&egrave stato bello…-, mugolò lei. -Come le altre volte.-, dissi io accarezzandole una guancia. Le mie dita arrivarono sul collo, sul seno (dove si trattennero per qualche istante), per poi giungere sul sedere. Dopo qualche minuto, ci rimettemmo in ordine. -Torna a casa così come sei. TI chiamerò io.-, dissi, cercando di ritornare il gelido predatore che ero stato. -Quando?-, chiese lei, evidentemente ormai dipendente da quelle esperienze. Mi presi un’istante per pensarci, un lungo istante.
-Dopodomani.-, dissi, -&egrave domenica.-.
Lei sorrise. Un sorriso che, malgrado ogni dannata precauzione che potevo impormi, ricambiai… La domenica io e Katherine ci godevamo la quiete del lungolago con tenerezza, abbracciati su una panca. Cercai sempre di mantenere quel distacco che avevo eretto durante i primi due appuntamenti ma ormai non ero più credibile… E lei era così gentile e accorata, sempre sorridente, sembrava davvero innamorata di me.
D’un tratto le misi una mano sul ginocchio. Lei, sulle prime non se ne diede peso. Era una giornata calda e soleggiata, totalmente inadatta a un settembre come quello. Eppure, la temperatura ci aveva permesso di ritrovarci in calzoncini e magliette corte. C’era un sacco di gente sul lungolago ma nessuno badava a noi. Presi a far salire la mano, arrivando sulla sua coscia, inguainata dallo short in jeans. -Cosa fai?!-, mi sussurrò all’orecchio, allarmatissima, -Ci vedono tutti…-. Era terrorizzata dalla possibilità di essere vista da qualche guardone. Ma io vidi che nessun guardone era particolarmente attivo.
La cosa mi diede sicurezza, tanto più che era mezzogiorno e la stragrande maggioranza dei presenti sul lungolago prese a defilarsi. Rimasero un paio di vecchietti parecchio lontani da noi, due o tre ragazzi che ascoltavano una musica che stonava di brutto con la relativa armonia del paesaggio. Nessuno sembrava intenzionato a spostarsi… come su una scacchiera, il gioco vero poteva iniziare.
-Tranquilla…-, dissi con un sorriso, -Nessuno bada a noi.-. Rassicurata, si distese, stringendosi a me e passandomi un braccio attorno al collo, emettendo un sospiro. La mia mano si spostò proprio sopra la sua vulva. Lei trasalì, stringendo appena le cosce. Le baciai il collo con leggerezza, consapevole che era solo questione di tempo perch&egrave cadesse. -So che ti piace.-, le dissi in un orecchio prima di morderle appena il lobo. La mia mano premette appena sopra la vulva con un movimento circolare. Sentii il calore dell’intimità di Katherine attraverso i jeans mentre continuavo. Una, due, tre, cinque carezze. D’un tratto lei mormorò una singola frase, una confessione.
-Non porto le mutandine!-.
Mi fermò, semplicemente perch&egrave la cosa mi suggeriva un piano migliore. Gli anziani sulla panchina stavano dormendo, i ragazzi a parecchi metri di distanza avevano preso a impacchettare le loro robe e se ne stavano andando. Trafficai con la lampo degli shorts mentre sentivo una mano avvolgersi attorno al mio membro semirigido. -TI sei svegliata, vedo.-, dissi. -Taci e fammi godere!-, disse lei. -Troia.-, mi limitai a insinuare io. Katherine mi baciò, fu un bacio lungo che ci bloccò entrambi, trascinandoci in un universo oscuro, differente, in cui nulla poteva essere tranne noi. Appena ci staccammo mi accorsi che stavamo entrambi ansimando. -Sì, come ti pare. Ora però fammi godere, o vado a chiedere a quel vecchietto!-, minacciò lei sorridendo. Sorrisi anche io, abbassando la zip. -Saresti accusata di molestia sessuale…-, constatai. -Mai quanto te!-, esclamò lei, stringendomi il membro da sopra i calzoni. Mi accorsi che rischiavo di godere.
Entrai dentro di lei con due dita, notando che una coppia più giovane di noi c’aveva vagamente visti. -Ci hanno visti.-, dissi. Katherine sorrise perversamente. -E allora? Continua. Mi eccita sapere che noi possiamo e loro no.-, rispose con sfrontatezza. Continuai a penetrarla con le dita finché non venne, inzuppando gli shorts. I due, a parecchi passi di distanza, si erano fermati, osservandoci con un misto di sincera ammirazione, invidia, lussuria e disgusto. Succhiai le dita che avevo introdotto nella bella nera e dissi che era più buona lei di qualunque alcolico poiché mi dava davvero dipendenza. Lei rise. La coppia davanti a noi ci fissava ancora. -Penso di doverti restituire il favore.-, disse lei. E lì superammo un confine. Iniziò a segarmi, riuscendo a introdurre una mano nei miei pantaloni. Venni nelle mutande e tra le sue dita. -Non pensare che sia finita.-, dissi, -Stasera ne vedrai delle belle.-. -Non vedo l’ora!-, esclamò lei baciandomi il collo e il volto, mentre i due fidanzatini, comprendendo che lo spettacolo era finito stavano lentamente smontando le tende.
Poi, mi fece una domanda che generò in me un’idea… perversa.
-Io amo la verdura. Dove andiamo a cena?-, chiese. Un’immagine dalla devastante carica erotica prese forma nella mia mente e decisi che l’avrei concretizzata.
-A casa mia.-, risposi.
Le avrei dato tutti i vegetali che voleva… E anche di più!

Mentre ce ne andavamo, notai che sorrideva. Non ci voleva un genio per capire che, da quando aveva lasciato il suo ragazzo, così corretto e ligio alle usanze cristiane, aveva ripreso a vivere davvero. Inoltre restava una vera e propria dea del sesso.
Io non potei fare a meno di chiedermi se davvero non fossi innamorato di lei. Non poteva restare un semplice rapporto basato sul sesso?, mi chiesi mentre ritornavamo alla fermata del bus, ignorando gli sguardi curiosi e scandalizzati che i più rivolgevano agli shorts macchiati di liquido vaginale di Katherine. Sarebbe stato molto più semplice… Come promessole, cucinai personalmente una caponata di verdure miste. Katherine mangiò di gusto i vegetali, dicendomi intanto che il suo cognome (che non rivelerò, ancora) e che aveva imparato ad apprezzare molto i momenti che trascorreva con me. -Oltre al sesso, chiaramente.-, sottolineò, -Perché quello &egrave davvero paradisiaco…-. Innaffiamo la cena con del buon rosso Tavernello, mi concessi persino un bicchiere.
Lei buttò giù un paio di bicchieri ma non reggeva molto l’alcool e, tempo un’altro paio di bicchieri e già aveva problemi a camminare. -Fantastico…-, sbuffò, decisamente delusa dalla sua capacità di reggere gli alcolici. Per me lo era, ovviamente. La feci sedere sul letto. -Non vorrai mica…?-, chiese lei, fingendosi oltraggiata. -La caponata ti &egrave piaciuta.-, dissi io, -Ora vediamo se gradisci questo.-, esibii un cetriolo dalle dimensioni spropositate. Gli occhi di Katherine si ingrandirono alla vista di quella bestia. -Mi farà malissimo…-, gemette ritraendosi. Previdente sorrisi estraendo un tubetto di vaselina. -Non se ci aggiungo questa.-, dissi. La vidi indecisa, timorosa. Aspettai qualche istante: sapevo che l’idea di un’affare del genere che le entrava dentro la eccitava in maniera abnorme.

-Accetto.-, cedette infine, -Ma a una condizione: me la lecchi per bene.-. I suoi occhi erano gioielli neri… La baciai, iniziando a spogliarla con lentezza estrema. Quando fu nuda, mi immersi tra le sue cosce e presi a baciarle sino ad arrivare alla fica. Iniziai a penetrarla con la lingua mentre lei gemeva. La feci godere dopo pochi, abili colpi di lingua. Bevvi ogni singola goccia del suo nettare. Aveva un sapore dolce, non mi dispiaceva per nulla. -Fallo entrare!-, mi ordinò allora la bella domenicana.
-Prima mettiti a pecora.-, ordinai io, consapevole dell’erezione granitica che mi stava venendo
-Porco.-, disse Katherine.
-Il tuo porco.-, chiarii io, inflessibile.
-Esatto.-, disse lei. Solo allora si mise a carponi.
Dopo avere unto il cetriolone con la vaselina le glielo feci entrare nel culo! -Dannazione… &egrave grandissimo!-. gemette lei cercando di spingerlo fuori. Intanto presi a penetrarla col mio pene nell’altro orifizio. Andai avanti e indietro, alternando il ritmo di entrambi finché lei non venne con un grido strozzato. Crollò esanime sul letto.

Preoccupato cercai di capire se fosse svenuta o cosa ma notai poi che stava solo dormendo.
Come mi avrebbe spiegato poi, il sesso e l’alcool presi insieme e in buona dose, la mettevano K.O.
Rassegnato, mi feci una sega per concludere quella meravigliosa sessione di fantasie realizzate mentre ero al gabinetto, tornai di là, la coprii con le coperte e mi misi a dormire al suo fianco.
A rovinarmi la serata, ci pensarono i pensieri: i dubbi su quella nostra relazione, il fatto che stesse incominciando ad essere un po’ troppo seria, i suoi discorsi durante la cena…
Mi addormentai, sfiancato. Chiaramente, la madre e il padre di Katherine non presero bene il fatto che non li avesse informati di passare la notte fuori. Ringraziai qualunque divinità fosse in ascolto quando la giovane, lievemente intontita, s’inventò ad arte la storia di un party a casa di un paio d’amiche. Si vedeva che invidiava la mia libertà ma non glielo feci pesare. Fatto sta che i parenti le vietarono d’uscire. La sua frustrazione non servì a nulla: non ci vedemmo per qualche settimana. Passai il tempo tra libri, modellismo e bar. Non tradii Katherine, anche perché la reputavo una rarissima eccezione. Entrambi avevamo trovato nell’altro qualcosa di attraente, di bello, di sexy. Ed eravamo rimasti imprigionati, catturati dalle malie del sesso, le riflessioni affogate tra fiotti di endorfine, il cervello in debito d’ossigeno nell’amplesso.
Non che mi dispiacesse…

D’altronde non sapevo cosa pensare: tutte le mie storie erano finite male. Non era una coincidenza: era una dannata regola! Una costante.

Ed era anche questo a fermarmi: la paura di un’ennesimo fallimento. Glielo avevo detto che noi non eravamo fatti per una vita così, marito e moglie, bigotti e impettiti. Avevo ragione a metà: non saremmo mai divenuti bigotti o impettiti ma una vita insieme sembrava essere sempre più vicina all’orizzonte. D’altronde sino ad ora nessuno di noi due aveva avanzato qualche particolare proposta ma sapevo che era solo una questione di tempo, così come sapevo che la vita “normale” non mi sarebbe andata. Io ero uno che viveva secondo altri valori. Per me lavoro, casa, persino gli amici e la famiglia, sono prevalentemente ostacoli.

Stavo pensando a questo mentre passeggiavo in centro. Saranno state le sette di sera. Avevo mangiato poco e niente. Non avevo avuto molta fame. Così mi ero deciso a uscire, per ammazzare il tempo. Tuttavia, dopo un paio di minuti mi resi conto che era il tempo ad ammazzare me. “Dannazione…”, pensai, “Era bello quando era solo sesso.”.

Fu proprio in quel momento che Katherine mi chiamò al cell. Diceva che i suoi erano fuori e che mi invitava a casa sua. Arrivai a quella casa monofamiliare pochi minuti più tardi, seguendo le sue indicazioni. Mi aprì e sentì la mia mascella cadere sulla soglia: indossava solo un’accappatoio. -Stavo giusto per farmi un bagno.-, disse, -Vuoi favorire?-.
Domanda retorica…

Alla velocità della luce mi spogliai e lei mi trascinò nella vasca da bagno, parecchio spaziosa e piena d’acqua calda. Cominciammo con l’insaponarci a vicenda, scambiandoci boccate di saliva. Le strinsi un seno, godendomi il contrasto tra la mia pelle e la sua. Le infilai due dita nella vulva, Stavo scavando ben bene dentro la nera mentre lei mi segava con maestria. E durante tutto ciò ci baciavamo, avvinghiati come cobra. Lei sopra, io sotto.
Una scena degna del Kamasutra.
Adoravo quella situazione e sentivo il mio pene che cresceva nella sua mano. Parimenti percepivo ogni singola contrazione della sua fica sulle mie dita. Era il paradiso.
-Oh….Sì… Mi piace!-, esclamò Katherine mentre inserivo un terzo dito. Piaceva anche a me. Incominciai a scoparle la fica con le dita, al ritmo con cui lei mi segava. I nostri gemiti e il pigro sciabordio dell’acqua divennero i soli rumori del bagno. Continuammo per un tempo indefinito, in estasi. Mi venne improvvisamente un dubbio. -Quando dovrebbero tornare i tuoi?-, chiesi. -Oh, saranno fuori fino a domani.-, fece lei, più concentrata sulle carezze che la mia mano disegnava sui suoi seni che sulla conversazione. Sentivo che entrambi stavamo per esplodere. Lei mi fece cenno di darle spazio mentre si metteva a pecora. La sodomizzai dopo una sua muta richiesta. Guaì, implorandomi di sfondarla. Era proprio una troia e a me piaceva un mondo.
Cominciai a pomparla e le venni dentro un’istante dopo che Katherine godesse. Le feci un clistere di sperma degno di Rocco Siffredi… Erano quasi le dieci quando me ne andai, rilassato e felice. Avevamo concordato che la prossima volta ci saremmo trovati in casa mia. Nella settimana successiva ci vedemmo spessissimo e facemmo pazzie.

Non solo a letto: ogni posto era buono!
Naturalmente non ci spingemmo mai a farlo in pubblico ma solo i ciechi non avrebbero capito che eravamo una coppia. Eravamo appiccicati come francobolli. Chiaramente non ci limitavamo a quello:
Ci baciavamo come adolescenti appena ci trovavamo, limonando selvaggiamente, fino a doverci fermare per non rischiare di andare troppo oltre.
Lei aveva praticamente smesso di indossare reggiseni, quindi mi bastava superare il primo strato di vestiti.
Katherine spesso mi accarezzava il pene, quando le circostanze lo consentivano. Io contraccambiavo sculacciandola o, se eravamo da soli, masturbandola.
Dopo un po’, lei mi fermava, cercavamo un posto isolato e sfogavamo i nostri istinti. Era perfetto.

Andò avanti così per una settimana, sì e no, senza nessun discorso d’amore o cavolate del genere.
Avrebbero rovinato ogni cosa.
Poi, una sera, arrivati a casa mia, lei mi confessò che la sua famiglia stava per trasferirsi in Inghilterra. Suo padre aveva trovato lavoro là e sua madre le avevano imposto di andare con loro. Piangeva, anche se cercava di contenersi. Fu una scena terribile anche per me. Restammo abbracciati per qualche minuto.
-Allora dobbiamo fare sì che questa sera sia speciale.-, decisi. Scaldai un po’ d’olio da massaggi, facendola distendere sul mio letto. Al diavolo le lenzuola! Lei si spogliò, facendo riemergere la sua bellezza d’ebano ai miei occhi.
Fu lì che capii che mi sarebbe mancata da morire.
E che quella notte doveva essere indimenticabile.
Presi un po’ d’olio e, dicendole di sdraiarsi supina, iniziai a massaggiarle le caviglie. Incominciò a gemere, accogliendo i miei abili tocchi con gioia. Continuai col massaggio tantrico fino a coprirla quasi totalmente d’olio e a farla venire. Non le era bastato e lo sapevo. Mi confessò che aveva smesso di prendere la pillola da un po’.
Ci prendemmo comunque il rischio, munito di un’erezione priapea e presi a penetrarla.
Quello e il fatto che avesse le mestruazioni resero la sua vulva più stretta e sensibile e me molto più attento. Fu fantastico: durò molto ma dovetti spesso fermarmi ad onorare anche il resto del suo corpo. Venni dentro di lei con uno schizzo da far fremere di gelosia un cavallo e rimanemmo abbracciati per qualche ora, ignorando il mondo attorno a noi.
Lei si rivestì, lasciandomi il suo tanga nero e dicendomi che ero stato l’unico uomo che avesse mai potuto veramente dire d’amare.
Non le dissi che anche per me era così.
Quella sera tornai a pianificare d’ubriacarmi.
Segretamente però ero felice: avevo fatto sesso come un dio.
Mi bastava.
O mi sarebbe bastato almeno per un po. Piazzato nel solito dannato bar, allo stesso tavolo tralaltro, dove l’avevo conosciuta stavo ingurgitando una bibita.La verità era che la fine della mia relazione con Katherine mi aveva fatto male, molto male. Senz’altro più di quanto mi ostinassi a pensare.

Era passato ormai un mese dalla sua partenza e non potevo fare a meno di ripensare a lei, a tutti quei momenti che, per quanto mi sia ostinato a crederli di solo sesso, erano molto di più. Indugiai ancora nel t&egrave al limone, non riuscendo proprio a cancellarmi quella donna dalla testa o a decidere di passare all’alcool. Serata vana. Anche peggiore di quelle prima di Katherine. Perché purtroppo avevo morso un frutto di cui non potevo più fare a meno.

D’un tratto la porta si aprì. Non ci badai: la più bella donna del mondo non mi avrebbe ridato la felicità.

Mi immersi nella lettura di un giornale lasciato dal precedente occupante del tavolo. Non ero realmente interessato nelle notizie: lo facevo solo per fare qualcosa. Per tenere la mente impegnata su qualcosa che non fosse Katherine, la sua bocca, la sua pelle, il suo odore e il suo sapore. Inutile, ovviamente.

Flashback dei nostri momenti più lieti mi attraversavano la mente. Mi venne anche un principio di erezione. Mormorai un imprecazione, cercando di polarizzare la mia attenzione sul giornale.

Una donna si sedette al tavolo accanto al mio, lo capii dal rumore dei tacchi. Non ci badai: non volevo farmi distrarre da nulla, solo sprofondarmi nell’oblio. Avevo anche provato a chiamarla, spendendo un casino. Niente.

Ovviamente il mio t&egrave freddo, intanto, stava finendo. Pensai di andarmene. Di ordinarne un’altro bicchiere. Di varcare la linea e ordinare un coca e rum.

Il bar aveva pochissimi avventori quella sera. I rumori erano anche meno. Così sentii i tacchi spostarsi, cambiare direzione. Sentì il rumore di qualcuno che si sedeva. A poca distanza da me. Ora, dato che ero in angolo sulla parete di fondo, ero seduto su una panca, non su una sedia. Nulla ci divideva.

Non badai a quella donna sconosciuta che stava manifestando scarsissimo interesse nel violare il mio spazio personale. D’un tratto mi chiesi se un’altra ragazza avesse potuto farmi scordare Katherine. Mi immersi nella lettura del giornale quando, improvvisamente, una mano si piazzò sul cavallo dei miei calzoni. Soffocai l’impulso di spezzare il braccio della ninfomane che mi prese lentamente a segare. Guardai la mano e trasalii: l’avrei riconosciuta tra mille. Una voce mi arrivò all’orecchio.

-Era un mese che aspettavo questo momento…-. Anche la voce era eccitata.

Scansai il giornale e baciai le labbra di Katherine, che credevo non avrei più rivisto. Lei gemette mentre continuava a toccarmi. La sua bocca sapeva di alcool e passione. Il mix perfetto. Mi staccai il tempo necessario da dirle tre parole.

-Usciamo da qui.-.

Lei annuì, ansimando.

Riuscimmo a trattenerci per miracolo dall’offrire uno spettacolo fuori programma ai pochi avventori del bar. Uscimmo, pagando alla svelta (anche se tutti dovettero capire quale fosse il seguito della serata). incominciammo a toccarci e baciarci in maniera ardita già durante la strada, pronti ad esplodere. -Come hai fatto a tornare?-, le chiesi. -I miei hanno litigato…-, fece Katherine, le belle labbra che si chiudevano ancora sulle mie. Continuammo a limonare, muovendoci quasi alla cieca in universo parallelo e oscuro.

Ero, inutile negarlo o sottolinearlo, una sbarra di ferro. Le nostre acrobazie proseguirono mentre deambulavamo verso casa mia. Non dicemmo più una parole, preferendo utilizzare l’ossigeno in altri modi. Le passai una mano tra i capelli, scendendo sino alle natiche sode. Katherine emise un gemito strozzato quando infilai la mano tra le sue gambe. I suoi leggins erano già umidi. -Si vede che sei pronta…-, dissi aprendo la porta di casa. -Taci e scopami!-, mi ordinò lei. Ne ero ben lieto…
Non arrivammo dentro casa: mi tirò fuori il pene mentre aprivo la porta e prese a succhiarmelo. Ringraziai l’ora tarda: i miei vicini avrebbero avuto reazioni… problematiche.

Il pompino, fatto veramente ad arte (dovevo davvero ammetterlo) continuò. La cosa che più mi stava eccitando erano le espressioni sul volto della domenicana: mostrava un piacere incredibile, un’indicibile volontà di soddisfarmi. Tra quello e il modo in cui mi guardava (che praticamente gridava: “Vienimi in bocca!”), mi resi conto che stavo venendo. La presi allora per i capelli, forzandola a smettere e le intimai di entrare. Entrammo, solo per iniziare un selvaggio sessantanove sul pavimento del corridoio. -Sì…-, fece Katherine quando le infilai la lingua nella fica, -Mi era mancato tanto….-. Eravamo entrambi a corto d’ossigeno.

Anche a me era mancata. Preferii però farglielo sapere con una leccata di fica di quelle vere e, per concludere, le morsi il clitoride con leggerezza e lentezza tali che mi venne sul volto, spruzzando una gran quantità di umori. Preferii berli mentre venivo nella sua bocca grazie alla sua eccezionale bravura con la lingua. Le godetti in bocca e, prevedibilmente, ingoiò tutto quanto. Saranno stati quattro schizzi di sperma mica male…
Rimanemmo distesi in quella posizione per un tempo che non mi presi la briga di calcolare prima che riuscissi a parlare.

-Mi sei mancata molto, moltissimissimo.-, dissi senza badare alla possibilità di apparire banale, -Ma mentirei se ti dicessi che voglio sposarti e neppure tu vuoi una cosa del genere.-.
Non era una domanda.
Katherine ascoltava, il bel capo appoggiato sui miei lombi. -Entrambi però vogliamo stare insieme così, consapevoli che ci soddisfa, che placa qualcosa dentro di noi.-, continuai.

-Perché quindi non essere solo questo: scopamici?-, chiesi.

Lei sorrise. -I miei si sono divisi. Mia madre &egrave andata dai suoi con mia sorella. Mio padre &egrave rimasto a Londra. Ho io il timone della nostra vecchia casa. Non hanno approvato che restassi ma l’ho fatto. Per te.-, ascoltavo mentre parlava, una parola alla volta, -Quello che hai detto però &egrave giusto. Né tu né io vogliamo una vita normale.-.

-Quindi &egrave un sì?-, chiesi.

Lei mi fece attendere per minuti che mi sembrarono secoli. Non protestai: la nostra vita era così: vendette che potevano apparire meschine ma in realtà erano prove della nostra affinità. Di quanto tenessimo l’una all’altro e viceversa. Infine lo disse.

-Sì.-.

Una nuova pagina della mia vita era appena iniziata.

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