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Tempi travagliati – Capitolo 1 – Perdere (e trovare) lavoro

By 5 Ottobre 20212 Comments

(Ripropongo un mio racconto di anni fa)

Era stato un periodo travagliato.
La crisi aveva portato molte aziende a chiudere o a ridurre il personale e quella dove lavoravo io aveva chiuso, di colpo; avevamo sì la sensazione che le cose non andassero troppo bene, ma poi di colpo, dalla sera alla mattina, la ditta era evaporata e spariti, durante una notte, erano anche gli essenziali macchinari che ci permettevano di avere, nonostante tutto, sempre una nostra rassicurante fetta di mercato.
Così il venerdì sera ero il responsabile di una delle due linee di produzione ed il lunedì mattina ero disoccupato, davanti al capannone vuoto di quella che era la ditta che anch’io in fondo, col mio impegno e la mia capacità, avevo aiutato a prosperare.
Sparito tutto: i macchinari, i documenti, i principali, perfino gli ultimi due stipendi e il nostro TFR…
A casa, mia moglie Cate (Caterina, ma tutti la chiamano Cate!) ascoltò il mio racconto affranto: ero quasi sul punto di piangere, dalla rabbia e dalla frustrazione.
Posò Alessandra nel suo lettino e poi mi si avvicinò, amorevole e mi rincuorò.
Disse che Ale ormai era abbastanza grande e che quindi era giusto che anche lei si mettesse a cercare un’occupazione.
La abbracciai e guardai Alessandra: una testolina di riccioli biondi su un esserino di diciotto mesi di età, la nostra ragione di vita.
Comunque, pressati dalle rate del mutuo, dalle bollette e dalla necessità di mantenerci vivi, valutammo di cosa potevamo fare a meno, del tutto o in parte e subito vendemmo la vecchia utilitaria di Cate e la mia moto da enduro.
Per fortuna avevamo qualche risparmio che ci permise di tirare avanti mentre cercavamo lavoro, qualunque lavoro, per continuare a combinare il pranzo con la cena.
Anche sui “nostri momenti” pesavano le difficoltà del momento: il nostro sesso, prima gioioso, spensierato, con Cate che mi aveva concesso ogni parte di lei, poi diventò un angolo nel quale cercare di trovare una pausa alle giornate disperanti, una sorta di zattera da raggiungere per prendere un po’ di requie    nella tempesta della vita, ma poi né io né lei avevamo più la testa, la concentrazione, per farlo con passione e quindi era diventata solo una cosa rituale, tra noi.
Ogni tanto, tra un colloquio “Le faremo sapere” e l’invio dei curriculum all’universo mondo, trovavamo qualcosa da fare, sia Cate che io: pulizie, facchinaggi, prendersi cura di anziani o bambini, tagliare l’erba, riverniciare… cose così, giorno per giorno.
Quando entrambi eravamo impegnati, per fortuna, potevamo parcheggiare Alessandra da mia suocera, che era felicissima di fare la nonna a tutti gli effetti.
Una sera mia moglie tornò dall’ennesimo colloquio con una luce strana negli occhi e l’ombra di un sorrisetto sul viso.
Avevo preparato la cena e lei, annusando golosa gli aromi nell’aria, annunciò: «Mhhh, che profumino! Dai, se è pronto andiamo a tavola che ho una fame esagerata!»
Cominciammo a mangiare e notavo che moriva dalla voglia di raccontarmi qualcosa –qualcosa di positivo, vista l’aria contenta che aveva!- ma, per quelle strane forme mentali delle donne, aspettava che fossi io a dare la stura alla sua narrazione.
«Ho come l’impressione che un colloquio che hai avuto oggi abbia avuto un esito interessante…» la provocai.
Mi rispose con un enorme sorrisone soddisfatto: «Avevo tre appuntamenti, oggi: i primi due son stati così demoralizzanti che stavo per rinunciare ad andare al terzo…
Ma per fortuna ci sono andata e… ed è stato un colloquio lungo, approfondito: hanno voluto conoscere le mie competenze, verificare la mia padronanza del francese e dell’inglese, la mia disponibilità a lavorare, in certi periodi, anche oltre gli orari canonici e, nel caso, fare qualche breve trasferta…»
Bello! Tutto bello, stupendo; il posto perfetto… se lo avessero proposto A ME!!! La invidiai per un istante.
Ma d’altra parte, riflettei subito, era meglio che lo avessero proposto a lei, cioè a uno di noi due, piuttosto che a qualcun altro!
«E tu…?» sondai.
«Scusami amore mio, ma non c’era proprio il tempo di chiamarti per chiederti cosa ne pensavi… Ho accettato, ovviamente!» Poi, con una punta maligna, aggiunse: «Ovviamente, se non ti sta bene, posso sempre chiamarli domani e dire che non se ne fa niente perché mio marito è contrario…»
Mi fece sentire ancora più cretino e stronzo!
«Ma no, Cate, cosa dici? Sono felicissimo di questa possibilità che ti… che CI è capitata!» E sorrisi, al massimo delle mie forze!
Poi mi allungai sopra al tavolo e le posai un tenero bacio sulle labbra.
Lei era di nuovo tornata nel suo Nirvana personale: «Sai… è una ditta di import-export e sarò l’assistente di uno dei titolari; per i primi tempi mi hanno proposto uno stipendio già interessante, ma con premi legati all’andamento della ditta…» Mi strizzò l’occhio, complice.
Quando mi disse il nome della ditta –avevo già sentito- e quello che avrebbe guadagnato al mese, capii che avevamo fatto bingo!
«Domattina alle nove mi aspettano per firmare i contratti e poi per cominciare subito a capire le mie mansioni»
«Ti ci accompagno io, in macchina…» proposi, servizievole.
«Ma per arrivare là, all’ora di punta, ci vuole quasi un’ora da qui… Doverti alzare tu, dover preparare Ale, poi accompagnarmi là e tornare a casa con la bimba…
Meglio se la macchina la prendo io!»
Occazzo… «Ma… e se salta fuori un lavoro e devo andare??» Mi giravano i coglioni che si prendesse la macchina!
«Nel caso, avverti mia madre che passi a prendere Ale e ci vai col mio cinquantino…»
«Ma…» «Niente ma, amore mio: da adesso sarò io a mantenere la macchina e quindi è giusto che, visto che mi serve, la usi…»
Mi guardò, mi fece un sorriso che, sotto la benevolenza, nascondeva forse anche uno spicchietto di malignità: «Il mio stipendio ci permetterà di vivere accettabilmente e quindi potresti anche occuparti tu della casa, finché non trovi anche tu un posto stabile, senza doverti sbattere per trovare lavori da venti euro in nero per mezza giornata di duro lavoro!»

A farla breve, Cate cominciò a lavorare per la Ditta (lei diceva “ditta”, ma si sentiva la maiuscola, nella sua voce!) ed io, oltre a curare la casa e cucinare, non mi arrendevo nella ricerca di un Lavoro (serio, con la maiuscola!) e, in attesa di questo, di qualche lavoretto molto volatile.
Cominciavo ad essere conosciuto e a volte, se qualcuno aveva bisogno di un coloritore, un traslocatore o un ponteggiatore, mi chiamava.
Avendo le spalle coperte dal regolare stipendio di Cate, finalmente potevo permettermi il lusso di rifiutare i lavori che fossero pagati quasi niente o in posti lontanissimi da dove vivo.
Cate andava a lavorare sempre in modo elegantemente sexy e non aveva mai un orario preciso per rientrare.
Al di là dell’aura sorridente che la circondava, spesso la sera mi diceva che era troppo stanca e mi mandava in bianco; ero tentato di protestare, di pretendere i miei diritti coniugali, ma non volevo rischiare di sentirmi dire che lei era stanca perché lavorava per mantenere tutta la famiglia, anche me!

Mia moglie è un donnino davvero grazioso: minutina, ma con un bel culetto, due tettini non esagerati (una terza) ed un pancino appena bombato dopo la gravidanza ed i capelli quasi neri contrastano deliziosamente con gli occhi grigi.
Ha sempre avuto un certo stile per vestirsi, anche quando eravamo molto giovani e soldi non ne avevamo, ma –pur piccolina- aveva un portamento che anche un sacco di juta le starebbe bene.
Aveva lavorato fino a quando non era restata incinta ed avevamo convenuto che, vista la sicurezza (sicurezza un par di balle, ma non potevamo saperlo!) del mio lavoro, lei si sarebbe dedicata alla casa ed al “cucciolo”.
Ma poi, da quando aveva ricominciato a lavorare, aveva anche cominciato ad acquistare capi firmati ed a vestirsi in maniera davvero elegante, anche se mi lasciavano perplesso l’effetto vedo-nonvedo che avevano molti capi che indossava per andare a lavorare.
Avevo provato a portare l’argomento di una nostra conversazione sul suo abbigliamento, ma partendo alla lontana: chiedendomi –retoricamente- quanto dovevano costare tutti quei capi firmati che sfoggiava…
Mio tappò la bocca con una risolutezza che francamente non mi aspettavo e mi fece notare che prima di tutto aveva una certa cifra mensile che la Ditta le aveva destinato appositamente perché l’assistente di uno dei direttori potesse ben figurare e poi, comunque, spendeva anche dei SUOI soldi, guadagnati col SUO lavoro…
Mi sentii avvilito, dalla sua virulenta reazione.

Le settimane stavano diventando a poco a poco mesi e cominciavo a considerare che ormai con Cate facevo l’amore raramente e sempre in modo… frettoloso, come se lo facesse controvoglia; avevo cominciato a pensare, con un certo turbamento, che i suoi orari così dilatati le concedessero la possibilità di vedere un altro uomo (Forse il suo capo? Un collega?) a discapito delle mie necessità.
Ma poi, una sera, ci fu un cambiamento che ormai non mi aspettavo: tornò a casa facendo le fusa come una gattina e dopo cena, appena messa Ale nel suo lettino, mi saltò letteralmente addosso, dimostrando una voglia (e delle variazioni rispetto al nostro solito!) decisamente inaspettata.
Da quella sera, la trovai di nuovo disponibile, come prima che cominciasse a lavorare, anche se –forse- con una carica erotica forse maggiore.
Poi, parlando, mi fece capire che era stata tesa per il nuovo contesto e che, quindi non aveva voglia di far sesso con me… Poi, però, aveva ragionato che i suoi nervosismi non dovevano mettere in pericolo il suo matrimonio col sul “Cucciolo Ciccio” preferito.
Quanto tempo, che non usava più quell’affettuoso soprannome! Mi sentii sciogliere di rassicurante piacere.

Un giorno, avevo appena finito di inviare i curricula per email a tre aziende del circondario, quando mi suonò il cellulare. Risposi.
«Giuuulio? Sono Spadafooora!» Lo strascicato accento palermitano mi aveva fatto riconoscere il titolare di una ditta di ponteggi metallici prim’ancora che mi dicesse il suo nome.
«Seeenti: uno dei ragazzi si è ammalato e mi serve che tu vada a dare una mano a Ahmed e Goran…»
Avevo già lavorato coi due: nessun problema!
Ci accordammo per il mio compenso, mi diede l’indirizzo e, tempo un’oretta, stavo scalando i ponteggi di un palazzo in centro.
Un sorriso e una pacca sulla spalla coi due e poi, testa a cuocere a smontare il reticolo di morsetti, tubi Dalmine e tavole.
Dal piano più alto, stavo passando a Goran le tavole che avevamo smontato attraverso la botola della scala, ma ad un certo punto il lavoro, che fino ad allora aveva proceduto con la sincronizzazione di un balletto, intoppò: Goran non stava afferrando la tavola da ponte che gli passavo!
Temendo che avesse avuto un qualche problema, appoggiai la tavola e mi affacciai attraverso la botola per rendermi conto delle sue condizioni e lo vidi, con uno scarpone appoggiato distrattamente sul fermapiedi, gli avambracci sul parapetto, la bocca semiaperta e lo sguardo perso nel vuoto.
«Goran!» Lo chiamai, imperiosamente!
Lui sussultò, evidente distratto, ma mi spiegò: «Cazzo che fica, Giulio! Una gran porca! Che troia!»
Lo guardai, senza capire: «Ma di chi cazzo parli? Sei rincoglionito?»
«Vieni qui e la vedi! Cazzo, che troia, con due maschi!»
A quel punto ero incuriosito e scesi al piano di sotto, seguito da Ahmed che aveva seguito il nostro scambio di battute.
Goran ci indicò, col braccio teso, la finestra di un palazzo lì vicino che si scorgeva tra gli alberi: come in tutta la zona, anche quel fabbricato era nato come edificio d’uso per un’industria, ormai chiusa da anni ed era già stato trasformato in una serie di costosi loft per rampanti professionisti urbani, come sarebbe diventato quello dove stavamo lavorando noi.
Dal punto dove era Goran, si riusciva appunto a vedere l’interno di un loft, grazie alla finestra di grandi dimensioni ed oltre il vetro, un lettone dove due tizi grandi e grossi si stavano occupando di un’assatanata donna che, in confronto a loro, sembrava una bambolina.
La vedevamo mentre uno dei due la prendeva alla pecorina –la distanza e l’angolazione non permetteva di capire quale fosse l’orifizio usato dall’uomo- mentre l’altro teneva il volto della donna stampato sul pube, muovendole la testa con le due mani e scopandola evidentemente in bocca.
Indubbiamente, la visione era estremamente erotica, ma pur apprezzandola, sentivo una specie di malessere, di sensazione fastidiosa… Però, stranamente, questa sensazione aumentava anche di molto la mia eccitazione, come un bimbo che si trova davanti i pacchetti dei regali di Natale da scartare.
I miei due compagni continuavano ad aggiustarsi il pacco e, lo confesso, ero eccitato anch’io e quindi li imitavo: avevo quasi voglia di tirarlo fuori e farmi una sega liberatoria, ma valutai che non era il caso… Mi venne anche da sorridere, pensando che forse la stessa voglia e lo stesso pensiero l’avevano avuti anche i miei compagni, ma che anche loro…
Poi il tipo che stava scopandola in bocca la allontanò dal suo pube e si lasciò cadere all’indietro, ma sempre tenendola per i capelli e tirando in modo che lei si sfilasse dalla pecorina che stava subendo e risalisse fino a potersi far scopare dal tipo; potemmo notare la grossa cappella del tizio sprofondare nella fica della donna, mentre l’altro aveva risalito il letto in ginocchio fino a mettersi dietro alla donna ed a incularla a sua volta.
Il fatto siano riusciti a realizzare la doppia penetrazione in una manciata di secondi, la diceva lunga su quanto la donna fosse allenata a questa pratica, anche perché si intuiva che anche l’altro cazzo fosse di dimensioni più che rispettabili!
Per il tempo di un battito di ciglia, vidi la spalla libera della donna e notai un tatuaggio, un tatuaggio con un’aria familiare, ma era stato solo un attimo e -anche per la distanza- sbagliarsi è facile, mi dissi.
L’uomo che la stava chiavando in fica, sempre tenendola per i capelli, la baciava in bocca, ma poi la staccò da se e la fece girare, per poter baciare anche il suo inculatore.
«Che faccia da gran troia!» Valutò sghignazzando Ahmed, mentre Goran rideva anche lui e anch’io la vidi, bloccandomi la risata complice in gola e sentendomi gelare: era la mia Cate!

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