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Dopo

By 7 Ottobre 2017Aprile 2nd, 2020No Comments

C. era dominicana, splendida nella sua pelle leggermente scura, coi capelli lunghi sino a quasi mezza schiena, gli occhi scuri e profondi e i seni piccoli ma pronunciati.
Tra me e me avevo spesso sperato di trovarne una come lei. Una che, a un corpo eccelso, unisse anche una mente brillante e un temperamento solare.
E avevo avuto quella fortuna.

Lei stava sotto, accogliendo ogni mia spinta con un gemito, adorando ogni istante, bevendo insieme a me dalla coppa della passione. Gemevamo quasi all’unisono mentre mi sforzavo di non venire. Non subito.
Volevo che durasse. Volevo prolungare quel nirvana, perdermi dentro di lei. Annullarmi come la cognizione del tempo che avevo perso quando, trovata la nostra alcova, il nostro talamo, c’eravamo reciprocamente dati piacere sino a quell’istante.
Lo pretendevo. Mi sforzai di non cedere.
Ma dopo un po’ mi sentii come un equilibrista in bilico su una corda. La guardai. Allungava il collo, arcuava la schiena, tutto nel suo corpo lasciava presagire un godimento estremo. Gli occhi socchiusi la facevano sembrare in trance, come se la coscienza fosse lontana, annegata tra i flutti del piacere e la marea dell’eros che ci pervadeva.
Fu un grave errore guardarla. L’avevo già fatto. L’avrei rifatto altre mille volte.
Ma sapevo che era un’errore, perché ora avrei voluto darle tutto. Darle il massimo piacere.
E poteva accadere solo godendo a mia volta del suo corpo. La baciai. Mai con la lingua. Non le piaceva.
Ma andava bene. Non cercavo un bacio fine a sé.
Cercavo una comunione e parte di me sapeva che l’aveva trovata ma purtroppo, sapevo bene che sarebbe presto finita. Eppure, guardandola capì che non ci sarebbe stato nulla di meglio. Mai.
Niente meglio di quell’istante in cui due corpi, due menti e due anime divetavano un solo essere.
C. sospirò quando uscì. Di poco. Volevo avere lo slancio per entrarle dentro. Volevo sciogliermi in lei.
La sua voce mormorò un’apprezzamento che, detto da chiunque altro sarebbe stato generico ma non da lei. Da lei era pura poesia. Le tintillai i seni e strizzai i capezzoli. Lei alzò le gambe, pronta al gran finale.
Entrai dentro di lei fino in fondo. Affondandole dentro e poi spingendo a ritmo parossistico, portando il sesso all’estremo, incurante di tutto tranne quell’istante.
Sentii montare l’orgasmo e ruggì gutturalmente la mia approvazione mentre il suo godimento incontrava il mio. Le nostre voci si unirono come il nostro sommo piacere. Poi caddi, sforzandomi di essere delicato, sul suo petto. E la mia mente si spense.
Galleggiavo in una foschia. Chiudevo gli occhi, li riaprivo. Era un nirvana. Le accarezzai il viso mentre lei intrecciava le gambe alle mie, giocando a un gioco che già conoscevamo ma che mai cessava di stupirmi.
“&egrave stato bellissimo.”, sussurrai. Odiavo parlare ma nel dopo la parola era tutto quello che restava. L’unica possibilità di dare al paradiso tempo e spazio.
“Lo é sempre.”, rispose lei. La baciai in bocca. La dominicana si staccò da me il tempo necessario da togliermi il comdom e gettarlo, avvolto in un fazzoletto, nel cestino.
“Mi fai sempre sentire in paradiso…”, sussurrai col cuore doppiamente infranto dalla consapevolezza che presto saremmo stati divisi di nuovo e che un giorno, lei se ne sarebbe andata.
“Grazie, tesoro. Sto benissimo con te.”, sussurrò lei. Scese ad accarezzarmi il petto. Molto lentamente. Il mio membro non sembrava volerne sapere di un secondo round.
E Io? Avrei spogliato simile bellezza della solennità di un momento simile, in favore del fugace piacere?
“Ora capisco il tantra.”, disse. Lei sorrise.
Non parlavamo molto. Io parlavo. Ma lei ascoltava.
E questo valeva molto di più del parlare.
La guardai. Nuda, stretta a me, riflessa nello specchio del soffitto, eravamo come il sole e la luna, gli eterni opposti avvinti a un ciclo indissolubile.
Era bellissima. E per un istante, potei credere di esserlo anche io. Lì potevo mandare a quel paese tutto e tutti. Un’intera società di ipocriti…
“Sai, presto dovrò andare dai miei parenti, a Xxxxxx.”, disse lei. Io annuii, il cuore gonfio di dolore. Consapevole che la nostra separazione mi avrebbe ancora visto privato della sua compagnia.
“Cosa dici…?”, chiese lei. Il mio pene si era intanto ripreso. Ma io sapevo bene che c’era un limite.
“il sesso é sacro”, le avevo detto un tempo.
Lo é davvero, se fatto alle giuste condizioni. Al giusto modo. E in quel momento non ero sicuro di voler aggiungere un secondo tempo alla nostra lotta erotica.
Preferivo lasciare le sensazioni, i ricordi, sentire il suo cuore battere col mio. Assaporare l’estasi di un unione che sapevo già essere troppo breve eppure inestimabile. Scesi con una mano a carezzarle la vulva, lasciando che il mio indice entrasse dentro lei di poco. Lei emise un suono sottile, meno di un gemito, più di un respiro. Qualcosa a metà tra i due.
“Ci sto pensando…”, sussurrai. Ero combattuto. Davvero. Ogni volta che stavo con lei volevo farlo.
Ancora, ancora e ancora. Volevo ignorare tutti quei maestri cinesi del Dao che dicevano di conservare l’energia. Volevo bruciare. E sapevo che non dovevo.
Ma volevo…
E allora restavo fermo, contemplavo i nostri corpi intrecciati sugli specchi gemelli, la sua pelle color caramello che si univa al bianco della mia. Il suo corpo che non ospitava tatuaggi che aderiva al mio essere, marchiato dai segni che io stesso avevo voluto impremirvi. Pura poesia.
Il tempo perdeva di significato con lei. Poteva passare un ora o uno Yuga. Non mi interessava cosa sarebbe successo. Potevo morire o vivere altri mille anni.
Ma ero lì, con lei. A sentire i nostri corpi che fermi, si sfioravano e si conoscevano con una tale finezza da rendere il diagolo vano. Eppure, come sempre, non era possibile non parlare. Forse perché temevo di abbandonare il noto per l’ignoto.
La baciai accarezzandole il pube, la vulva, scendendo per quanto possibile, come a volermi accertare che tutto fosse ancora lì. Che lei non fosse stata un sogno.
Era così? Era quella l’amata dei canti salomonici? La Presenza, la divina Sofia, la Magna Mater? La Shakti che aveva spinto Shiva a illustrare al mondo i metodi per raggiugnere l’illuminazione? Era lei Gaia? Era lei?
No. Ma ne era un simulacro. Ne condivideva lo spirito.
Sospirai. Il tempo per decidere finiva. Il mio tempo lì, finiva. Decadeva. Mi rizzai a sedere, cercando di decidere. Infine le sorrise.
“Oggi no, tesoro. Devo andare.”, disse. Lei annuì.

Avevo il cuore in pezzi. In pezzi per avermi fatto conoscere quella creatura splendida e per avermi vincolato a poterla avere solo per quei pochi istanti.
Ero gioioso però: avevo potuto averla per pochi istanti.
Farla mia (se poi si poteva dire) ed essere suo.
Non era poco. Non lo sarebbe mai stato.
E mentre mi rivestivo sentendo su di me il peso del mondo, consapevole che fuori dal limbo non vi sarebbe stata pietà, mi voltai verso il mio angelo.
Lei si stava facendo una doccia. Io sorrisi, pensando a quanto sarebbe stato bello essere ancora con lei.
Non solo nel sesso, parlare per ore dei riti antichi a cui lei ascoltava con passione, parlare e ascoltare vicendevolmente. E poi portare il discorso ancora oltre le parole. Scivolare nella passione assime.
Quanto sarebbe stato bello!
Ma non poteva essere così. Eravamo entrambi vincolati ai destini che avevamo.
La guardai. Ci eravamo rivestiti. Sospirai.
Uscimmo dalla stanza ci abbracciammo. Poi ci separammo. Lei andò verso la sua destinazione.
Io? io uscii. Respirai l’aria del Mondo una volta ancora. Pescai dalla tasca il mazzo di Arcani ed estrassi una carta. Il Giudizio.
Sorrisi. E con le cuffie che pompavano in Negrita e la loro canzone “Sex” in testa, spiccai nuovamente il volo camminando su strade devastate che già conoscevo, sentendomi terribilmente libero.
E allo stesso tempo, già prigioniero della nostalgia dell’abbraccio di C.

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